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mercoledì 10 luglio 2013

SALVO di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza


Applauditissimo vincitore del “Gran Prix” e del “Prix Révélation” a Cannes 2013 nella “Semaine de la Critique”,  “Salvo” è l’esordio nel lungometraggio di Fabio Grassadonia ed Antonio Piazza, già attivi nel mondo del cinema come consulenti e sceneggiatori di grandi gruppi del settore come “Filmauro” e “Fandango”.

A sostenerli nell’avventura il produttore di “Acaba” Fabrizio Mosca (“I cento passi”) e la fotografia di Daniele Ciprì; ad impreziosire il loro lavoro – durato in tutto cinque anni - una prova succinta ma generosa del concittadino Luigi Lo Cascio.

Che i numeri per chiamarsi fuori dalla mischia ed ergersi sopra la moltitudine li abbia tutti, la pellicola dei due registi Palermitani decide di chiarirlo fin dalla primissima immagine quando,  lasciandosi alle spalle un indefinibile schermo straripante un blu opaco, l’obiettivo filtra attraverso  gli spazi che gli si parano davanti e si ritrova oltre una tendina,  ad indugiare con grazia su alcuni particolari: una bottiglia, una camicia piegata e qualche dettaglio anatomico.

Poi ecco un ampio campo in esterno dove il protagonista scivola via veloce rasente ad un muro,  sbiadito nel contesto generale dell’immagine che quasi se lo ingoia; quindi lo seguiamo per alcuni  lunghi minuti mentre la camera riprende soltanto la sua sagoma di spalle che si infila in un appartamento ed avanza  nel buio.

Adesso Salvo (Saleh Bakri) - un giovane killer mafioso - sta indugiando sulle scale che guardano verso un anfratto scuro, dove  faremo la conoscenza dell’altra protagonista del film, Rita (Sara Serraiocco) - cassiera della malavita - che di li a poco sentirà le urla di suo fratello mentre viene ucciso.

Rita non potrà vedere nulla di quel che accade, perché è cieca, ma Grassadonia e Piazza ci mettono (in modo diverso) nelle sue stesse condizioni,  indugiando sui primi piani ed altre inquadrature mentre a lato, fuori dallo schermo, sentiamo i rumori della colluttazione tra il malcapitato ed il suo sicario, il sordo baccano degli spari. Noi invece la tensione e la paura possiamo ricavarli, palpabili, dal tremolio di Rita, dal suo viso angosciato e seguendo il suo passo incerto.

Poi arrivano in sequenza due piccoli “miracoli terreni”: Rita  ricomincia a vedere qualcosa, dapprima solo dei bagliori confusi poi, ad intermittenza, immagini più nitide; Salvo invece, nello spazio di un istante, ha deciso di non ucciderla e di nasconderla nel locale di una vecchia lampisteria.

Le quasi due ore del film di Piazza e Grassadonia hanno un tasso di dialogo  bassissimo.  Salvo e Rita sono due esseri umani perduti da sempre nell’abiezione del loro mondo: impossibile evaderne  i confini  ma  forse ugualmente potranno conoscere la redenzione. Probabilmente i loro corpi  sono spacciati e senza via di fuga ma non è detto che l’anima  sarà  costretta a subire lo stesso angoscioso destino.

Tra loro si instaura un rapporto che non potrebbe in teoria nemmeno nascere ed invece  cresce rapidamente, nella poca conoscenza e nella distanza, tra parole e gesti appena accennati eppur decisi e determinanti.

La meritoria scelta di Salvo -  imperdonabile per i codici del crimine -  in un attimo risveglia la residua tenerezza di un giovane perso nella rude barbarie e che ora  attende  di vedere il buio cedere il passo all’alba, la mano  avvinta a quella di qualcun altro che siede a lui vicino. Il blu intenso del mare è una striscia sottile che lambisce il muretto di cemento davanti agli occhi e  taglia l’orizzonte.

“Salvo” è fatto anche di questi silenzi e di questa poetica, dove la violenza è sempre secondaria: talvolta usa la canzone di Emma e dei Modà per lavorare sulle nostre emozioni, poi  mette in scena afosi quadri da “O.K. Corral” senza pallottole tra il sole e la terra polverosa della Sicilia, dove si fronteggiano l’onore criminale e la coscienza risvegliata dal cuore

E quando tutto è compiuto gli ultimi suoni che ascoltiamo sono il  fischio della sirena di una nave ed il rumore delle onde che accompagnano chi prova a scappare come chi vorrebbe seguire  la stessa sorte ma dovrà, suo malgrado, rimanere.

LA QUINTA STAGIONE di Peter Brosens e Jessica Woodworth


In uno sperduto paesino delle Ardenne si saluta l’inverno con una sorta di festosa cerimonia, incendiando una catasta di legna; ma stavolta le fiamme non vogliono saperne di accendere il buio della notte e nei giorni seguenti neve e freddo non cederanno il passo  alla primavera.

Così, come per effetto di un sortilegio, il ciclo della natura viene sconvolto: le api non producono più miele e fuggono via, le mucche non danno il loro latte, semi e terra si incontrano sterilmente e nulla germoglia a nuova vita.

Brosens e Woodworth non intendono affatto spiegarci il perché di questo misterioso accadimento – e difatti non lo faranno – ma si concentrano sulle reazioni e le conseguenze che ne patisce la piccola comunità di uomini, che certamente vuole esser anche  rappresentativa di tutto il genere umano qualora fosse messo alla prova da una calamità di questo tipo.

Il “tempo nuovo” è inarrivabile e sospeso: tutt'intorno si sparge un senso di perdizione e disgrazia, mosche ed altri insetti divengono un cibo prezioso e ci si prostituisce per non più di una busta di zucchero o di sale.

Mentre neve e pioggia disegnano di grigio il panorama il caos è alle porte. Crescono l’egoismo ed il pregiudizio, la superstizione presto sfocerà in prevaricazione: occorre un capro espiatorio, come in un antico rito propiziatorio che possa liberare dalla malevolenza degli dei.

I due registi indicano chiaramente nella loro pellicola  come il crescere dell’incertezza della moltitudine che smarrisce le sue coordinate di civiltà e del vivere comune si produca in una reazione quasi univoca, individuando come bersaglio  “lo straniero  ed  il diverso”.

Si riducono a brandelli i sentimenti ed il rispetto dell’altro, l’anima nascosta e luciferina dell’essere umano in un attimo rinviene in superficie così come tutta la sua avidità e cattiveria, persino il suo istinto assassino.

“La quinta stagione” inscena tutto questo attraverso atmosfere che ondeggiano tra una realtà che scivola verso il surreale ed i richiami ad alcuni quadri fiamminghi (specie nelle inquadrature larghe),  osserva lo stravolgimento di alcune consolidate dinamiche sociali ed il riemergere repentino di tutti gli istinti primordiali (i peggiori!), ipotizzando con il suo stile tenue ed elegante, distante dalle pellicole catastrofiste di genere già viste a decine, cosa potrebbe accadere percorrendo questa orribile china di declino.

Austere e gradevoli composizioni dal sapore pittorico ma nessuna vera novità: semmai conferme di chi sarebbe il primo  a divenire vittima e chi si proporrebbe al ruolo di carnefice, come però già molte altre storie (pellicole) o romanzi  hanno profetizzato o confermato.

Nel panorama di desolazione ed aridità qualcuno dei protagonisti riesce ad evitare di oltrepassare i confini dell’inumano e dell’odio,  disperatamente attaccato alla residua forza della compassione mentre vaga attraverso terre di disperazione.

Brosens e Woodworth invece si fermano poco prima di riuscire a dare vero (nuovo) risalto e spessore cinematografico alle ambizioni della loro pellicola.