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giovedì 30 gennaio 2014

DALLAS BUYERS CLUB di Jean-Marc Valleè


Ron Woodroof (Matthew McConaughey) è un elettricista che vive le sue giornate affaccendato tra rodei e scommesse, cercando di far cadere le donne nel suo letto ed ingurgitando droghe, assieme a generose sorsate di alcool.

Poi un bel giorno crolla in terra e i medici dell'ospedale gli dicono che, per esser ancora vivo, il numero dei suoi linfociti è sorprendentemente poco nutrito, che ha contratto il virus dell' “H.I.V.” ed ha “trenta giorni al massimo per sistemare le sue cose”.

E' il 1985 e le cure ufficiali a disposizione sono poco più che un placebo; in alternativa è possibile sottoporsi a sperimentazioni rischiose (se non addirittura dannose, come quella con l’antivirale’ “AZT”).

Ron però è quel tipo di uomo che ritiene sia meglio “morire con gli stivali” addosso piuttosto che andarsene un po' alla volta, attaccato ad una flebo di morfina; così comincia ad erodere velocemente il terreno della sua scarsa conoscenza e con grande ingegno e forza d'animo lotta per guadagnarsi anni “supplementari” di vita (vivrà fino al settembre del 1992), trovando il modo di procacciarsi per proprio conto delle medicine in grado di garantirgli la sopravvivenza e cure efficaci.

Dallas Buyers Club” di Jean-Marc Vallèe è tratto da una storia vera ed ha come protagonista un Matthew McConaughey talmente innamorato e “devoto” alla sceneggiatura (di Craig Borten e Melisa Wallack) da essersi sottoposto per mesi ad una dieta ferrea, dimagrendo oltre venti chili per divenire estremamente credibile nel suo ruolo.

La gestazione del film non è stata esente da grandi difficoltà: prima di trovare qualcuno disposto a metter a disposizione i cinque milioni di dollari necessari a produrre la pellicola si sono succeduti oltre un centinaio di rifiuti, dovuti forse alla scomodità della tematica, che racconta gli inizi del dilagare dell’ A.I.D.S. come “paura di massa” (il 1985 è l’anno in cui morì Rock Hudson) ed i loschi interessi delle case farmaceutiche connessi all'estendersi del virus.

L' “angelo salvatore” di Woodroof vive in messico e veste i panni di un medico radiato dall'albo tre anni prima. Contemporaneamente negli U.S.A., a far da sfondo alla storia, vediamo prodursi in un “balletto mortale” - sulla pelle di pazienti valutati “diecimila dollari l'anno” - la “Food and Drug Administration” e le grandi aziende in competizione nell'accaparrarsi i profitti derivanti dall' enorme “business della cura”.

Viaggiando tra Giappone ed Israele, dalla Cina ad Amsterdam e seguendo l'esempio di altri che l'hanno preceduto in Florida ed a New York, Ron metterà in piedi, tra varie difficoltà, un “club di compratori” (cittadini-malati si iscrivono e diventano soci, conseguendo il diritto a ricevere un kit di farmaci pro-capite)

Diventerà di fatto uno “spacciatore illegale di medicine”, ovvero guadagnerà denaro salvando al tempo stesso vite umane – numerosi saranno coloro che verificheranno l'efficacia delle cure – muovendosi al limitare di una legge commista a troppi interessi, semplicemente priva di buon senso o del più elementare rispetto verso i suoi cittadini.

Assieme a Rayon (Jared Leto), un travestito conosciuto in ospedale, Ron supererà di gran lunga la soglia dei “trenta giorni” (ed anche gran parte dei suoi pregiudizi omofobi da bullo maschilista) e riuscirà ancora una volta a cavalcare un toro, a bere una birra o portare una donna a cena davanti ad un buon bicchiere di vino, conquistando preziosi scampoli di vita e felicità che sembravano essergli preclusi per sempre.

Dallas Buyers Club ha una sua forza viva anzitutto nella prova di Ron e Rayon, i suoi emaciati e consunti protagonisti , che sprizzano piccole scintille di buon cinema fin dal loro incontro tra i letti dell'ospedale.

Con buon senso d'equilibrio Vallèe riesce a tenere a bada gli eccessi del prorompente e rinato McConaughey (una vera e propria seconda carriera dopo il “Killer Joe” di Friedkin) ed anche a non enfatizzare troppo la parte del racconto che riguarda i grandi interessi di denaro, puntando più sulle sfumature umane che non sulle invettive accusatorie, politiche ed economiche.

Poggiando molto sulla figura di un “santo e truffatore” come quella di Woodroof - e senza tentare di volerne smussare i lati meno edificanti - il risultato finale risulta “sporco” al punto giusto e privo di “facili lacrime” e sdolcinature.

Dallas Buyers Club” è un film che usa il cinema anche come veicolo d'informazione e di denuncia, ponendo efficacemente l’accento su come, irresponsabilmente, “piccoli e grandi avvoltoi” di varia stazza releghino in secondo piano la vita delle persone al fine di raggiungere i propri interessi.

Valleè non disdegna di regalarci una “carezza” in mezzo a tanta spregiudicatezza e sofferenza: occupa lo spazio di appena pochi secondi ma è piacevolmente evocativa un'immagine che vede stringere il campo su McConaughey, esitante nella penombra di luci artificiali e soffuse, mentre annusa la vita ed è circondato dal battito d'ali di mille farfalle.

domenica 26 gennaio 2014

NEBRASKA di Alexander Payne


Woody Grant (Bruce Dern) è un anziano signore che vive a Billings, nel Montana, ed è convinto di aver vinto un milione di dollari: questo dopo aver ricevuto una di quelle lettere truffaldine - inviate a centinaia di migliaia di persone nel mondo - che, in caso di fortunata estrazione, promettono simili somme in “regalo” purchè venga sottoscritto un abbonamento ad una rivista, oppure acquistato qualche trattamento di bellezza.

Woody ha un passato da alcolista e non di rado tende ancora ad attaccarsi al collo della bottiglia.

Forse - data anche l’età - non è più troppo presente a se stesso; comunque ritiene di avere un premio da ritirare e che non ci si possa fidare delle poste per farselo recapitare. Prova dunque ad incamminarsi – addirittura a piedi - verso gli uffici che dovrebbero liquidargli la somma e che hanno sede a Lincoln nel Nebraska, distante diverse centinaia di miglia da casa sua.

Sua moglie Kate (June Squibb) va su tutte le furie e sbraita a gran voce mentre i due figli rimangono in un primo momento sconcertati: Ross (Bob Odenkinrk) sembra aver tempo ed attenzione solamente per la sua carriera televisiva e ritiene che forse sarebbe giunto il momento di valutare come soluzione un casa di riposo; invece Dave (Will Forte), si dimostra molto più comprensivo ed in cuor suo ritiene che tutto questo non sia nient’altro che l’ultimo escamotage di un vecchio - annoiato e vicino alla fine dei suoi giorni – impegnato a procacciarsi un buon motivo per vivere.

Difatti, quando il padre gli avanzerà la più elementare delle richieste (“portamici tu!”), Dave non ci penserà due volte ed accetterà di accompagnarlo a destinazione, cogliendo al volo l’occasione per passare un po’ di tempo assieme a lui.

Alexander Payne con “Nebraska” lascia affiorare le tematiche intimiste a lui care da sempre, proponendocele stavolta con un rigore formale differente o, “se preferite”, il migliore mai raggiunto, in virtù anche dell’ottimo lavoro di Phedon Papamichael alla fotografia , che illumina la sua storia con un bianco e nero affilato e risplendente.

I protagonisti sono persone normali che trasudano varia umanità, declinandola con ironia e colorite fioriture popolari. A completare un quadro di contagiosa e sfumata surrealtà ci sono vaghe note di noia, rimpianto e qualche punta di cattiveria.

La sceneggiatura di Phil Johnston e Bob Nelson si fa forte nei dialoghi scabri, essenziali e privi di ridondanza. Per il viaggio di padre e figlio è previsto dal soggetto un prolungato intervallo nella città di Hawthorne, durante il quale avrà luogo una singolare ed inaspettata riunione familiare che non terminerà precisamente con baci, abbracci ed arrivederci.

E’ laggiù, dove Woody è nato e cresciuto, che questi incontrerà persone che non vedeva da anni e riaffioreranno vecchie memorie ed ombre del suo passato, ridotto oggi in gran parte a niente altro che un mucchio di legna ed erbacce (e comunque, “quel che non si ricorda più oramai non ha importanza!”)

Payne - anch'egli originario del Nebraska e precisamente di Omaha - ha grande dimestichezza nel raccontare “inezie di grande rilievo”, con il massimo della semplicità.

Forte di una abilità rara nel dare concretezza visiva alla sua sensibilità, sottolinea ogni piccolo gesto e le diverse sfumature dei legami affettivi e, nella fattispecie, usa l’attitudine registica per rovistare tra le verità del tempo, nella vita che procede per “solitudini parallele” e tra vecchie case in rovina.

Nebraska” tenta di farci ascoltare il rumore fioco e leggiadro di tutte le piccole cose che rendono (o renderebbero) bella e felice la vita, che si tratti anche solamente di un compressore o di un furgone (usato); ci dice che “la luce” non brilla a nostro piacimento ma spesso solo nello spazio di fugaci “interiezioni”, momenti in apparenza irrilevanti e molte volte inaspettati: avrete certamente modo di notare – tra gli altri gustosi episodi - la passeggiata di Woody sul viale poco prima della fine o quando questi, in un locale gremito di persone, riceverà quasi per equivoco applausi fragorosi ed insolitamente inebrianti.

Payne ed il suo cast portano in dote al film una carica di ilarità che si dispiega in una sequela di piccoli scambi, di battute fulminanti e deliziose, che riescono a strapparci riflessioni e grasse risate persino tra le lapidi di un cimitero.


Esemplare sembra essere la compiutezza raggiunta nel cantare le sventure e le impercettibili fortune dei personaggi minori, quelle “piccole esistenze rivelatrici” che scolorano nella folla, motivo per cui “Nebraska” si propone tre le espressioni migliori di un cinema capace di trarre da dettagli infinitesimali dei significati universali, ripescandoli nella confusione informe e rumorosa del mondo, laddove vagano spesso inosservati senno e saggezza, scontenti e scoramenti, dolori soffocati ai quali dare voce.

giovedì 16 gennaio 2014

THE UNKNOWN KNOWN di Errol Morris


Per Donald Rumsfeld “l’unico modo per sapere è immaginare”!

Secondo il suo modo di pensare il motivo principale per il quale gli Stati Uniti subirono le devastanti perdite di “Perl Harbour” - durante il secondo conflitto mondiale - sarebbe da ricercarsi addirittura nella mancanza di immaginazione!

Ed è quindi chiaro, consequenzialmente, arrivare a comprendere come ci siano “cose che credi di sapere ed invece non conoscevi”, ovvero “The Unknown known”. Si tratterebbe di tutte quelle informazioni che ti eri immaginato come vere ed inoppugnabili ed invece con il tempo hanno mostrato la loro inconsistenza, forse le stesse che ti hanno fatto credere all’inevitabilità di un conflitto o di una guerra al punto da arrivare a scatenarla.

Probabilmente a suo modo questo personaggio è “candido ed onesto” e ci invita senza reticenze ad affacciarci al davanzale dal quale osserva il mondo con i suoi occhi; ci spiega quali, secondo lui, siano le coordinate imprescindibili per decifrare l’orizzonte.

Errol Morris, con il suo film documentario lo intervista non con lo scopo di metterlo all’angolo (impresa forse impossibile contro un marpione di tal fatta), semmai di farlo uscire allo scoperto, senza infastidirlo o incalzarlo troppo ma dandogli tutta la corda necessaria e, alla resa dei conti, l’ex Segretario della Difesa Americana, non si fa certamente pregare troppo.

Partendo dai suoi “snowflakes” (i “fiocchi di neve”, ovvero migliaia o forse milioni di promemoria scritti dallo stesso Rumsfeld) il regista costruisce un lungo film/intervista.

Chi si aspetta fendenti e colpi bassi rimarrà deluso: la tattica è quella di cercare di evidenziare i punti deboli e le contraddizioni senza sfociare in vero e proprio atto d’accusa, ad esempio sottolineando la manipolazione nell’uso dei vocaboli e nel travisamento del loro significato allo scopo di “giustificare l’ingiustificabile”, come se poi si potessero coprire gli “errori o gli orrori” - o attenuare le loro conseguenze - semplicemente usando nella maniera più congeniale il dizionario o da questo traendo i possibili artifici.

Ma siamo nella “tana del lupo”, un antro di machiavelliche architetture e nebbie, doppiezze e battute ad effetto, come le conferenze stampa tenute da Rumsfeld ai tempi dei conflitti in Afghanistan ed Iraq, dove le sue qualità di showman e di affabulatore emergono con chiarezza, come la sua abilità nel porsi domande e darsi le risposte al tempo stesso, comunque strappando applausi e risate, giocando sempre d’anticipo ed entrando a gamba tesa, senza dimenticare di sfoggiare davanti agli interlocutori il suo sorrisetto ironico e sicuro.

Colpire e sbalordire” o comunque render le acqua torbide, i significati e le evidenze confuse: forse Saddam Hussein aveva davvero le armi di massa e le ha distrutte per non esser scoperto; certamente l’assenza di prove non è una prova della loro assenza!

Questi ed altri giochini con frasi e terminologie sembrerebbero la barriera invalicabile del “giovane/vecchio” dell’establishment Americano, da sempre al potere, prima con Nixon, poi con Ford, Reagan, Bush, dal Vietnam alla Guerra Fredda fino al Medio Oriente.

Un oratore capace ed a suo modo affascinante ma anche un prevaricatore, comunque un politico indisponibile ad assumersi qualsiasi responsabilità, come se gli eventi fossero ogni volta ineluttabili, un qualcosa nel quale gli uomini non hanno nessuna voce in capitolo.

E’ la storia a controllare noi o siamo noi a controllare la storia?” Nemmeno a questa domanda – per la quale ovviamente è meno facile trovare una risposta - Rumsfeld offre una sua versione, anzi ne offre svariate, sempre più di una.

Ma è solo un “mare di parole”: proprio questa l'evocativa l’immagine usata da Morris, così come sono azzeccate le sovrimpressioni con le dettagliate definizioni del vocabolario, il tutto sottolineato dalle musiche di Danny Elfman che cementano ogni cosa in un film, oppure un incubo, scegliete voi.

Quel che appare inequivocabile è la volontà di coprire o mistificare piu’ che mentire spudoratamente: la chiara tendenza a volersi appropriare del presente cercando di ricreare una personale versione del passato, senza passare per gli elementi di fatto.


Ma concedere o meno questa possibilità alle persone - specie agli esponenti di spicco che hanno deciso della nostra storia antica o recente - spetta soprattutto a coloro che li osservano e poi ne giudicano le gesta alla luce degli eventi trascorsi, ovvero a noi, gli unici che possano provare ad impedire in futuro il ripetersi di nuove nefandezze o che altri individui, simili o uguali, godano ancora una volta della stessa libertà d'azione, urlando prima possibile, ovunque ed in ogni modo, il nostro disgusto e la nostra disapprovazione.

martedì 14 gennaio 2014

DISCONNECT di Henry-Alex Rubin




Sassy 777” scorre on line la lista dei desideri di “Boitoi18”, “Cin8380” condivide in rete il suo dolore con “Fear and Loathing” mentre “BenBoyd” fantastica avventure con l'immaginaria “Jessica Rhony”.

Dietro i freddi “NickName” si celano (quasi sempre...) esseri umani in carne ed ossa.

Disconnect” di Henry Alex Rubin dipana la sua trama attraverso tre (quasi quattro...) storie separate ma contigue: quella della giornalista Nina (Andrea Riseborough, molto brava!) che approccia il “SexyCam Performer” Kyle (Max Thieriot) per ricavarne un servizio televisivo, poi di Cindy e Derek (Paula Patton e Alexander Skargard, figlio di Stellan), moglie e marito alle prese con la luttuosa perdita del proprio bambino e poi precipitati in problemi economici a causa di una frode a mezzo internet ed infine di Ben (Jonah Bobo), che viene irretito da Frye e dal suo amico Jason (Colin Ford), adolescenti complici e “cyber-bulli”, intenti a divertirsi ed a fargli credere che una inesistente ragazza di nome Jessica si sia invaghita di lui.

Ad unire tra loro le vicende sono i personaggi di Mike Dixon (Frank Grillo), un ex-poliziotto ora esperto investigatore di crimini informatici, vedovo e padre di Jason e chiamato ad indagare sul caso di frode dai due coniugi Cindy e Derek e quello di Rich Boyd (Jason Bateman), il padre di Ben, che di professione fa l'avvocato e sarà coinvolto – seppur marginalmente - negli eventi riguardanti Nina e Kyle.

Storie incrociate - sempre più un vezzo piuttosto che una vera e propria necessità della narrazione - con sceneggiatura ad opera di Andrew Stern.

Disconnect” punta l'indice sui pericoli della rete (le truffe, le false identità, lo sfruttamento dei minori) ma ancora di più vuole sottolineare come questa (paradossalmente?) sia talvolta l'ennesimo tassello che contribuisce alla rarefazione dei rapporti umani ed a gettarli in crisi.

Non pare esserci comunque un intento castigatore e moralista, soprattutto considerando che nel contesto generale degli avvenimenti sarà proprio il mezzo virtuale al tempo stesso ragione ed in qualche misura soluzione dei mali, contribuendo prima a creare i pericoli e le distanze ma poi scatenando – originando conseguenze a catena - processi di cambiamento e riavvicinamento che, almeno in parte, si attiveranno in conseguenza del materializzarsi del contatto fisico e delle deflagrazioni improvvise dell'anima.

Rivelazioni provenienti da hard disk sui quali si è reso necessario investigare provocheranno vitali e reali scintille emotive, un avvenimento drammatico consequenziale ad un pubblico dileggio virtuale riavvicinerà genitori assenti alle famiglie ed ai figli trascurati ed imprevedibili situazioni e prese di coscienza scaturiranno dal contatto di mondi lontani come “l'hard-web” degli adolescenti e la “televisione” degli adulti.

Dunque nel film di Rubin la virtualità non viene additata solo come una trappola ma semplicemente come una delle tante strade percorribili per un limitato segmento temporale, trascorso il quale poi inevitabilmente si finisce per riapprodare alla vita vera e quindi, narrativamente parlando, la “deriva tecnologica” non risulta essere il baricentro straripante del racconto bensì un mezzo attraverso il quale analizzare e spiegare sentimenti e (nuove/antiche) problematiche dell'esistenza.

Disconnect” difatti non è altro che un nuovo film sulle “vicinanze solitarie”, sui sensi di colpa che lentamente affiorano e le conseguenti collisioni tra le persone e nel suo insieme porta la mente a ripescare il “Crash” di Paul Haggis (tre Oscar e due Golden Globe nel 2006), senza reggerne il paragone in quanto a pathos e spessore. Niente di sorprendente insomma e – eccezion fatta per la pessima scelta stilistica del “ralenty” poco prima della fine - tutto il resto è girato e pensato in maniera gradevole, molto meticolosa ed organizzata, riuscendo ad evitare di incespicare troppo negli incroci farraginosi, nondimeno divenendo in un istante cinema masticabile, in poco tempo digerito e presto dimenticabile.

SANGUE di Pippo Del Bono


La vita è un “grande mare”, dove tutti si incontrano ed ogni cosa continua, senza fermarsi mai. Forse persino la morte non è niente altro che un “passaggio” che altri hanno varcato prima di noi, camminando verso un misterioso ignoto.

Magari è addirittura questo il destino toccato a Margherita ed Anna, due donne mai conosciutesi in vita ma che potrebbero aver viaggiato assieme verso la morte: una era la madre di Pippo Del Bono, artista passionale e regista di questa pellicola, mentre l'altra era la compagna di uno dei leader storici delle Brigate Rosse, Giovanni Senzani.

I due uomini si conoscono per caso, quando l'ex terrorista (23 anni passati in carcere) si reca a vedere lo spettacolo “Racconti di Giugno”, messo in scena dall'attore ligure. Dalle esperienze condivise e da quelle che si confesseranno l'un l'altro nascerà un libro dal titolo “Sperduti”; poi il fulminante ed improvviso passaggio della morte lascerà entrambi orfani, mutilati nel loro amore, “soli ma ancora insieme” e di fronte, senza maschere.

E così, quasi casualmente, sedimenterà questo “Sangue” (Premio "Don Quijote" al 66° Festival di Locarno), cinema che entra dentro la vita e vita che scivola nel cinema, dove la camera – come ammette con spontanea sincerità lo stesso Del Bono - diventa talvolta un terzo occhio necessario a non farsi trafiggere e travolgere da un dolore enorme e soverchiante.

Non uno sguardo necrofilo sull'inerzia e la decadenza del corpo, semmai l'azione incondizionata di un amore disperato che cerca di trattenere l'impossibile, contemplando le cose con afflizione ma senza morbosità, mentre il tempo diluisce dentro un imbuto oscuro, nel quale entrare è un atto irreversibile. Presente e futuro si frantumano, divengono in un attimo qualcosa che non c'è più, fino a che ogni promessa di eternità o semplicemente del domani, finiscono per sfuggire alla nostra mente.

Del Bono indugia sulle mani ingiallite della mamma che portano il colore della morte, cercando di compenetrare l'incomprensibile: vuole sondare l'inaccessibile e nel mentre “esondano” i suoi sentimenti, accompagnati da espressioni contrite e da un sentore di lacrime che aleggia intorno. Catarsi più che liberazione, cercando di sopravvivere al veleno che dilania la carne di chi abbandona e di coloro che rimangono.

Non ci vengono risparmiate le immagini di un corpo inerte nella camera mortuaria e poi sigillato dentro la bara, quello della stessa donna che mesi prima sentiva le forze abbandonarla mentre lei desiderava “alzarsi, andare, fare”. Per lei il figlio aveva affrontato un viaggio forse assurdo, comandato dall'indomabile ed istintivo richiamo della speranza, recandosi fino in Albania in cerca di un misterioso medicinale Cubano a base di estratti di veleno dello Scorpione Azzurro.

Ogni tanto tra i fotogrammi compare Senzani, il “Marxista guerrigliero” che ora ha il “sangue buono” e difatti le zanzare, che per decennni lo hanno evitato, lo prendono d'assalto: un comunista, come quelli che – diceva Margherita - impedivano alla Madonna persino di apparire, un uomo deciso e convinto della sua scelta di lotta armata mai condivisa da una “compagna di vita” che pure ha scelto di aspettarlo per anni, in solitudine, e poi lo ha dovuto abbandonare repentinamente, suo malgrado, diventando cenere e petali di fiore che ora “sono mare”.

E' un cinema viscerale quello di Del Bono, che fonde teatro e vita, che ospita immagini della città terremotata de L'Aquila come un simbolico parallelo di decadenza e di abbandono e che lega tra loro testimonianze spaesanti, talvolta persino agghiaccianti, come quella di Senzani sull'omicidio Peci, un uomo le cui speranze svanirono nell'urlo di un istante, di un colpo secco, lasciando in ricordo la miseria di una sola fotografia.

Sangue” è una riflessione generosa sulla vita e la morte, su fede e religioni, sull'essere umano, su inferni reali e paradisi inventati, sulla rivoluzione e la lotta armata, certo vaga ed imprecisa ma densa di calore e vogliosa di offrire e condividere; forse distante da un risultato cinematografico compiuto ma encomiabile nella sua passione prorompente e per la libertà attraverso la quale va oltre gli squallidi tabù sulla morte o sugli anni di piombo, forte di un coraggio cristallino che rende di fatto incomprensibile qualsiasi becera polemica abbia accompagnato il cammino di questa pellicola.


venerdì 10 gennaio 2014

IL CAPITALE UMANO di Paolo Virzì


Il capitale umano” è il titolo di un romanzo di Stephen Amidon.

Paolo Virzì trae da questo libro le basi per il suo nuovo film, trasferendone l'ambientazione dall'America del Connecticut al piccolo paese – immaginario - di Ornate in Brianza, limando il racconto e ricreandone i personaggi con l'aiuto in sceneggiatura di Francesco Bruni e Francesco Piccolo.

Dei cento colori scoppiettanti delle sue precedenti commedie il regista Livornese trattiene solamente “un po' di giallo e di nero” e confina il suo racconto in un perimetro delimitato, dentro il quale si agitano “spiriti” claustrofobici ed invisibili: ansia, competizione ed incertezze, mercati “volubili”, gli impatti inaspettati delle “maggiorazioni sballate”, rendite instabili per “posizioni” incerte.

Dino (Fabrizio Bentivoglio), Carla (Valeria Bruni Tedeschi) e Serena (Matilde Gioli) osservano il mondo con occhi diversi ed il loro approccio alla realtà è quel che ne consegue. Il primo è disposto a giocarsi tutto - persino il destino della propria famiglia - pur di arrivare a guadagnare soldi facili: vanno bene le “regole” che più possono fargli comodo a seconda dell'occasione, senza curarsi minimamente della correttezza o della dignità. L'altra rischia l'asfissia nel suo recinto ovattato e protetto e cerca di uscirne muovendo passi incerti in direzione di smarrite sortite filantropiche ed estemporanee escursioni sentimentali. Infine la più giovane: ha assaggiato già il sapore scipito del denaro (con annesso l'odore degli interni in pelle ed il canto del motore del fuoristrada) e le è bastato guardarsi dentro un disegno - un ritratto bello e crudele – per tornare indietro, verso l'istinto sopito ed i palpiti del cuore.

Dino Ossola, immobiliarista cinquantenne, è il padre di Serena ed è sposato con Roberta (Valeria Golino), che non è la madre della ragazza e di mestiere fa la psicologa. Carla invece è la moglie del ricco e spregiudicato finanziere Giovanni Bernaschi (Fabrizio Gifuni), il cui figlio Massimiliano (Guglielmo Pinelli) ha una relazione con Serena.

La loro storia gira attorno ad un incidente stradale notturno del quale è stato vittima un cameriere che - tornando dal lavoro in bicicletta - viene investito e lasciato agonizzante ai margini dell'asfalto. Di come siano andati davvero i fatti occorsi a questo personaggio “dimenticabile” (paradossalmente presto dimenticato anche dallo spettatore, nonostante sia il fulcro della vicenda) vengono rilasciati particolari “in piccole dosi” lungo la pellicola, suddivisa in tre capitoli che ogni volta ripercorrono quanto accaduto – e non soltanto – cogliendone la prospettiva dalle diverse angolazioni dei protagonisti, fino ad arrivare all'esito finale.

Lentamente salgono in superficie suggestioni che creano malessere e piccole malinconie di fronte alle quali ci sentiamo impotenti e prigionieri. Virzì più che cementare il filone dell'investigazione e del mistero - del quale si occupa per lui un accigliato commissario dalla barba incolta (Bebo Storti) - sfrutta tutto quanto la situazione generale può offrirgli per osservare introspettivamente le persone dal punto di vista umano ed offrire nel contempo un quadro complessivo del Paese-Italia e delle azioni/relazioni di chi ci vive e ne disegna il frastagliato profilo.

Auto scure ed eleganti salgono in fila avanzando nella neve lucida e bianca, portando al tavolo delle riunioni affaristi sempre più somiglianti a giocatori d'azzardo; istituzioni distratte lasciano che i teatri divengano fatiscenti, immaginando per locali gloriosi che furono calcati da attori famosi ed ospitarono sul palco opere importanti solamente improbabili suddivisioni in appartamenti da vendere, l'ennesimo supermercato o frettolose ristrutturazioni dove ospitare poi cori di “voci padane”: a discutere del futuro incerto dell'arte aspiranti attrici che tempo addietro hanno rinunciato alla loro occasione, “dilettanti della realtà”, finti innamorati della prosa e falsi romantici della vita, recensori annoiati e caustici della “Pre-Alpina”.


Virzì si abbandona scientemente ad un fruttuoso “spaesamento”, lontano da set e luoghi amici, da vecchi vezzi ed abitudini collaudate e si incammina con successo verso un orizzonte stilistico differente, colpendo il bersaglio nel tratteggiare nefandezze e debolezze, schierando in campo buoni e cattivi senza distinzione alcuna di casta o di classe sociale, lasciandoci osservare come la posta in gioco venga vinta o perduta nel rimescolarsi di avvenimenti concatenati e sui quali spesso non è possibile avere il controllo assoluto, alludendo al “Capitale umano” non solo come la negoziazione del valore trattato quale risarcimento dalle compagnie assicurative ma anche come il prezzo salato che puo' trovarsi a pagare un singolo ragazzo o persino una intera Nazione sulla cui rovina altri hanno scommesso senza scrupoli.   

martedì 7 gennaio 2014

CLIP di Maja Milos


Jasna e le sue amiche: dai banchi della scuola alle feste passano le giornate adocchiando e cercando di abbordare i ragazzi.

Sui tacchi alti e colorati si nota meno la cellulite: l'atteggiamento è spavaldo e la guisa scimmiotta quella delle puttane. Fumano, sniffano cocaina, bevono e tra le mani hanno sempre l'immancabile telefonino.

Dalla Serbia con squallore: “Clip” è un ritratto inquietante della regista trentenne Maja Milos (premiato nel 2012 al Festival di Rotterdam con il Tiger Award) che punta gli occhi sugli adolescenti del suo Paese, stretti tra noia ed eccessi, apparentemente forti e baldanzosi ma infinitamente vulnerabili a causa dell'inesistente coscienza interiore e di una scarsa consapevolezza del mondo che li circonda.

Protagonista è Jasna (Isidora Simijonovic) che, come altre della sua età, cerca di stimare il suo valore da quanto riesce ad esser provocante e competitiva con le amiche postando le sue immagini sui social-network oppure “accaparrandosi” il ragazzo più attraente (Djole/Vukasin Jasnic), prendendoglielo in bocca nei bagni della scuola senza stare troppo a pensarci sopra.

Intorno a lei i coetanei non sono meno disorientati: fanno irruzione notturna nei locali della scuola o tirano banchi dalle finestre alla luce del giorno.

Balli e cori, discussioni, risse o atti sessuali: ogni cosa o azione - che sprigioni vitalità o sia totalmente priva di senso, non importa - viene immortalata nei video girati attraverso l'obiettivo degli inseparabili telefonini, in uno stato di noia (e)statica.

Dopo il “Bling Ring” di Sofia Coppola, testimonianza cinematografica di ragazzi che, come fossero state “gazze ladre” rubavano – preda di qualcosa ben più preoccupante che un semplice raptus ipnotico - oggetti luccicanti e griffati con il nome delle grandi marche, ecco l'altra faccia della “civiltà dell'immagine e del nulla” che cresce e vorrebbe disperatamente prender forma senza riuscire a trovarla, costretta ad accontentarsi di scadenti gratificazioni - reggiseni appuntiti e magliette di bancarella – ed attesa al rientro a casa da appartamenti poco accoglienti, dove li aspetta il confronto con gli “irritanti” problemi familiari.

La Milos descrive senza remore e con estrema efficacia questi giovani “in latitanza permante da loro stessi”, incapaci di toccarsi “dentro” o di ardere nel contatto fisico, ignari di come comunicare o consolarsi e che sanno tirarsi su il morale solo offrendosi l'un l'altro l'ennesima pista di cocaina, che usano il loro corpo come fosse solo un accessorio, distante dal loro tessuto arterioso e totalmente disconnesso dai propri sentimenti.

La scelta stilistica di “Clip” è coraggiosa, estrema nella forma per quel che sono i canoni consueti del cinema commerciale: mostra senza paura il sesso orale e la crudezza dei rapporti di ogni tipo; sosta insistentemente nel vuoto che abitano i suoi protagonisti, mirando anche a trasmettercene il senso agghiacciante di monotonia e spaesamento.

Lo sguardo spietato nel descrivere il mondo dell'adolescenza ricorda Larry Clark o Harmony Korine ma senza il loro compiacimento voyeuristico, né l'appariscenza; in più qui si certifica il bisogno crescente dei ragazzi - non sempre giustificato - di riprendere ogni cosa, l'affermazione – come fosse indispensabile – di un mondo alternativo virtuale, di un immateriale rifugio dove “recarsi” per cercare effimere soddisfazioni, che diviene consueto destinatario e nuovo custode designato di ogni frammento pubblico o intimo del quotidiano.

Nel vuoto pneumatico non sembrano scorgersi segnali di speranza ma dal grigiore generale sentiamo salire flebili lamenti di dolore. Questi ragazzi non sembrano privi di sentimento ma incapaci di averne consapevolezza, del tutto inadatti a perseguire e realizzare le loro stesse aspettative, disorientati nei desideri e nelle ambizioni e costretti a trovare realizzazione e stima per se stessi o per gli altri mediante atti confusi e ripetitivi, abitudinari, spesso degradanti o privi di senso, connessione o continuità con il contesto generale della loro realtà.

Bellezza e felicità, desiderio e passioni, sembrano chimere o stelle comete non solo distanti anni luce ma persino invisibili ai loro occhi che - come quelli di Jasna quando vengono immortalati dalla camera della Milos - comunicano un senso di impotenza e di tristezza che fa male ed al tempo stesso ci rivolgono una implorante richiesta di aiuto, che fuoriesce come da un assurdo ed apatico silenzio.

Belgrado è lontana, ma non sarebbe per nulla fuori luogo identificare in quel desolante paesaggio di nulla e di cemento un parallelo con le periferie delle nostre metropoli, specchiarci dentro i disagi delle nostre generazioni dal presente perduto e dal futuro imperscrutabile, abbandonate da coloro che hanno ancora più colpa, sarebbe a dire da una società egoista e distratta e da chi avrebbe dovuto fornirgli il necessario aiuto a farsi strada nel mondo, in primo luogo i genitori ed i parenti più stretti.

Adolescenti teneramente spacconi, intrappolati nel reale come nel virtuale ma soprattutto nell'incapacità di decodificare il mondo e se stessi, mortificati nella ripetizione meccanica e dalle umiliazioni alle quali si sottopongono senza nemmeno comprenderne appieno i danni, per nulla interessati a sapere che giorno è oggi e quale anno sarà domani.

Ragazzi con la vita frammentata come le piccole “Clip” che girano e continuamente depositano nel mondo parallelo di internet si dimenano come in gabbia ma illusi di esser liberi, a volte collidono con ferocia e usano violenza tra di loro; sboccano sangue e con le labbra rosse di rabbia o che alitano desiderio ora si baciano: certamente torneranno poi a picchiarsi oppure a baciarsi ancora.


Forse davvero non avvertono nessun dolore, ma nemmeno hanno qualcuno accanto che sia in grado di dirgli che potrebbero cominciare ad esser felici se solo potessero provarne.

giovedì 2 gennaio 2014

AMERICAN HUSTLE di David O.Russel


Irving Rosenfeld (Christian Bale) gestisce una catena di lavanderie tra il Bronx e Manhattan e di tanto in tanto piazza qualche quadro falso o di contrabbando; Sidney Prosser (Amy Adams) non vede l'ora di fuggire dalla sordida ribalta degli squallidi locali di strep-tease nei quali è costretta a mostrar le sue grazie.

La musica di Duke Ellington li unisce e ben presto la nuova coppia scoprirà la sua particolare attitudine: tendere agguati a chi naviga in cattive per annegarlo in abissi ancora più profondi, ovvero truffare il prossimo offrendogli false speranze e fregargli fino all'ultima banconota. D'altro canto, è davvero sorprendente la facilità con la quale si possono ottenere soldi da chi è disperato!

Un bel giorno però a Sidney ed Irving capita di raggirare il cliente sbagliato e si imbattono in Richie Di Maso (Bradley Cooper), in realtà un incorruttibile agente dell'F.B.I., petto in fuori e distintivo in bella mostra (nel “pedigree” persino una nonna che in novantatrè anni non ha mai mentito una volta!).

L'intrepido paladino della giustizia non vede l'ora di arrestare chiunque si muova un solo centimetro al di fuori del perimetro della legge e pretenderà che ad aiutarlo a tradurre in pratica le sue intenzioni siano proprio i due criminali “disgraziatamente” caduti nelle sue mani, pena il carcere se rifiuteranno, “prendere o scappare”.

Sidney pensa che sarebbe meglio rischiare la galera e tentare la fuga viaggiando via lontano mille miglia ma Irving non è dello stesso parere ed ogni volta che sente la gamba allungarglisi più del suo solito passo stenta a prendere il volo; del resto - nonostante non stiano più insieme - ha ancora una moglie seducente dalla quale non ha mai divorziato, viziata ed in grado di abbindolarlo (Rosalyn/Jennifer Lawrence), un tipetto catastroficamente sconclusionato e pericolosamente irascibile, le cui mani esalano aromi di fiori e spazzatura e con la quale condivide la responsabilità di un figlio.

Il bislacco ed esplosivo connubio di criminali affiancati alla giustizia si imbatterà casualmente nel bel mezzo di affari colossali tra mafia e politica dove girano quantità di banconote incalcolabili, fino a che all'orizzonte balugineranno improvvisamente ipotesi di retate fantasmagoriche, ovvero di un bottino talmente grosso da metter una irresistibile acquolina in bocca ad un ordinario agente in cerca di gloria.

Strizzando l'occhio a “La Stangata” ed a Martin Scorsese, vestendo di piccole buffonerie le ambientazioni classiche del genere e regalandogli il tocco caratteristico del suo stile vagamente stralunato, O.Russel sfodera una deliziosa commedia, sottilmente divertente ed a momenti persino rocambolesca.

American Hustle” però ha il suo piatto forte non solo in un' oliatissimo meccanismo ma nel saper mettere in risalto – senza dar troppo nell'occhio – le frustrazioni e le fragilità dei suoi protagonisti, gli umanissimi difetti, le loro ridicole e presuntuose ambizioni, le tragiche e commoventi incertezze.

I dialoghi – scanditi con il metronomo – sono beffardi ed ironici ma sempre saldamente piantati nella mestizia di realtà complicate e afflittive, a tratti lievemente “allucinati” giusto quel tanto che basta da riverberare alla lontanta Tarantino (“Jackie Brown”).

A dar man forte al cast già citato ci sono altri due protagonisti d'eccezione: nella parte del sindaco Carmine Polito c'è Jeremy Renner (con ciuffo abbondante calato sulla fronte), poi ancora un cameo da boss mafioso per Robert De Niro alias Victor Telleggio: per il bene della comunità - ed affermarlo non è proprio del tutto falso - si emendano leggi e si fa “quel che si deve”, ognuno porta avanti i suoi affari e tutti guadagnano “qualcosa”.

The fighter”, successivamente “Il lato positivo” ed oggi “American Hustle”: un sottile filo rosso unisce i tre lavori del regista NewYorkese che sono tutti imperniati - declinando il discorso in maniera ogni volta differente – sulle esistenze deluse in cerca di riscatto, sull'ottimismo e la serendipità, sulla volontà o meglio sul “potere dell'intenzione”. A sottolineare ancor di più la conclusione di una sorta di invisibile trilogia la riunione di molte delle stelle dei film precedenti (Cooper/Lawrence/Bale/De Niro)

Partendo dal “caso Abscam”, uno scandalo vero di favori, mazzette e mafia della fine degli anni settanta - smascherato dai Federali Americani con l'aiuto dell'ambiguo truffatore/informatore Malvin Weinberg (oggi ha 89 anni e vive in Florida) - O.Russel sceneggia assieme ad Eric Warren Singer il suo lavoro e - spadroneggiando con destrezza un film corale che con grande facilità potrebbe sfuggirgli di mano – disegna eccessi di simpatia e di disperazione dei suoi protagonisti, riveste di fantasia ed umorismo le loro tristezze, donando infine a quelli più umili e meno avidi la chance di giocarsi ancora la partita della vita e magari vincerla proprio al limitare della disfatta.


Come tratta da un “Vangelo dei criminali non incalliti”, “American Hustle” in controluce può leggersi anche come una sorta di “parabola sporca e divertente”, costruita su piccole e grandi nefandezze, dove i fatti vengono visti anche attraverso una lente che rifugge il benpensante conformismo e culminano in una morale che non premia i “soliti buoni” e sparge generosi aloni di umanità sui cattivi, non mostrando nessuna pietà solamente per l'ingordigia e la boriosa presunzione.