Se il mondo riuscisse a dare i natali ad un numero meno esiguo di artisti talentuosi quanto Pedro Almodovar, uomini che “dell’odore della paura” così come del giudizio di chi li criticherà poco si curano al momento di farci entrare in contatto con “i loro mondi”, con tutta probabilità, e nella fattispecie parliamo di cinema, chissà quante altre “strade” sarebbero state “aperte” prima e chissà con quali altre “intuizioni affascinanti” avremmo potuto “collidere”.....
“La pelle che abito” ad esempio è una pellicola coraggiosa e dagli spunti indubbiamente originali ed interessanti, che non pare di certo soffrire di malattie perniciose come “l’inibizione da conformismo” e che potremmo a pieno titolo inserire in una ipotetica galleria di opere sprezzanti del rischio o del dileggio altrui….
Eppure, come sempre piu’ spesso sta accadendo nelle opere del grande cineasta spagnolo, anche questa porta con se il peso di alcune problematiche divenute oramai ricorrenti, e sarebbe a dire che Almodovar di recente, a fasi alterne ma con accenti sempre piu’ visibili, pare annaspare nel mare dei suoi stessi clichè, in difficoltà nel maneggiare ed amalgamare le sue storie paradossalmente proprio continuando ad usare i suoi elementi stilistici abituali...
In questa in particolare piu’ che in altre precedenti, sembra sfuggirgli di mano la giusta misura nel dosare e miscelare i generi cinematografici per i quali da sempre professa amore incondizionato (il noir ed il melò ad esempio, rinforzati con cast di attori sempre il piu’ eterogenei possibile…), arrivando ad inficiare persino la percezione di cio’ che osserviamo con accostamenti al solito spiazzanti ma che poi poco “risolvono” nel proseguire del racconto ed anzi, se si prescinde dal loro gustoso “effetto sorpresa” finiscono poi per “appesantire”...…
Va detto inoltre che, a mio modesto avviso, il solo fatto di sparigliare le carte o di evitare le trappole della prevedibilità sono elementi che da soli non bastano mai all’arte o al racconto per sottrarsi al bisogno di raggiungere un risultato di “completezza” che gli consenta di reggersi in piedi con le proprie gambe, quello necessario a non dover costringere chi ne fruisce a divagare “per proprio conto” con la mente a ricercar sostegni aggiuntivi altrove…
Ne “La pelle che abito” c’è un cocktail oltre che di generi anche di molti spunti di riflessione importanti sulla trans-genia e la bioetica, sulla distanza e la differenza tra il corpo e la mente e la nostra stessa dimensione fisica come un “habitat” ingeneroso e costrittivo, un aggrovigliarsi di intrecci di parentele e violenze di vario genere (mai nessuna però davvero sviluppata o risolta nel suo significare all’interno della storia…), e sinceramente il moderno “Frankstein Banderas” ed i protagonisti che lo affiancano non riescono a sollevarci dalle perplessità che ad ogni passo si fanno avanti, né puo’ aiutarci in questo il solito “inserto kitsch”, stavolta davvero “slegato e fine a se stesso”, dell’uomo in costume da tigre, ridicolo, violento e stupratore, figura eccentrica e divertente quanto inutile ed ininfluente.....
Tutto si può dire di Almodovar tranne che “non abiti” i suoi lavori, eppure anche in questa occasione pare di poter ravvisare che stia con il tempo perdendo la capacità di “restarci dentro” con la stessa libertà di sempre e si avverte sempre piu’ insistente una perdita “di calore”, una sensazione di “patinato e di formalità lavorata a freddo” e per quanto confermi ancora una volta lo stile decisamente personale pare spingersi verso una posizione sempre piu’ defilata e laterale rispetto al cinema che propone…
Alla fine della visione se si dovesse promuovere o bocciare “La pelle che abito” con un secco monosillabo la risposta sarebbe un “no” ma va ribadito, e non di certo in ossequio ad una ipotetica sudditanza psicologica nei confronti di un regista piu’ che affermato, l'urgenza che c’è di opere come questa che quantomeno provino ad inerpicarsi in territori poco esplorati, che si impegnino a ricercare forme differenti ed originali…
Nel contempo, con dolore dobbiamo confermare quanto questo “disordinato e arruffato” groviglio di pelle mutante e cellule di suino combinato con schizzi di follia e di sangue, abusi e false promesse, non riesca nè ad emozionare veramente e nemmeno a raggiungere un suo soddisfacente risultato, tanto sotto il profilo stilistico che su quello narrativo, mai come stavolta pieno di “falle e scempiaggini” sulle quali avremmo potuto tranquillamente sorvolare quando, come in altre pellicole di Almodovar, molto altro gli si affiancava, ma che stavolta, lasciate ancora piu’ “sole”, affiorano purtroppo con una maggiore evidenza….
Come proferisce la sua fedelissima attrice Marisa Paredes ci sentiremmo di poter condividere la frase “cosa non può ottenere l’amore di un pazzo” ma affiancando a questa dichiarazione una considerazione che ci porta ad affermare che il cinema non puo’ esser “solo follia”, libertà e genio, bislacche divagazioni oppure estemporanee affermazioni….
C’è anche la necessità che la mano ferma del regista conduca tutti gli elementi in qualche modo a coesistere assieme, a dimostrarne tanto la loro necessità quanto giustificarne la presenza in quelle forme…
Almodovar fin dagli esordi si è spesso dimostrato come un vero maestro in questo tipo di proposizione autoriale e spesso usando dosi di spericolata audacia con una naturalezza che ad altri avrebbero fatto venire i brividi al solo pensiero, cio' nonostante riuscendo sempre a trovare un baricentro alle sue spericolate “scorribande kitsch” ….
…..e noi che a suo tempo ne restammo folgorati e ce ne innamorammo subito, quel Pedro lo rivorremmo indietro prima possibile o giusto in tempo utile a consentire che non si allontani troppo da se stesso o dal suo cinema migliore….
FRANCO - 30 SETTEMBRE 2011