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lunedì 16 luglio 2012

TAKE SHELTER di Jeff Nichols



Curtis (Michael Shannon) è un operaio: ha una moglie (SamanthaJessica Chastain) ed una figlia affetta da sordità.

Forse è il lavoro che lo stressa, forse si tratta di qualcosa di molto più grave, ma da qualche tempo fa brutti sogni ed ha terribili visioni.

La realtà, quando lo riaccoglie, è comunque sovrastata da un cielo plumbeo e da una pioggia che nasconde strani presagi.

Proverà a rintracciare le radici del suo male consultando i medici, ma forse non è tanto nella sua mente il dramma che incombe quanto nella calma apparente che lo circonda.

Take shelterdi Jeff Nichols è un film che si muove in un terreno ambiguo, dove si incrociano domande e dubbi oltre ad una paura difficilmente catalogabile, che presto finisce per coprire tutto e si impadronisce delle atmosfere quanto del protagonista.

Per sfuggire alla confusione ed allincertezza che ci avvolgono dovremo necessariamente arrivare anche noi fino allultimo fotogramma.

Atmosfere dilatate, che nella percezione richiamano quelle dell'attesa di un film horror, ci lasciano brancolare nel buio mentre seguiamo Curtis che perde aderenza dalla realtà e lancia richieste di aiuto che gli si spezzano in gola un attimo prima di essere urlate.

Sciama attorno un malessere intangibile, senza un volto concreto, che impalpabile e strisciante mina ogni sicurezza: le banche che esigono i propri crediti, le assicurazioni indispensabili per le cure sanitarie, collegate al posto di lavoro, ed una quotidianità quindi messa a rischio ad ogni passo dai licenziamenti che incombono. Non sono per caso questi indizi.

Nichols è estenuante, volutamente fuorviante e, grazie a questo, bravissimo a celare fino in fondo lobiettivo nascosto del suo racconto.

Cè un rifugio contro gli uragani che sembra non debba servire a nessuno e bagliori nel cielo che nessuno nota ma che rischiano di fulminare molti, a loro stessa insaputa.

Le sensazioni cheTake shelter” ci induce a provare - letteralmente potremmo tradurre il titolo con l'espressione “mettersi a riparo” – non hanno nulla di benevolo e ci conducono assieme a Curtisbravissimo Shannon, oramai specializzato nei ruoli da disturbato mentale dopo i lavori con Mendes ed Herzog - in una dimensione insicura e paurosa che è il luogo che il film vuole creare per noi, buona per sottrarci ad una insana calma piatta e scuoterci dal nostro torpore, spronandoci a cercare un diverso e salvifico approdo.

Transitare attraverso questa dimensione di panico e angoscia, mentre percepiamo sempre più vicino labbattersi su di noi di una sorta di flagello biblico, ci porta al significato metaforico del film, ovvero il versante parallelo della pellicola di Nichols, che poco ha a che vedere con la follia di un solo uomo e molto invece con quella di tutti gli altri, che siano cittadini della lontana America o della nostra Europa, devastate da crisi di varia forma ed entità e senza una facile soluzione.

C’è una tempesta in arrivo e nessuno è preparato, anzi, nessuno la vede. Tranne uno, uno soltanto: ma nessuno gli crede!

domenica 15 luglio 2012

UN AMORE DI GIOVENTU’ di Mia Hansen Løve



Due giovani che si affacciano all’amore: per Camille il suo ragazzo è tutto quello che può immaginare o desiderare ed altrettanto pensiero vorrebbe che albergasse nella testa di Sullivan.

Ma lui sa bene che questo non è possibile e che ognuno deve fare le sue esperienze, per poi poterle condividere.

Il giovane venderà dunque un minuscolo dipinto, eredità di famiglia, per poter raggiungere Caracas e combinare qualcosa di buono, alla ricerca di una pace utopistica che Parigi, con il suo “falso equilibrio”, non avrebbe potuto dargli: in poche parole tenta di diventare adulto.

I due ragazzi, nello spazio di poco tempo, conoscono la separazione e la perdita; il sogno e l’idealizzazione combatteranno con la realtà perdendo nei suoi confronti molto terreno ma anche questa, a sua volta, dovrà confrontarsi con il continuo incontrare sul suo cammino pulviscolo di desideri e briciole di cuore che il vento non è riuscito a spazzar via.

Film francese, che si può definire tale a pieno titolo per la sua purezza e per le sue inesistenti concessioni al superfluo, per la ricerca vera di una “vera bellezza” e per il rifiuto netto ad omologarsi ai modelli imperanti del cinema e della piacevolezza.

Ad ogni dissolvenza la Hansen Løve Love scandisce un nuovo capitolo della vita che finisce e ricomincia. La sua storia si dipana seguendo soprattutto Camille: il suo disagio e la grande tristezza dopo l’abbandono, poi la presa di coscienza; il lavoro che la aiuterà a scavare dentro ed a tirar fuori qualcosa di lei che era riottosa ad uscire.

L’inezia fa la differenza e lo sa bene questa regista Francese che rinverdisce i fasti di Rohmer e Truffaut, ma che guarda anche all’essenzialità, non necessariamente poetica, di tanto cinema contemporaneo orientale. Con bravura innata ma anche molta professionalità, rende alla perfezione l'implacabilità del distacco, il disorientamento di due vite lontane ma che si avverte da un momento all’altro potranno riunirsi. Seguendo richiami inspiegabili, la svolta passa ora per un bambino mai nato, poi uno sciopero dei treni, un mancato suicidio, una lettera non spedita.

Esistenze che navigano lontano, che non si sono mai perdute del tutto ma nemmeno riuscite davvero ad afferrare.

Non aspettatevi quel che non troverete: un film romantico e melenso con lieto fine programmato.

La vita muove, agita, divide cuori e corpi e menti. La Hansen Løve ha un passo felpato, delicatissimo, strettamente abbarbicato alla realtà dei torti e delle ragioni pur riuscendo a mantenere vivo un romantico fatalismo.

L’amore è come una malattia: la più incomprensibile e difficile a guarire, la più rischiosa e... bella!

Non governiamo davvero la nostra rotta: solo ogni tanto diamo un colpo al timone e ci sembra di riprender la direzione; tanto ci basta a non esser travolti e continuare a vivere, o a galleggiare.

Come un cappello che il vento porta con se e lascia poi cadere: è il sole quello che brilla sulle acque limpide del fiume, leggermente increspate, mai veramente immobili.

IL DITTATORE di Larry Charles



Il Dittatore/Generale Aladeen nasce già con la barba e da grande, come i suoi pari, avrà i soliti problemi con l' uranio da arricchire.

Le olimpiadi se le organizza per conto proprio e se sono su pista le vince “abbattendo” letteralmente i suoi avversari, altrimenti se le gioca alla “Wee” nei panni di un terrorista, con un videogame che prende spunto dai drammatici fatti di “Settembre Nero” a Monaco nel 1972.

Chiunque gli faccia il minimo sgarbo rischia di esser giustiziato, anche se per gli sventurati scopriremo l'esistenza di una sorprendente via d’uscita proprio negli U.S.A..

Però la sera è una solitudine vera quella che lo circonda quando abbraccia il suo cuscino mentre le donne con le quali ha giaciuto frettolosamente gli rimangono distanti, immobili sulle foto a parete della sua grande stanza.

Ma ecco che una visita nella odiata “America di Satana” cambierà la sua vita, o meglio per un bel tratto ne devierà il corso, quando per una serie di circostanze verrà “sollevato” dal suo incarico di potere e catapultato in una realtà sconosciuta.

Con Larry Charles e Sacha Baron Cohen l’eccesso è lo stile comandato, di certo un ingrediente irrinunciabile: “Il Dittatore” però non vive di soli uppercut trash da assestare ma è forte anche di un foltissimo campionario di battute brucianti e verità cattivissime e satireggianti sciorinateci sotto forma di situazioni comiche, qualcuna di queste più che godibile.

Se volessimo individuarne il difetto non dovremmo puntare dunque sulla sua inclinazione a trascendere quanto invece su una complessiva organicità e compattezza davvero troppo esili per farne un film che possa prendere le distanze dal tempo che lo ha partorito, così come dai riferimenti reali che mette in campo.

Nondimeno la pellicola rimane ostaggio, nel bene o nel male, proprio del suo stesso mitragliamento senza posa di battute.

Le imbeccate intelligenti ed acute sono molte, per quanto volutamente abbandonate ad un senso di sciatteria, nessuna però che contribuisca a tenere unito il film con uno straccio di “filo” che ne faccia davvero una storia anziché un potente palco di cabaret su schermo cinematografico.

E’ però difficile non ridere, certo anche amaro, ad esempio al cospetto dei potenti della terra che non vedono l’ora di trasformare la dittatura in democrazia per poter cominciare a banchettare tra gas e petrolio.

Ugualmente molto azzeccato è il cinese affetto da “delirio di onnipotenza con deriva omosessuale” che ci precipita in angosciosi quanto spassosi interrogativi irrisolti su quale sarà stato poi il conto pagato ad Edward Norton (oppure da Harvey Keitel) e che sicuramente avrà gettato tra panico e allarme il povero Viggo Mortesen.

L’apice del trash probabilmente lo si raggiunge durante la scena di un parto, quando Aladeen (o dovremmo chiamarlo Alison Burger?) parla al suo cellulare e tuba mano nella mano con la sua fiamma: attenzione se andrete a vedere il film perché nella circostanza appena descritta non riuscirete a cavarvela alla bene in meglio come leggendo queste ultime due righe.

Al film di Charles e Baron Cohen va senza dubbio riconosciuta una velocità aggressiva ed una agilità repentina nel suo mordi e fuggi dissacratorio che quasi sempre coglie nel segno, non sempre calcando la mano sulla volgarità o la scorrettezza ma utilizzando, certo non a piene mani, persino raffinatezze criptate per pochi eletti (vedi i riferimenti agli Yiddish): con il suo armamentario di guardie vergini, sosia ed “Everybody Hurts” dei R.E.M. cantata in arabo, davvero bombarda a tutto campo su femminismo e buone maniere, modelli alternativi e categorie protette, insomma contro tutto e tutti.

Il discorso finale, limpido e didascalico, svela con semplicità qualche agghiacciante similitudine tra il mondo occidentale e tutto quello che invece crediamo ai suoi antipodi.

Ne “Il Dittatore” c’è molto intuito e nessun argine, tanta foga e parecchio disordine: divertimento quanto basta e fin sopra i titoli di coda: dalla scoperta di un felice e soddisfacente onanismo ad una cotta tremenda per una barricadera femminista fino a che un rumore di vetri infranti non risveglia in un lampo il demone della malvagità mai del tutto sopito.

L’amore non basta e il Dittatore è un lupo feroce: non perde il pelo semmai gli taglian via giusto la la barba: ma l'antico vizio di mozzar via le teste, quello no, non lo abbandona mai.

sabato 7 luglio 2012

C'ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA di Nuri Bilge Ceylan



Tre autovetture procedono in fila indiana alle ultime luci del giorno: di lì a poco sconfinerà la notte che, lo intuiamo presto, non ci darà occasione a breve di incontrare nuovamente il mattino.

Buio, lampi che annunciano la pioggia e illuminano per un attimo volti e presagi nascosti fra le rocce; molte parole, attesa, piccoli segnali e premonizioni.

Il teatro è quello di un paesaggio arcaico e desolato dove un commissario (Yilmaz Erdogan), un procuratore (Taner Birsel) ed un dottore (Muhammet Uzuner) accompagnano un reo-confesso, alla ricerca del luogo che nasconde le prove del suo misfatto.

C’era una volta in Anatolia” dell’eccellente regista Turco Nuri Bilge Ceylan (“Le tre scimmie” – “Uzak”) procede apparentemente come fosse un poliziesco ma il suo passo lento ed estenuante, così diverso dal “genere”, tradisce presto una diversa ambizione e la ricerca di un fronte inconsueto e lontano, fatto di indizi però umani, di vite che impattano con il loro passato più che di veri e propri elementi del crimine e se investigazione c'è, allora stiamo parlando di quella che esplora gli anfratti più reconditi dell’anima.

Il lungo viaggio in una notte che non vuole terminare, squarciata ogni tanto solo dai fari che la bucano percorrendo strade brulle e solitarie, apparentemente sembra tinto di giallo ma in realtà sono altri i colori e le sfumature che si vogliono raccontare ed indagare.

Bilge Ceylan priva lo spettatore dei riferimenti e lo lascia sperduto come i suoi protagonisti, facendo in modo che sensazioni e verità affiorino lentamente; spesso indugia in inquadrature larghe e fisse o che stringono il campo lentamente, rendendo ancora più acuto il senso di rarefazione.

Fotografia e luci usate con grande sapienza e raffinatezza amplificano ogni sensazione e “picchiettano” alla gola, poi anche al cuore.

Bir zamanlar Anadolu’da” – questo il titolo in originale - è una pellicola né troppo complessa ne criptica ma che richiede pazienza ed una necessaria partecipazione al fine di condurre fino all’empatia chi osserva; un approccio privo di tale predisposizione, della doverosa curiosità e della consapevolezza che la dilatazione del tempo è un valore aggiunto per meglio addentrarsi nei significati e nella realtà, probabilmente non potrà arrivare a cogliere le venature nascoste, né ripagarsi con lo stupore intenso a venire, che infatti giungerà senza dar sfoggio di nessuna appariscenza.

E’ una storia sporca, i cui frutti sembrano non doversi mai cogliere ma che invece regalerà a coloro che sapranno disporsi alla visione la possibilità di elaborare riflessioni lancinanti, sensazioni intense destinate a tornare più volte a struggerci ed incantarci.

Mancata “Palma d’oro” a Cannes 2011 – se la aggiudicò il Terrence Malick sopravvalutato di “The three of life” ma al quale si vollero forse rendere gli onori alla carriera – “C’era una volta in Anatolia” vinse comunque il “Gran Prix – Premio speciale della Giuria”: film di straordinaria bellezza, contemplativo, che ad ogni fotogramma scava un nuovo solco in visi e persone, senza mai urlare o dover stupire trasforma in suggestioni visive il modo di raccontare dei grandi della letteratura oppure ne ricorda la capacità evocatrice e descrittiva con epifanie radiose, incantevoli come pitture fiamminghe che ci mostrano niente di più che una ragazza emergere dal buio portando un vassoio colmo di bicchieri tintinnanti.

Il delitto al centro del racconto è niente altro che una scusa per poter intagliare con il bisturi di una grandissima regia il corpo dei vivi anziché quello dei morti e praticare una laboriosa quanto affascinante autopsia delle anime.

L’obiettivo schiacciato sul primo piano di un intricato labirinto umano lentamente se ne allontana e ci consente infine, lasciando trapelare una sola traccia per volta, di arrivare ad ammirare un quadro totale altrimenti indistinguibile.

Come da un setaccio, adagio, scivolano granelli di sabbia che con il loro grigio compongono l’indecifrabile disegno di differenti uomini e storie, provenienti da lunghi e sofferti percorsi, dei quali non tutto dobbiamo conoscere ma molto alla fine ci sarà rivelato.

Come si farebbe con qualcuno o qualcosa che non siamo riusciti ad afferrare del tutto ma ci ha profondamente turbato o colpito, li osserviamo ancora, giusto nei pressi dell’ultimo crocevia che li ha fatti incontrare: un attimo dopo ognuno sta già riprendendo il suo cammino.

7 DAYS IN HAVANA di Autori Vari



Gioie e dolori della capitale Cubana: 7 giorni della settimana (daLunesaDomingo”) per 7 cortometraggi commissionati a registi diversi nellambito di un progetto diHavana Club International”, azienda Franco/Cubana produttrice del famoso Rum, teso a promuovere valori e radici dellisola Caraibica.

Partendo dai testi dello scrittore autoctono Leonardo Padura ecco una rappresentazione poliedrica di una delle mete turistiche più battute e desiderate del pianeta: disponibile ed accogliente, fogna e paradiso, molto spesso vinta dal suo dover immancabilmente ondeggiare tra stereotipo e mito.

Difficile snidare quel che di leggendario e di falso si annida nei ritratti della città proposti da questa pellicola e parecchio complicato anche sottrarsi ad un inspiegabile senso di nostalgia e calore al quale viene indotto per vie disparate persino chi non ne aveva mai sentito parlare e meno che mai ci aveva messo piede.

Ecomunque un popolo bello e che profuma di pulito quello che ci restituiscono i brevi racconti di “7 days in Havana”, che sempre e comunque sembra sventolare il vessillo, sdrucito e scintillante, della spontaneità e della solare offerta di amicizia.

Pablo Trapero (“Jam Session”) più degli altri prova a sottolineare questa caratteristica di grande e disponibile umanità e dopo averdialogatocon Kusturica, per questa volta davanti allobiettivo anziché in regia, passa rapido la mano ai suoi colleghi senza molto altro da aggiungere.

Julio Medem (“La tentacion de Cecilia”) invece affoga presto nel suo tema, insistendo troppo nel sottolineare il rincorrersi e l'alternarsi di contrasti e desideri; il suo è forse lepisodio più scontato e meno originale, incapace di raccontare qualcosa di davvero nuovo oppure di distinguersi con accenni significativi tramite uno stile personale.

Diversamente Elia Suleiman (“Diary of a beginner”), che come suo solito gioca con luoghi, protagonisti ed immagini persottrazione ed isolamento, in poche istantanee declina piccole gioie, tristezze e contraddizioni della leggendaria Cuba e della sua rivoluzione oramaiistituzionalizzata.”

Ai suoi antipodi Gaspar Noè (“Ritual”) indaga invece tra ritmo ossessivo e luci buie il volto oscuro de LHavana, non sapremmo dire con quanto compiacimento. Solitamente il regista Argentino trova la sua forza nelleccesso: stavolta però coglie la giusta misura e rende un buon servigio al film nel suo complesso.

Il suo cortometraggio pedina una adolescente omosessuale nel suo percorso tra punizione e purificazione, umiliazione ed espiazione.

Bravo è Benicio Del Toro (“El Yuma”) in apertura, ordinato, semplice ed efficace dietro la macchina da presa: dalla mattina ci accompagniamo assieme ad un giovane americano che la prorompente bellezza femminile da ogni angolo vuole adescare. Chiude la sua storia con un orgoglioso sberleffo al troppomachismodel quale sembrerebbe ancora esser intrisa lisola caraibica.

Dulce Amargo è invece il titolo dellepisodio di Juan Carlos Tabio, che racchiude nel titolo linnegabile oscillazione emotiva che spesso deve subire la vita nella capitale; buoni gli spunti che si perdono però in uno sviluppo troppo disciplinato e poco originale ed incisivo: una occasione sprecata!

Infine Laurent Cantet (“La Fuente”), tra ironia, vitalità e religione da par suo regala una prova corale, sufficientemente descrittiva dellanima calorosa di questa gente e dei luoghi che abita: dalMalecon” – così è chiamato il famoso lungomare de LHavanaalle case pastello; poi le indolenze, le abitudini, i miti religiosi (la vergineOshun”, dea delle acque e della fecondità) e le festose esternazioni.

Alla resa dei conti, per qualità e personalità si alza una spanna sopra tutti sicuramente Suleiman e la sua sintesi semplice e poetica, stramba e stralunata ma non per questo meno attenta e capace di cogliere tutto quel che è essenziale, anzi facendolo emergere con la sua naturale inclinazione a tagliare il superfluo.

Subito dopo Noè e Cantet. Degno di nota anche Benicio del Toro.

Sette piccole storie con sullo sfondo variopinte cartoline semoventi, a volte troppo turistiche, a volte portatrici di dettaglisocio-antropologicima senza particolari velleità; alcune hanno il giusto colpo dali e potranno continuare a librarsi in volo anche oltre lorizzonte della sala cinematografica, altre un attimo dopo che si sono accese le luci in sala stanno già ripiegando verso un ordinato ed onorevole oblio.