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martedì 27 novembre 2012

ALI' HA GLI OCCHI AZZURRI di Claudio Giovannesi


Dal suo documentario “Fratelli d'Italia” Claudio Giovannesi stacca una costola e crea un film di finzione dove però ogni protagonista , le situazioni descritte ed i rapporti fra le persone corrispondono a realtà, ovvero gli attori interpretano la loro stessa vita.
Così ecco Nader (Nader Sarhan), l'Egiziano dell’Istituto “Toscanelli” di Ostia -  oramai  cresciuto - andare in giro con il suo compagno Stefano (Stefano Rabatti), il suo “Lucignolo”, a buttar via le giornate rapinando incassi a negozi e prostitute oppure disertando la scuola e la casa per amore della sua Brigitte (Brigitte Apruzzesi) - che la religione di famiglia imporrebbe di tenere alla larga da un giovane come lui - durante una settimana scandita dai nomi dei giorni sovrimpressi a sinistra dello schermo in Italiano ed a destra in arabo.
Molto ci verrà raccontato di quel che non siamo abituati a vedere in quanto poco roboante da far notizia e troppo distante da noi per poterlo considerare.
Perchè oltre la monotonia dei centri commerciali e delle nostre vite garantite si muove e si dibatte il nuovo popolo degli stranieri nati in patria, le cosiddette seconde generazioni, e Giovannesi è il regista italiano che più di tutti sembra a suo agio nel muoversi attraverso questa frontiera che in un batter di ciglia abbiamo scoperto esser un “nuovo mondo” proprio nel cuore delle nostre città.
Pasolini aveva previsto tutto mezzo secolo fa (“...arriverà Alì ed avrà gli occhi azzurri”...”, leggete pure il resto della sua splendida e poetica profezia) ma al cinema pochi  avevano ancora pensato di raccontarlo o lo avevano saputo fare (ed al “Festival del Cinema di Roma” forse hanno pensato che questo andasse doppiamente premiato).
L'occhio cinematografico di Giovannesi è distante da quello del grande intellettuale Friulano ma comunque acuto e capace, sincero e molto appassionato.
La sceneggiatura di “Alì ha gli occhi azzurri” è agile, densa di avvenimenti concitati e che sottintendono a un mondo difficile e talvolta anche violento ma in fondo non serve a null'altro che a metter in luce le contraddizioni, i cortocircuiti tra retaggi culturali e nuovo presente, ostacoli insormontabili che dovranno esser valicati!
Dal furore di Nader che difende sua sorella da “vero Egiziano” all'imbarazzo di quest'ultima quando viene corteggiata dal suo coetaneo, dal triangolo di amici “Romeno-Romano-Egiziano” mischiato tra i tanti volti della moltitudine scolastica fino alla scena esemplare tra la prostituta ed il suo cliente nella pineta, dove i “forzati esuli della necessità” si scoprono persino compatrioti un attimo prima di mordersi tra loro per bisogno (entrambi Rumeni, vengono uno da Lasi e l'altro da Costanza), il film di Giovannesi fornisce un quadro generale, autentico e credibile, di tutti i fuochi che divampano a margine o covano sotto le ceneri ed a breve illumineranno la scena centrale, muovendo dalla periferia dritto al cuore della nostra tranquilla e colpevolmente ignara società, ipocrita e disattenta.
Mentre a casa,  attorno al tavolo, la sua famiglia lascia che la televisione sovrasti un silenzio che sa di smarrimento, “Romeo” venuto dall'Africa riga con una lacrima il suo volto  rivolto al balcone della sua Giulietta: e forse solo l'amore potrebbe, ancora una volta, salvarci dal conflitto inevitabile e saldare quella “materia umana” che non sembra poter stare assieme.
Non sperarlo nemmeno sarebbe come uccidere in embrione gli evidenti segnali di un futuro multiculturale che ha tutte le carte in regola per poter divenire ricco e differente: quello di una umanità finalmente “totale” e non solo globale.

IL SOSPETTO di Thomas Vinterberg


Lucas (Mads Mikkelsen, la cui interpretazione qui gli è valsa il premio quale miglior attore all’ultimo Festival di Cannes) è una persona tranquilla, con alle spalle ha un matrimonio finito in burrasca; ora sua moglie non vuole più parlargli nemmeno al telefono - e  lui non puo’ chiamarla - così  il suo più grande desiderio,  quello di provare a riprender a casa  suo figlio Marcus, è una speranza che viene ogni giorno soffocata da un nuovo rifiuto.
Lucas vive in un piccolo paesino della Danimarca e lavora in un asilo, adorato dai bambini che lo frequentano ed in particolar modo dalla figlia del suo migliore amico Theo (Thomas Bo Larsen); la piccola Klara è un fiorellino che, forse mancando delle necessarie attenzioni da parte dei suoi genitori, cerca affetto con infantile ostinazione  dal suo amico adulto – lo stesso Lucas - con cui condivide quotidianamente il suo tempo e dal quale non è disposta ad accettare nessun tipo di rifiuto.
Quando si tende il filo dell’insicurezza basta però un semplice gesto o una parola fuori posto a scatenare piccole ed innocentemente livorose gelosie, che troveranno   sfogo di li a poco in affermazioni per nulla chiare, divenendo frasi figlie di fantasie confusamente prese a prestito da altri o di strane situazioni carpite fugacemente dal mondo dei piu’ grandi, pur senza averle affatto comprese per intero.
Senza troppo capire nè domandarsi, dallo sgomento e dalle  inesatte e facili congetture, si arriverà in un lampo alle  tremende accuse di abuso sessuale che metteranno in discussione a tutto campo il  presente ed il  futuro di Lucas, facendo traballare paurosamente ogni sua sicurezza e mettendo a repentaglio, assieme alla sua dignità,  anche semplicemente il diritto a proseguire la sua vita sugli ordinari binari percorsi fino a ieri (verrà addirittura picchiato e cacciato, quale cliente non gradito, dal supermercato dove abitualmente faceva la spesa).
I bambini non mentono: questo l’assunto principale dal quale discendono tutte le disgrazie a venire. Certo non raccontano menzogne nello stesso modo al quale sono avvezzi gli adulti: sono angeli innocenti,  ma dell’innocenza sanno quel poco o niente che la loro troppo giovane età gli consente di conoscere.
Sono i grandi invece che “sanno bene” come concatenare in fretta domande e risposte, arrivando velocemente  alla risultante di assurdi teoremi precostituiti: in un attimo  coagulano assieme le maldicenze e subito dopo ecco una strisciante e delirante psicosi collettiva che caccia all’angolo il “colpevole prescelto”.
Le falsità e le ipotesi irragionevoli sono come un gas informe che aggredisce la realtà fino ad asfissiarla e  di  li a poco cristallizzeranno una nuova e difficilmente contestabile verità – non più di una costruzione virtuale che si regge su claudicanti teoremi -  resa ancora più terribile da sguardi acuminati e crudeli che puntano dritto addosso sul nemico, occhi che sono gli stessi che sorvegliano i confini dell’incubo che hanno contribuito a creare e che rendono vano ogni tentativo di fuga da una accusa di pedofilia che pesa quanto un macigno.
“Il sospetto” di Thomas Vinterberg e una pellicola cucita addosso al suo protagonista come fosse un vestito che ad ogni minuto che passa  stringe piu’ forte in vita, fino quasi a volerne provocare l’arresto respiratorio.
Della piccola comunità di “piccoli uomini, delle ipocrisie e delle fragili amicizie che diventano presto polvere nel momento della verità, coglie molte sfumature e dettagli rilevanti il film  del regista Danese ex “Dogme 95”, il manifesto “estetico-cinematografico” che anni addietro catturò l’interesse di molti cineasti ed addetti ai lavori: la Zentropa del suo ispiratore/fondatore  Lars Von Trier oggi è ancora protagonista ma solo alla voce produzione.
Mentre il Natale si avvicina e la neve che copre i campanili delle chiese rivela il suo finto candore, una puerile ed involontariamente crudele fantasia ,  lavorata di bocca in bocca da uomini troppo egoisti (o cattivi...) - esageratamente concentrati sulle loro ragioni o le loro paure per poter maneggiare con destrezza le verità adulterate dei bambini - sarà la scintilla che metterà ad ardere tizzoni d’ inferno: divampa il fuoco che brucerà inesorabilmente un dannato soltanto! 
Vinterberg descrive questo breve ma lunghissimo pezzo di strada che volge agli inferi, simile ad un limbo maledetto dove tutto può essere anche se non è mai stato - e dove alla fine ci si può ritrovare ad esser niente altro che nessuno - e lo fa cogliendo l’evolversi dei fatti direttamente dal fronte   del “sospettato”, un uomo che scivola in  rapida progressione verso il  totale abbandono da parte degli altri, per interminabili giorni, trovando qualche conforto  solo grazie alla carne della sua carne (il figlio Marcus).
La sparuta società civile del paese nello spazio di un istante apre “la caccia” all’uomo (“Jagten” ovvero “The Hunt” sono rispettivamente il titolo originale e quello per il mercato internazionale); Lucas è braccato come un cervo che fugge, senza speranza alcuna,  mentre i colpi di fucile  echeggiano nel bosco.
Per un tempo difficile anche solo a  trascorrersi e senza una fine certa di questa condizione di “preda o capro espiatorio”, l’unico rifugio possibile potrebbe essere allora, in astratto, un seminterrato che non esiste, lo stesso luogo immaginario che, ennesimo parto di una fervida quanto davvero poco colpevole fantasticheria, ha fatto si che il presunto responsabile finisse inchiodato alla gogna prima ancora che sul banco degli imputati.
Un locale angusto e senza aria sufficiente a “respirare la vita” alla quale però   prima o poi ci si dovrà azzardare a tornare, abbandonando ogni inefficace rifugio e tentando di riallacciare i fili con quanto lasciato in sospeso in precedenza, o almeno tentando di dare un nuovo inizio all’esistenza.
Cosa troveremo allora ad aspettarci la fuori?
Il finale di partita, nella sceneggiatura scritta da Vinterberg assieme a Tobias Lindholm, rimane aperto… e nessuno potrà dirci davvero quando  verrà abbassato in  terra il mirino dell’ultimo fucile che ci è stato puntato contro.

lunedì 12 novembre 2012

LA NAVE DOLCE di Daniele Vicari


In Albania, al porto di Durazzo, la grande nave da trasporto “Vlora” è appena tornata dal suo peregrinare per il pianeta: Cuba, Olanda, Francia.
Ora è carica di 10.000 tonnellate di zucchero e pronta a ripartire ma una folla la prende d’assalto, va al suo arrembaggio salendo dalle cime di ormeggio, la raggiunge dalle barchette che le galleggiano intorno; le  forze militari che dovrebbero difenderla da questa orda che le si avventa addosso buttano i fucili, montano a bordo anch’essi e si uniscono alla  moltitudine umana che affronterà un incredibile viaggio!
Destinazione Italia: da adesso la sete, il sonno e la paura sono esigenze vitali “rimandate” a quando sarà nuovamente il  tempo.
La costa brilla di luci davanti “all’umano carico” e dal porto di Brindisi viene ordinato l’impossibile: tornare indietro fino a Durazzo. Lambendo la terra da vicino senza poterla toccare ma potendola ancora solo sognare si arriva  a Bari, dove avverrà uno sbarco destinato a segnare una pagina indelebile nella grande cronaca del nostro Paese e del nostro tempo e ad imprimere il suo segno anche sulla storia dell’Europa e forse del mondo. E' l'otto di agosto del 1991.
“La nave dolce” è il ritorno – felice e riuscito - di Daniele Vicari al documentario, tipologia di cinema che molto gli si confà; nel 2007 vinse il David di Donatello con “Il mio paese” ed anche stavolta il suo lavoro sembra premiare gli sforzi profusi.
Le immagini della “Vlora” in alto mare, con la gente ammassata letteralmente a grappoli e le sovrastrutture della nave ricoperte da una massa di esseri umani sono evocative come poche altre e valgono da sole la visione della pellicola.
Vicari usa con grande misura il vasto materiale a sua disposizione, dai filmati in bianco e nero provenienti dall’Albania fino a tutto il repertorio visto e non visto, lo accompagna alle testimonianze di alcuni di coloro che fecero il “grande ed incredibile viaggio” ed ora hanno scolorato il loro esser stranieri in una lingua Italiana che, quasi alla perfezione, ne maschera le origini.
Non lesina uno schiaffo alla politica e rimette davanti ai nostri occhi l’aspro confronto e l’inattesa distanza tra le istituzioni centrali e locali (l’allora presidente della Repubblica Cossiga apostrofò con parole durissime  il Sindaco di Bari Delfino); ripropone da vari punti di vista le enormi difficoltà tecniche e pure l’impreparazione di fronte ad uno sbarco dai numeri impressionanti, che nessuno ha mai contato o potuto davvero verificare anche se si parla ci circa ventimila persone!
Dal porto della speranza alla trappola dello stadio “Delle Vittorie”, la salvezza e la libertà affogano nell’incubo: quel che non ha potuto il mare lo materializza infine la legge degli uomini.
La solidarietà tra gli stessi Albanesi diviene prima tensione e poi conflitto: violenza, bande armate e prepotenti che emergono dalla moltitudine e lo stadio diviene una arena incredibile; a momenti ci si trova davanti ad un surreale autoscontro contornato da uomini disperati e con pochi stracci addosso.
Presto rimarranno solo carte e rifiuti sul prato verde, immagine triste di un sconfitta umana, di una desolante ricerca del paradiso perduto: tutti gli emigranti in cerca di una nuova “America” verranno rimpatriati; solo pochi di loro – forse millecinquecento – riusciranno a rimanere, inizialmente in condizione di clandestinità e comunque grazie solo alla benevolenza dei tutori dell’ordine, moralmente ed emotivamente coinvolti dopo aver vissuto con loro a stretto contatto una prova stressante, lunga sei giorni.
Da allora, negli anni successivi, in Italia la popolazione degli stranieri è salita da duecentotrentamila a quattro milioni e mezzo di persone, mentre si calcola che un altro milione sia stato respinto: dei morti in mare il numero non è nemmeno quantificabile e nelle alte sfere più di qualcuno, per diversi motivi, ha forse  ragione di fregarsene le mani.
Il biblico approdo della speranza era un monito che nessuna scrittura aveva preannunciato? Era forse un sacro (o laico) richiamo alla solidarietà oppure l’ultimo (o il penultimo)  appello all’umanità di noi tutti? In ogni caso è stato disatteso, allora come oggi, ma non sarà così per sempre e soprattutto non saremo noi a decidere come e quando cambierà, forse anche repentinamente, il corso degli avvenimenti, bensì lo farà la storia, che non farà distinzione alcuna nell’assegnare i ruoli di buoni o di reietti ai nuovi protagonisti.

lunedì 5 novembre 2012

LE BELVE di Oliver Stone


A Laguna Beach in California, si coltiva - e si smercia - una marijuana impareggiabile e paradisiaca che vale tremila dollari al kilo.
Gli artefici di questo miracolo sono Chon (Taylor Kitsch) e Ben (Aaron Johnson): il primo è un reduce delle nuove guerre americane che durante la sua avventura in Afganistan ha scoperto dove si trovano i semi migliori del mondo (trentatré per cento di “Thc”, ovvero di principio attivo) mentre il secondo è un biologo che invece delle attività criminali sembra avere più a cuore  i destini del meno fortunato continente Africano.
Sono uno “terra” e l’altro “spirito” ma tutti e due dividono assieme i medesimi traffici e la stessa villa e così pure l’identica donna, la bella  “O/Ophelia” (Blake Lively);  meditano presto di abbandonare il campo per godersi la vita.
Ma non è il paradiso questo bensì il mondo visto dalla parte del diavolo che, come ben si sa, non appaia pentole e coperchi; così ecco arrivare le irrinunciabili “lusinghe” ed offerte dei narcos Messicani, comandanti dalla “madrina (Salma Hayek), i quali in caso di difficoltà non mancheranno di avvalersi dei servigi del loro uomo di fiducia, il sordido  Lado (Benicio Del Toro), un uomo dai metodi decisi e sbrigativi, buono per ricomporre  ogni tipo di “divergenza”!
Seguirà uno scontro all’ultimo sangue (o quasi) tra fiere fameliche pronte a tutto, filmato da un Oliver Stone professionalmente al meglio della sua forma, sarebbe a dire grande  dispensatore di  adrenalina estetica e cinematografica: lo Statunitense autore dei premiati  “Platoon” e “Wall Street” sfoggia  nel frangente scampoli di ottima regia ma  soprattutto si dimostra  sufficientemente saldo nel governare le sue pulsioni artistiche, come sempre estreme e ribollenti – soprattutto quando, non come in questo caso,  si intersecano con il “pathos” della politica -  fino a trovare l’ideale  “riposo” in un equilibrio dove efferatezze, sangue e violenza si amalgamano docilmente con l’ironia ed il ridicolo scherno, elargite in dosi perfette e con lodevole tempismo.
Il gioco riesce soprattutto grazie  ad un tris di attori al top sopra ai quali svetta senza rivali Benicio Del Toro, impareggiabile nella parte del  “laido-Lado”, un memorabile scagnozzo che esegue senza troppo fiatare ogni volontà della sua “Regina”, anche questa  caratterizzata al meglio da una Salma Hayek che sa conferirgli spessore e simpatia al tempo stesso, specie in occasione della sua visita  a “Gringolandia”; chiude un grasso e pelato John Travolta, il poliziotto Dennis, scaltro e furbo più di tutti, in poche mosse dilagante a  tutto schermo. 
“Le belve” – tratto dal romanzo “Savages” di Don Wislow, a detta di molti il miglior scrittore in attività del mondo dopo il ritiro di Philip Roth - è’ un cocktail shakerato con grande movimento di polso e giocato sul  filo di  “assurde plausibilità” che mettono insieme nello stesso improbabile ambiente – certo in forma spettacolare e romanzata “ad hoc” -  briciole di umanità e buoni sentimenti assieme a gesta sanguinarie e di famelica crudeltà (dal retrogusto “pulp”)  e con queste credenziali chiede il visto allo spettatore che, alla resa dei conti, annuendo ottiene l’accesso  ad un gradevolissimo gala cinematografico,  filmato con  mano frizzante,  del quale però tutto si deve prendere e nulla lasciare, evitando di lesinare applausi o perdendosi in minuzie ed appunti inopportuni per questo “tipo di gioco e di contesto”.
Chi è un purista e nutre sempre e comunque il bisogno di starsene senza sconti abbarbicato  alla realtà, il cui  il bagaglio di dolori e sofferenze  mai potrà realmente sciogliersi solo in deliziose scintille, giri alla larga da questo film!
Doppio “dulcis in fondo”, ovvero finale con due opzioni possibili:   si tratterà di propensione all’epilogo bulimico oppure semplicemente di un istintivo trasporto a consegnarsi ad un finale aperto senza l’obbligo di doverne “sentenziare” uno?  Meglio le pallottole che fischiano fra tradimenti e duelli all’ultimo sangue oppure lasciare il campo alle debolezze  di una mamma e di due giovani amanti in apprensione che riscoprono il  loro cuore battere all’impazzata, mentre  empietà criminali e malvagità  d’ogni genere gli scivolano a lato?
Stone non è tipo da porsi troppe domande di questo genere e nel momento in cui ha qualcosa da dire – e da dare - non si ferma di fronte a confini di alcun genere  né si lascia intimorire da superate convenzioni: da lui possiamo aspettarci generosità e nelle più riuscite occasioni la saturazione sfavillante di ogni angolo dello schermo,  non certo morigerati racconti per educande; meno che mai si allontanerà dai sicuri cortili del suo mestiere per sollevarsi fino a guardare allo stile eterno dei giganti della settima arte.

UN'ESTATE DA GIGANTI di Bouli Lanners


Zak (Zacharie Chasseriaud) e Seth (Martin Nissen) hanno rispettivamente tredici e quindici anni.
Vivono da soli nella casa del nonno: del padre non abbiamo notizia mentre la madre è niente di più che una vocina lontana che sibila al cellulare di cose che non potrà finire in tempo e rimanda il suo ritorno all’ovile verso un indefinito “più avanti”.
Così i due ammazzano il tempo come possono: Seth ha imparato a guidare l'autovettura (sempre del nonno) e Zak ha trovato una vecchia pistola in un cassetto con una scatola di proiettili.
Si aggiunge a loro il coetaneo Danny (Paul Bartel II) che sa dove trovare della buona marijuana per sballarsi un po', per la precisione da un certo “Toro” (Didier Toupy), uno spacciatore presso il quale lavora anche il fratello di quest'ultimo, Angel (Karim Leklou), un tipo piuttosto sui nervi ed aggressivo.
I tre si getteranno di propria volontà tra le grinfie del poco raccomandabile “Toro” che gli sottrarrà i mobili, l’ auto e persino la casa, gettandoli di fatto in mezzo ad una strada ed altrettanto repentinamente e senza rete  fra le braccia della vita.
“Un'estate da giganti” di Bouli Lanners è un film che procede del suo passo, con una libertà espressiva che poco si cura di accudire lo spettatore, al pari del mondo che neanche lontanamente si preoccupa del destino dei tre ragazzi in cerca di novità e speranze.
E' un racconto di formazione a tappe dove tra gioco e sventatezza i tre protagonisti si troveranno rapidamente e loro malgrado a fare i conti con un mondo soverchiante e cattivo, che non li aspetta e non li rispetta ma anzi è pronto a fargli pagare molto caro ogni minimo errore.
I genitori assenti, ovvero la latitanza degli affetti, sono la molla che spinge lontano da casa e dalle supposte sicurezze  Zak, Seth e Danny, che in fondo nulla hanno da perdere anche se molto poco finiranno per guadagnare: se servisse a qualcosa  i tre urlerebbero ai quattro venti i loro bisogni ma nemmeno ci provano perché comprendono che  il mondo difficilmente finirebbe per prestargli attenzione.
In un susseguirsi di situazioni ora sconcertanti ora divertenti, tra una notte passata entrando furtivamente in casa d'altri a colorarsi i capelli di un biondo acceso ed all'indomani a casa di una gentile signora (Marthe Keller) a far biscotti con le formine, l'innocenza indifesa diverrà “smarrita consapevolezza” e sempre più pronta ad aspirare a qualcosa di simile alla maturità; navigando il fiume della vita, dalle sue acque gli adolescenti “in fuga” lasceranno  che venga inghiottito un telefonino che squilla, recidendo quel poco che rimaneva di un già troppo esile cordone ombelicale.
Bouli Lanners fa forte il suo film di una insolita capacità di affiancarsi al mondo dei giovani in erba, dosando le asprezze con il crudele divertimento di alcune situazioni, sempre percorrendo le strade del suo racconto in totale assenza di vincoli o triti messaggi steretotipati portando presto lo spettatore sullo stesso piano visivo e percettivo dei suoi giovani protagonisti.
Ogni bivio lo scegliamo assieme a loro, ogni scelta la condividiamo o più verosimilmente  ci troviamo a subirla in loro compagnia, così il confronto con il mondo che si apre attorno diventa una cosa anche nostra, quasi convissuta, ed in fondo questa, assieme alla sua ariosa emancipazione nel raccontare,  pare senza dubbio essere la vera forza di questo lavoro.