43 anni dopo la strage del 12 dicembre 1969 aleggia ancora sopra di noi, come una nube tossica dalla filigrana radioattiva che getta il suo invisibile fascio di luce scura su tutto il sottostante.
Marco Tullio Giordana, spesso alle prese con rinvenimenti di quegli anni, si incammina in un percorso palesemente ostile facendosi aprire la strada dalle figure di un Anarchico Pinelli bonario e ribelle al quale presta il volto Pierfrancesco Favino e di Valerio Mastandrea nei panni di un Commissario Calabresi sempre in apprensione, prigioniero di un’ espressione atona e perennemente afflitta.
Il primo uscirà presto di scena con un tonfo sordo fuori dall’inquadratura, conseguenza di un volo tristemente noto ed unico episodio in questa vicenda che abbia portato a delle condanne “incerte, esecutive e definitive; l’altro lo vedremo esanime in terra alla fine, soggetto di una fotografia di sintesi agghiacciante e per certi versi immutata dello stato delle cose.
Per muoversi in questo ginepraio fitto di nebbie e depistaggi son serviti molti anni di preparazione: poi si è scelto di usare come architrave il libro di Paolo Cucchiarelli “Il segreto di piazza Fontana”, tenendo in debito conto gli atti processuali e pure gli scritti di alcuni testimoni dell’epoca (Stajano, Nozza, Cederna), ognuno latore di un tassello del mosaico anche se, come ben ben sappiamo, nessuno in grado di indicare la luce in fondo al tunnel.
Il racconto è appunto una composizione di ipotesi, macchinazioni e suggestioni delle quali poche o quasi nessuna possono limpidamente affermarsi sopra le altre ed è necessariamente affollato dei molti personaggi della vicenda stessa e della nostra storia; troppi di questi risultano però descritti con eccessiva semplificazione o smisuratamente schierati dalla parte del bene o del male, connotati di accezioni talvolta personali o vagamente superficiali: è il caso ad esempio dell'Aldo Moro interpretato da Fabrizio Gifuni, fin troppo enfatizzato sul suo versante morale e positivo, ma anche di molte altre figure politiche ed istituzionali come il Questore Guida o il Presidente Saragat, delle quali il profilo è disegnato con i tratti tipici dello stereotipo e che vanno a detrimento della credibilità realistica del racconto; molto meglio la figura del giornalista Marco Nozza (Thomas Trabacchi).
I fotogrammi apicali della pellicola e che toccano la nostra sensibilità però sono solamente quelli di repertorio quando (ci)rivediamo (nel)la folla immensa di P.zza del Duomo a Milano il giorno dei funerali delle vittime e dai quali il regista ritaglia anche degli sgranati quanto toccanti primi piani dei parenti inconsolabili. Un vertice emotivo paragonabile a questo la finzione degli attori riesce a toccarlo forse solamente quando in un obitorio propone, davanti al corpo esanime di Pinelli, sua madre e sua moglie Licia, una Michela Cescon che nonostante la sua diradata presenza lascia il segno più di altri.
“Vedere troppe cose è insopportabile” afferma uno dei sordidi protagonisti che incontriamo lungo il racconto... metterne insieme altrettante un esercizio non semplice da rendere in forma di cinema.
Marco Tullio Giordana ci prova con diligente passione ed obiettività quanto basta; per quanto complicata non è sul fronte della ricostruzione dei vari ed intricatissimi episodi che perde il passo, piuttosto lasciando il suo lavoro privo di un afflato capace di restituire le atmosfere di quegli anni attraverso una dimensione artistico-cinematografica in grado di fonderne assieme rabbie ed istinti, pulsioni interiori e tormenti intellettuali e tutto quello sciamare di vita in rivolta del quale doveva esser intriso all’epoca ogni singolo granello d’aria.
Il punto debole sembra potersi rilevare in un certo appiattimento generale nel quale rimangono relegate le manifestazioni di piazza e le contestazioni dell' “autunno caldo” oppure nella convenzionale maniera di ricostruire le ipotesi delle varie commistioni politiche e criminali mischiate alle devianze dello stato, nello stanco rimbalzare tra le riunioni nei circoli anarchici, le adunanze fasciste e gli incontri in misteriosi “palazzi paralleli” che sanno molto di già visto.
Più che di una ordinata suddivisione in capitoli ci sarebbe stato bisogno che i vari teoremi complottisti ed i frammenti sparsi del tentativo di “golpe Borghese”, le intemperanze di Feltrinelli o l'alone dei Colonnelli Greci assieme alla varie piste rosse o nere fossero state in grado di staccarsi dalla loro pedissequa rappresentazione per “risorgere” in una nuova forma capace di utilizzare gli attributi propri del cinema e della revisione poetica ed emozionale, abbandonando il terreno dell'indagine e del documento per arrivare a toccare corde più intime e sfociare in nuove consapevolezze e turbamenti.
Tutto invece rimane distante, prigioniero di una freddezza forse non desiderata nemmeno dagli stessi autori (in sceneggiatura i soliti Rulli e Petraglia) e senza uno “scatto di reni” che giunga dal profondo delle viscere; neanche arriva il soccorso di un protagonista prorompente che compatti e tiri le fila, come fu ad esempio sempre per Marco Tullio Giordana il Peppino Impastato de “I cento passi” interpretato da Luigi Lo Cascio, qui presente nei panni del Magistrato Paolillo.
Così la pellicola finisce per annaspare tra le onde degli avvenimenti numerosi e ridondanti e per tradire anzitutto la natura stessa del suo titolo, che farebbe sperare di poter condurre su un versante letterario l’indecifrabilità del reale e farne qualcosa di leggibile ad un livello emotivo.
Alla resa dei conti “Romanzo di una strage” fatica a trovare una sua compattezza, un po’ santifica e un po’ indulge, nel mentre generosamente prova a ridestare l'attenzione del Paese invitandolo a “ricordarsi di non dimenticare” ma gli episodi che affastella in fila né risvegliano il necessario dolore del cuore, né aprono nessun vero varco che possa gettarci oltre gli invalicabili ostacoli dove troveremmo, forse, una Nazione mai conosciuta prima, più unita e felice perché finalmente libera dall'afflittivo fardello di un opprimente passato.
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