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lunedì 30 aprile 2012

TO ROME WITH LOVE di Woody Allen



A passeggio per le strade di Roma, preso dai soliti dilemmi esistenziali e rimbalzando tra le sue consuete elucubrazioni che esalano odori di sesso e psicanalisi, Woody Allen viene probabilmente colto da un poderoso colpo di sole o magari patisce in maniera spropositata la calura estiva della capitale e finisce così per " mettere assieme" un film tra i peggiori che si possano ricordare della sua scintillante carriera, una pellicola a tratti “sconcertante”, quasi mai “giustificabile”!...

Dal “Patrio suolo Italico” vengono convocate maestranze attoriali d’ogni genere e “lignaggio”: si spazia dal “Benigni da Oscar” al “teatral-comico Antonio Albanese” per passare attraverso il “cameo” di Riccardo Scamarcio, la Mastronardi de “I Cesaroni” e chi piu’ ne scorgesse dei moltissimi altri nella pellicola invii pure segnalazioni e parteciperà all’estrazione di un biglietto gratis per un “altro film” di ….riparazione!

Allen si porta da casa Penelope Cruz, Jesse Eisenberg ed Alec Baldwin (che approfittando di una nostra momentanea distrazione diverrà un “Ectoplasma de Noantri”) più qualche altro fidato sodale e raggiunto l’usuale nutritissimo cast si adopera tosto ad intrecciare quattro episodi dove le tematiche son piu’ o meno quelle a lui solitamente care con l’unico “innesto originale” che è quello del “divo per caso”, ovvero Leopoldo/Benigni e tutto il corollario di (superficiali) riflessioni che ne potrebbero/dovrebbero conseguire circa l’uomo comune e l’uso della comunicazione nei suoi confronti, soprattutto a livello televisivo e dell’immagine.

Le situazioni comiche che il regista mette in fila però sono talmente banali e scontate da poter trovare un debole appiglio per averne comprensione solo nell’ipotesi di un omaggio, ovvero nell’aver voluto eventualmente gratificare una certa maniera (ordinaria?...sorpassata?...) di far divertire propria ad un congruo numero di pellicole italiane (con risultati alterni e molto differenti, soprattutto nel corso degli anni) ma comunque talmente mal riprodotte ed in maniera grossolana da non poterci mettere nemmeno in condizione di esternare il nostro “sentito ringraziamento”….Lo stesso dicasi pure per il “molto vago omaggio Felliniano” a “Lo sceicco bianco” interpretato da Cruz e Tiberi, che avremmo evitato davvero volentieri.

A parte questo “pot pourri” che infila nello stesso piatto doppi sensi scontati e circostanze teoricamente divertenti ma che hanno “la miccia che puzza di fuoco spento” possiamo aggiungere davvero poco altro se si eccettua un inspiegabile diluvio di “sponsor Italiani molto poco occulti” che sembrano aver traslocato tutti assieme dai centri commerciali e dagli scaffali dei supermercati per trovar riparo sotto l’accogliente tettoia degli studi Hollywoodiani” ed ancora una sequenza di “cartoline di Roma sparita” quasi fastidiose nel loro tentativo di “ripulire il reale” a vantaggio di un qualcosa che in quella resa e con quei colori è esistito forse soltanto sulle stampe di qualche fotografo dal “filtro facile” e dall’audacia compositiva totalmente fagocitata dalla piu’ ripetitiva monotonia.

Scioccante, se messa in relazione al lustro del cognome che li ha generati ed alla sua rinomata bravura, la rassegna dei dialoghi, dove le battute scontate su comunisti e beccamorti o le improvvisate lezioni di cucina per imparare a fare “crostini alla formaldeide” diventano l’apice della risata e non il contorno!

Dovremmo quindi accontentarci dell’originale regista teatrale che veste gli attori del Rigoletto come “topini bianchi” e mette la Tosca dentro una cabina del telefono (si tratta dello stesso Allen nell’episodio meno “malconcio” dei quattro) e che pensionato ed a zonzo per Roma non trova nulla di meglio che rivitalizzarsi schiaffando un tenore a farsi la doccia nel carrozzone de “I Pagliacci” di Leoncavallo, oppure esprimer gaudio al solo udir parlare della malinconia di Melpomene o della “Signorina Giulia” di Strindberg mentre una urticante musichetta presa in prestito dai filmini di un' Italietta compiacentemente idiota emerge da un già disturbante sottofondo?...

No grazie....GRAZIE NO!” affermava con tono imperativo il “poeta spadaccino e guascone”!...

Summa esemplare di una vacanza piuttosto distratta e inconcludente all'ombra del Colosseo potrebbero essere un inguardabile carrello circolare a Piazza del Popolo o quel paio di composizioni di ortaggi all'insegna del tricolore, “vivo e lucente tra insalate e pomodori”...

Davvero difficile intravedere anche solo il barlume di una qualche buona idea animata da seria intenzione...

Ed allora, questo inspiegabile fulmine a ciel sereno nel bel mezzo di una lunghissima e torrida estate, meglio relegarlo al piu' presto tra gli episodi da cancellare di netto, da rimuovere presto ed “in toto”, per il bene nostro che potremmo riceverne turbamento nel ricordo e soprattutto per lasciar intonza la reputazione di uno dei piu' geniali registi e grandi attori che il cinema contemporaneo abbia conosciuto ed evitargli classificazioni indebite ed immeritate di “minus habens”, come quella accollata dalla critica (spietata?...) al suo ennesimo “alter ego” in questa sciagurata pellicola...

IL PRIMO UOMO di Gianni Amelio



Attraversando la “terra di mezzo” abitata da un libro incompiuto e la capacità profonda di percepire il mondo e le persone che talvolta segna l'esistenza di un uomo, Gianni Amelio coglie l'ispirazione cinematografica per un racconto ondeggiante tra echi di fratellanza e vita dolente e riflessiva.

Direttamente dalle pagine di Albert Camus ci ritroviamo in una Algeria a cavallo tra gli anni '20 e gli anni '50, spossata dalle guerre, dal colonialismo e dagli attentati terroristici figli dei tumulti indipendentisti; a tutto questo ostico e complicato retroterra non viene concesso di avanzare troppo dallo sfondo, non di certo per sminuirne l'indubbia importanza ma volendolo relegare manifestamente in una posizione ancillare rispetto alle figure umane, le uniche che possano far emergere la vera anima del racconto ed alle quali il regista riserva una posizione di spicco.

Il romanzo autobiografico di vita e formazione di un giovane bambino Franco-Algerino che da adulto diverrà uno scrittore famoso, vincendo addirittura il nobel per la letteratura - Jacques Cormery interpretato da un convincente Jaques Gamblin ed alter ego dello stesso Camus - condivide diverse similitudini con i primi anni di vita di un altro fanciullo calabrese che molto tempo dopo farà cinema d’autore (lo stesso Amelio) ed il cinema, accondiscendente, si dispone ad assecondare senza darlo troppo a vedere le molte convergenze nascoste di queste due infanzie che a tratti potrebbero parlare con la stessa voce; altrettanto nel Nord-Africa di ieri ci pare di poter scorgere tracce di un assolato Sud-Italia non troppo remoto e parecchio familiare.

Uno scrittore deve aiutare coloro che subiscono la storia” ed un regista che abbia un'alta concezione del suo ruolo prontamente si allinea cercando di seguirne le orme.

Amelio con molta evidenza vuole concentrarsi nel far risaltare il filo degli intrecci umani e delle sensazioni e poco si cura delle eventuali imperfezioni relative ai riferimenti storici o politici: scopo prioritario è “unire e non certo dividere” e di questo diviene una logica conseguenza lo sforzo indiscutibilmente operato nel far affiorare le similitudini tra gli arabi “stupidi e rozzi”, uomini e donne che una Francia senza la loro presenza non potrebbero sentire come casa loro, mettendoli a confronto con gli eredi di quei coloni che nell’ 800 inseguivano il sogno della terra promessa ed ora in quegli stessi luoghi fanno i fattori, desiderando non di “conoscere una patria sconosciuta e lontana” ma soltanto di morire nelle native terre d'Algeria.

Però muovendosi tra la povertà, l'analfabetismo e le molte domande che inevitabilmente pongono gli avvenimenti politici ed una storia quanto mai complessa - con tutte le notevoli implicazioni di odi razziali e divari culturali – Amelio scopre il fianco fin troppo presto ad un suo intento marcatamente didattico, oltretutto reso ancora più evidente da dialoghi forse non “levigati e ripuliti” abbastanza da render questo proposito adeguatamente celato.

Senza le opportune cautele, in una situazione magmatica così imponente, finisce per palesarsi presto la percezione di una difficoltà a fondere assieme i significati, l'afflato poetico, la sceneggiatura e la recitazione in un tutt'uno indistinguibile e di questo si avverte il peso in non pochi segmenti della pellicola, cosa piuttosto insolita per un cineasta spesso maestro nel restituire tutti gli elementi in un corpo unico con straordinaria naturalezza.

Amelio pare non indeciso, piuttosto sospeso e non capace fino in fondo di combinare due linee di racconto: poco avvezzo a smussare gli angoli di un versante storico forse a lui più distante - oltre che molto spigoloso - ed in difficoltà nell'amalgamarlo con la traccia narrativa portante che segue la formazione e la ricerca umana del protagonista (ed anche sua?...), molto più facile da rendere talvolta anche solo mostrando piccole cose come la complicità nell'atto di fumare assieme una sigaretta o le incandescenze sofferte sul volto di chi prostrato chiede (e riceve) aiuto in nome di una amicizia che “non c’è mai stata”.

Il primo uomo” è apertamente schierato “dalla parte dei barbari” ma forse non convinto abbastanza di “dover urlare a piena voce” una sua idea precisa e definita in tema di guerre, di storie e di popoli; forse non vuole farlo intenzionalmente o quantomeno funziona assai meglio quando spazia ad esempio tra le indulgenze o le asprezze di persone che la vita l'hanno subita reagendovi come meglio potevano e così, invece di mettere a fuoco e tratteggiare con risolutezza tutto il contesto sembra accontentarsi di raccontare “solo” (...) di un uomo (Camus) in mezzo a molti altri, stretto tra gli eventi ed il solco profondo ed amplissimo del suo dolore e dei suoi pensieri.

Non è affatto poco, anzi, ma si ha come la sensazione che il film avrebbe potuto dare di più e che rinunci a qualcosa ampiamente alla sua portata, arrendendosi di fronte ad ostacoli superabili con piccoli ulteriori accorgimenti e qualche imbeccata migliore.

Il risultato però, nonostante tutto rimane di buon livello, probabilmente perchè è difficile sfuggire al suo clima di forte ed invidiabile sincerità ed in quanto si avverte chiarissimo un impegno intellettuale davvero raro nel cinema, ed è un binomio questo in grado di donarci intense sensazioni assieme a suggestioni emotive non comuni.

ROBA DA MATTI di Enrico Pitzianti



Cronache di follia dal quotidiano della nostra penisola ma a differenza di quanto potremmo immaginare non sono i “cosiddetti” matti a far notizia bensì le persone e le istituzioni che dovrebbero tutelarli, per intenderci quelli che chiamiamo comunemente i “normodotati”.

A Quartu S.Elena (Cagliari) opera l' “A.S.A.R.P. - Associazione Sarda per l'Attuazione della Riforma Psichiatrica” che nel 1995 ha realizzato lo splendido progetto al quale ha dato il nome di “Casamatta”, una struttura socio-assistenziale dove convivono felicemente persone con disagio psichico e travolte da “troppa normalità”.

Nell'aiutarli a superare le situazioni di varia difficoltà offrono il loro supporto, competenza ed amicizia operatori di raro pregio umano; li dirige la tenace Gabriella Trincas, professionista che evidentemente non deve ispirare simpatie a tutto tondo al punto da buscarsi da parte di uno psichiatra sindacalista una denuncia per violenze sui suoi assistiti ed abuso della professione.

Oltre ai N.A.S., che in seguito a questo esposto hanno indagato a vari livelli attorno alla situazione, “Casamatta” ha dovuto affrontare anche una ingiunzione di sfratto e problemi economici di varia sorta.

Enrico Pitzianti documenta tutto questo e molto altro combaciando alla perfezione i tempi del cinema con quelli dei protagonisti, ovvero gli inquilini del centro, senza far affiorare mai nemmeno un briciolo di inutile pietismo e dispiegando un generoso e protettivo ventaglio fatto di condivisioni e comprensione a far da argine alle troppo frettolose e poco avvedute conclusioni.

La radicalità della riforma psichiatrica Italiana scaturita dal lungo ed innovativo lavoro di Franco Basaglia, culminata nella ben nota “Legge 180”, è un punto di riferimento internazionale compresa l' ”O.M.S.”, forse una delle ultime eccellenze legislative del nostro Paese che siano venuti a studiare ed ammirare dall'estero, e Pitzianti ce ne mostra, senza mai puntare l'indice su nulla in particolar modo e mantenendo il suo racconto nell'alveo di una prodigiosa naturalezza, le difficoltà attuative, le eventuali aberrazioni ma soprattutto l'inestimabile patrimonio di dolcezza e libertà che grazie ad essa è stato restituito al genere umano.

Osserviamo sottrarsi dal fascio di luce del nostro pregiudizio quelli che consideriamo spesso soltanto dei non meglio identificati “malati psichici” e che forse inconsciamente desidereremmo davvero non nutrissero alcuna ambizione o avessero bisogni reali, rispetto ai quali infinita tranquillità crederemmo di guadagnare se potessimo saperli davvero e senza alcun dubbio “incapaci di intendere e di volere”, definizione più che mai subdola, talvolta deliberatamente omnicomprensiva e spesso usata con superficialità.

Il lavoro di Pitzianti ce li fa vedere a passeggio per strada, mentre vanno in palestra o sorseggiano una menta al bar, comprano merci nei negozi come tutti noi e soprattutto li riprende mentre esprimono nelle forme a loro più congeniali pensieri e desideri e, quando necessario, le loro istintive e nette contrarietà con più che sufficiente chiarezza.

Il vivo della discussione, pure nella distinzione irrinunciabile dei ruoli tra operatori ed inquilini di “Casamatta” è, provando a seguirne i passi con occhi liberi da idee pregresse, parecchio illuminante, così come lo è assistere alle difficoltà incontrate nel vincere la diffidenza delle persone comuni che ostacolano la ricerca di una nuova casa in affitto.

L'amorevolezza con cui “Roba da matti” racconta i suoi protagonisti è parallela e non molto da meno rispetto a quella messa in campo ogni giorno dalla battagliera Trincas (che ha una sorella nella “Casa”); Franco Basaglia come un angelo sorveglia ogni cosa, appeso ad una parete su una gigantesca fotografia.

L'amore unito alla determinazione non può tutto ma certamente può molto e negli anni - la lavorazione della pellicola parte nel 2009 quando la stessa Trincas contatta Pitzianti per realizzare un documento filmato - diffamazioni ed egoismi si sono liquefatti, le denunce sono andate in archivio e qualche istituzione ha sopperito all'assenza di molte altre ed ha infine riconosciuto meriti e peculiarità davvero evidenti al progetto “Casamatta”.

Eppure questo gruppo di persone, che non sono alla ricerca di un'idea sognante ed irrealizzabile ma già ne vivono la sua concreta realizzazione, è ancora senza una nuova casa e lo Stato, il primo responsabile individuabile, o magari la chiesa, spesso distante dai figli del suo Signore in maniera difficile da accettare, non sono stati capaci di risolvere alcune semplici problematiche come quella di fornire un alloggio idoneo o elargire una misera somma di denaro per attenuare le innumerevoli difficoltà.

Il masochismo tutto italiano capace di complicare cose semplici o che addirittura spesso rischia di distruggere quel che funziona, anche in questo caso ha dato esito a risultati sconcertanti.

Nonostante di questo non si possa far altro che prender atto, continuando però a sostenere la causa con passione e volontà che contrastino ulteriori derive o disastri, possiamo gonfiare l'animo di speranza e concedere alla nostra incredulità il lusso di osservare come “utopia” non sia altro che una parola, pronta a rivelare tutta la sua leggerezza ed inconsistenza non appena l'uomo decide si dare luogo a quel che si credeva impossibile.

Non così di rado capita che nel deserto germoglino fiori che profumano della gioia di vivere ed a chi distratto non se ne fosse mai accorto questa pellicola è pronta a raccontare i piccoli ed i grandi misteri del cuore...

LAPUTA - IL CASTELLO NEL CIELO di Hayao Miyazaki



Dai cassetti di Hayao Miyazaki, colmi di preziosi lavori d'animazione, ecco rispolverato per le nostre sale questo “Laputa – Il Castello nel cielo”, prima produzione indipendente del maestro nipponico con il suo studio Ghibli e che pare non risentire affatto di esser datata un quarto di secolo addietro (1986).

Fin da prima dei titoli iniziali veniamo immersi immediatamente nell'avventura piu' pura e fantasiosa, vediamo gigantesche aeronavi prese d'assalto da meccanici “coleotteri volanti” per poi proseguire con il più classico degli inseguimenti tra treni su rotaia ed automobili di filato nella scia del suo vapore, e se questo non vi bastasse sappiate che coinvolti in tutto questo “bailamme” ci sono “golem/robot”, pirati, esercito e persino servizi segreti e speciali agli ordini del governo!

Il centro della storia però, neanche a dirlo, è dominato da due bambini, una principessa inizialmente poco consapevole dell'importanza del suo ruolo di nome Sheeta ed un piccolo minatore di nome Pazo.

Con l'aiuto di una bislacca nonnina (mammina...o capitano! Una femmina piuttosto audace dalle treccine rosa...) e della strampalata ciurma ai suoi ordini, i due protagonisti partiranno alla scoperta della città volante e misteriosa di Laputa.

Le coordinate da seguire, oltre ad una speciale “luce sacrale” che scaturisce da un preziosissimo cristallo di “aeropietra” verranno fornite dal sole, dalle stagioni della falciatura e dai venti alisei.

E qui Miyazaki rivelava già molto del suo modo di intendere la vita e di ricrearne i punti chiave negli universi di fantasia da lui partoriti.

Laputa – Il castello nel cielo” è già colmo di tutto quanto sarà fondamenta irrinunciabile in quasi tutti i lavori che seguiranno, a partire da un evidente interesse, peraltro molto in anticipo sui tempi generali, per le questioni ecologiche: i paesaggi grigi dei minatori all'ombra di ciminiere sporche di fuliggine contrastano con il “paradiso volante” scrigno di una natura perduta e costantemente minacciata dall'uomo e che si protegge con simboliche e gigantesche radici oltre che misteriosi e “metallici custodi giardinieri” che sulle spalle hanno muschio, erba e buffi animaletti scodinzolanti.

In questa “Atlantide” nascosta tra le nuvole, una volta che vi fa la sua comparsa, l'unica forma vivente fuori posto sembra essere proprio l'uomo, sempre proteso verso la distruzione o il saccheggio, stolto a dismisura da ignorare il miracoloso ritrovamento di una bellezza inestimabile ed impegnato solo nell'avido accaparramento di metalli preziosi quanto inutili.

Miyazaki ne sottolinea la sua rozzezza, la incarna soprattutto nelle divise dell'esercito in un chiaro messaggio antimilitarista per quanto puo' veicolarlo un cartone animato e lascia invece che si possa biasimare la brama smisurata del potere e la cecità dell'essere umano nell'antagonista principale di questa avventura, un personaggio indecifrabile chiamato Musko.

Non è necessario sapere molto altro e corre l'obbligo senz'altro di terminare la conoscenza con questa storia affascinante e fantastica al cinema, passeggiando a piedi nudi tra nuvole e stelle ed a stretto contatto con i suoi protagonisti.

Miyazaki saprà ammaliarvi non solo con le sue incantevoli “matite sognanti” all'apice della creatività e capaci di lasciare di stucco gli innumerevoli studi digitali privi di vera “libera immaginazione”, ma addirittura vi rapirà con piccoli fascinosi intervalli silenziosi o solamente con il sibilo del vento in sottofondo.

La natura riuscirà – come anche strenuamente fa nella realtà – a difendere la devastazione della sua immortale bellezza e respingerà la furia distruttrice ed insensata dell'uomo.

Riscoprirete, se lo avete dimenticato, che per volare basta un aquilone (che quando atterra poggia delicatamente al suolo giusto su un nido di uova...) e per rendere piu' armoniosa la vita è sufficiente una figura femminile in cucina, così che anche pelar patate torni ad essere una festa, e troverete conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, che solo l'innocenza può esser degna di qualunque tipo di paradiso...

HUNGER di Steve "Rodney" McQueen



Esordio di rara bellezza e perfezione quello dell'inglese McQueen, a suo tempo (maggio 2008) premiato a Cannes ma poi inspiegabilmente ignorato dalla distribuzione italiana.

Rimediamo oggi al clamoroso abbaglio probabilmente grazie al discreto successo del film “Shame” uscito a gennaio di quest'anno, anch'esso premiato ma stavolta a Venezia ed i cui artefici sono sempre lo stesso regista e Michael Fassbender nella parte del protagonista.

Hunger” è un obiettivo puntato fisso sull' “ultimo miglio” della vita di Bobby Sands, l'attivista politico dell'I.R.A. che sacrificò la sua stessa vita per la causa Irlandese attraverso uno sciopero della fame senza ritorno durato 66 giorni, tra atroci sofferenze ed incredibile coraggio.

Steve “Rodney” McQueen, Londinese, usa con passione artistica e geometrica gli insegnamenti acquisiti anche in discipline extra-cinematografiche (viene dalla scultura e dalla fotografia e si vede...) e tramuta con il suo obiettivo muri coperti di escrementi in cornici concentriche dal sapore denso e pittorico, dei corpi nudi dei “soldati politici” umiliati, martoriati e bastonati ne fa tante figure Cristologiche perse in una moltitudine di brutali e disumani calvari carcerari.

Costringe il nostro occhio ad osservare immagini fisse dalle quali non possiamo fuggire e dentro le composizioni che spesso raggiungono vertigini estetiche ammirevoli ci mischia tensioni e paure (mani sporche di sangue nel lavandino, chiavi che girano il motorino di avviamento dell'automobile mentre qualcuno trema in finestra).

Spesso senza l'ausilio delle parole fa riaffiorare tutto l'orrore della dura lotta nel carcere inglese di Long Kesh detto “The Maze” tra gli anni '70 e '80, lo “sciopero delle coperte e dello sporco” ed infine quello letale della fame che oltre a Sands mieterà altre vittime sacrificali.

Fassbender è un'icona magnifica di forza e sofferenza, alcune sue immagini in primo piano sono superbe istantanee capaci tanto di raccontare l'assurdo cruento della recente storia politica Britannica quanto di ben figurare sulle pareti di un museo d'arte.

Fra tanta rara bellezza e tormento McQueen mette un inserto con un campo lungo, cui dopo seguiranno due primi piani molto piu' che esplicativi, al quale affida un lungo dialogo capace di spiegare argomenti e motivazioni con lucidità sintetica, chiara e tagliente: la retorica dell'esercizio teologico e semantico di un prete a confronto con la vita reale del combattente determinato fino all'estremo sacrificio e che non resterà fermo a guardare; mettere in gioco la propria vita non è l'unica cosa da fare bensì “La cosa giusta”!

Dire di “Hunger” che è un capolavoro non è una conclusione precipitosa ma forse l'unico aggettivo possibile per descriverne la qualità e la capacità espressiva: difficile raffigurare una realtà tanto dura e penosa senza cedere mai il passo alla retorica o all'orrore.

Uomini veri e non con la vocazione al martirio si consacrano ad una causa con dedizione e spirito di sacrificio ai limiti della comprensione, “fumano parole sacre” arrotolando pagine strappate ai libri di preghiera ed affrontano corridoi colmi di odio tra scudi e manganelli.

La voce agghiacciante (originale) e senza un briciolo di pietà della “Lady di ferro” Margaret Tatcher spiega meglio di ogni altro particolare le ragioni, le successive azioni e le ripercussioni.

Il cibo ed il suo odore fumante sul comodino sono una tortura inenarrabile tra le tante ma se il fronte della libertà è un orizzonte molto piu' ampio della nostra stessa vita il corpo può essere usato alla stregua di un'arma crudele, mostruosa ed invincibile.

McQueen, con divagazioni che ricordano persino Bacon, Bill Viola e Van Gogh, dipinge una tela di passioni senza farci nessuno sconto in quanto a brutalità dell'impatto ma rendendo immortale nelle immagini una realtà cruda e terribile come meglio non sarebbe stato possibile.

Bobby Sands travalica dalle pagine della sua guerra, dai libri e dalla storia e trova nel cinema un ennesimo modo per eternare le sue gesta grazie ad un attore eccellente e dedito alla causa quanto un patriottico soldato al fronte e ad un regista con occhio illuminato e passione capace di tradursi in dura e celebrativa meraviglia: purezza tremenda e cibo sopraffino per i nostri occhi.

domenica 15 aprile 2012

DIAZ di Daniele Vicari



Domenico Procacci ad un decennio dal G8 di Genova fa tornare Daniele Vicari in quel dedalo di vicoli, scale e strade tortuose dove si svolsero fatti tra i più inquietanti della recente storia politica, mondiale e nazionale.

Uno dei momenti cruciali di quei giorni ebbe come teatro di sangue gli edifici delle scuoleDiaz ed è proprio della massiccia e violentissima irruzione della Polizia il 29 luglio 2001 presso la sede del Genova Social Forum che si occupa la pellicola.

La ricostruzione di Vicari ha il grande merito di rendere per la prima volta in immagini visibili a tutti quel che accadde in quella situazione (la tristemente nota “macelleria messicana” e gli abusi successivamente poi nel carcere di Bolzaneto) ed il suo lavoro in questo è inappuntabile ed incisivo, quanto può esserlo un cinema che si propone di esser sopportabile, nel descrivere fatti efferati, ad una platea il piu' ampia possibile: l'immenso cordone dei cellulari ripreso dall'alto per le strade di Genova, il rumore delle pale degli elicotteri e subito dopo la furia animale delle forze dell'ordine che si abbatte indiscriminatamente e senza pietà su tutto ciò che incontra, cose ed esseri umani; le luci blu lampeggianti, i passi delle truppe prima fuori e poi sulle scale, il rumore sordo dei manganelli che infieriscono sui corpi, l'atmosfera di panico all'interno dell'edificio e gli echi di urla ed orrore che si avvicinano sono il “corredo” agghiacciante che ci viene proposto.

Volti e corpi emaciati, denti rotti, sangue sul viso e sul pavimento e poche ore dopo questi momenti tragici e concitati il trasferimento presso le strutture sanitarie, con le corsie che pullulano di uomini in divisa che ancorarastrellanoragazzi per portarli al carcere di Bolzaneto, dove si consumeranno reati infamanti di umiliazione e tortura che hanno forzato gli argini della nostra democrazia spingendoli verso derive Cilene o Argentine ed alcuni di questi, con coraggio non usuale per il cinema di casa nostra, Vicari li racconta con crudo realismo. La sua pellicola funziona soprattutto quando affonda nei momenti cruciali dell'azione, della ferocia e della prevaricazione, nel rappresentarci con un pugno nello stomaco e senza troppi sconti quella frase che abbiamo sentito spesso nei documentari o i telegiornali: “sospensione dei diritti”.

Per tutto il resto invece, nonostante non vengano risparmiate sgradevolezze e scomode verità (accertate) nei confronti di chi rappresenta le istituzioni, si avverte un comprensibile tentativo non certo di appianare ma di ridurre in qualche misura le distanze tra le ragioni ed i torti, forse per stemperare le tensioni ed anche per evitare che le forze di Polizia si affermino nell'immaginario collettivo come un plotone di feroci potenziali assassini in divisa anche al di fuori di quella situazione di follia - speriamo irripetibile - nella quale realmente hanno ecceduto in bestialità oltre i confini delle legge e della pietà. In quest'ottica il personaggio di Claudio Santamaria è l'ultimo “bastione” che difende a malapena lo stato, tra ripensamenti e codardi allontanamenti.

Anche il disappunto di alcuni rappresentanti il Genoa Social Forum per come viene descritta la moltitudine di attivisti, uomini e donne, passionari della politica e dell'equità sociale ha le sue ragioni, perchè poco si riesce a comprendere dal film di Vicari di questo movimento ed alcune immagini come quelle dei ragazzi danzanti con le bottiglie in mano davanti ai falò raffigurano forse solo uno stereotipo incompleto per quanto non menzognero; così di un movimento in grado di combattere l'ingiustizia dei potenti sembra rimanere poco di più che la descrizione di una moltitudine di giovani allegri, innocenti e un po' sbandati.

Certo in un film forse non c'è lo spazio per rendere appieno l'interezza delle cose ma è palese che “Diaz” quando si allontana dal suo epicentro è piuttosto lacunoso e generico nel ricostruire l'insieme mentre vi consigliamo, a suo completamento naturale, il bellissimo documentarioBlack Blockdi Carlo Augusto Bachschmidt, prodotto sempre daFandango/Procacci”, decisamente piu' incisivo su questo versante ed al quale con tutta evidenza si appoggia il film di Vicari, attingendo a testimonianze e protagonisti.

Diazè comunque coraggioso, diremmodoveroso”, efficace nel suo ruolo di scuotere memorie sopite e coscienze distratte, brutale quanto basta nel ridestare l'attenzione pubblica, notevole e necessario nella possibilità che ci concede di rivivere virtualmente l'orrore nascosto dalla mancanza di testimonianze visive di quegli avvenimenti.

Rivolgetevi altrove invece se cercate davvero ragioni e spiegazioni, nomi e cognomi, ed il lunghissimo elenco di fatti accertati, condanne e nefandezze in chiaroscuro della politica e delle istituzioni, che questa pellicola relega in gran parte solamente in alcuni pannelli scritti che compaiono poco prima dei nomi degli attori e delle sempre più abituali location in terra di Romania.

mercoledì 11 aprile 2012

HIT THE ROAD, NONNA di Duccio Chiarini


Avere una nonna come Delia Ubaldi sicuramente è stata una esperienza ed una prova non comune per figli, nipoti e parenti; difficile la convivenza con una signora priva delle qualità richieste per una vita normale e metodica, divorata dalla voglia di vivere e dall'ansia di riscattare il proprio destino di figlia di umili emigranti, sempre in cerca di nuove scoperte, libertà e spazi e che, così facendo, inevitabilmente ha finito per ingombrare quelli di chi le è vissuto accanto.

Per cercare di recuperare qualcosa di quanto ha perduto e per  ricucire brandelli del suo stesso tessuto vitale, Duccio Chiarini decide di ripercorrere il cammino di questa donna singolare e risoluta, a metà degli anni venti partita con la famiglia  da Serravalle del Chienti, quando aveva soli sei mesi,  per recarsi in Lorena, dove i Francesi l’avrebbero considerata  a lungo solo una “mangia macaroni” ma che riuscirà a fare il liceo riservato ai figli della borghesia  grazie ad una madre caparbia ed.... un sacco di patate.

La sua pertinacia unita alla voglia di rivalsa la porteranno ad affermarsi a livello internazionale nel campo del tessile ed a scansare un destino per lei improbabile di femmina che, a casa, aspetta il marito impenitente donnaiolo (il nonno paterno del regista).

Dominerà i mercati del “pret a porter”  partendo da Prato ed arrivando fino a Beverly Hills e persino  Richard Gere nel fim “American Gigolò” entrerà nel suo negozio “Juschi”, ma sarà questo il momento di massimo successo e da qui in avanti comincerà un declino economico e professionale (e vitale?...)  dal quale non risalirà più e che la costringerà a vendere le sue case a Firenze “Ponte Vecchio”, Forte dei Marmi ed anche quella  a Parigi di fronte alla Tour Eiffel.

Con grande “ospitalità” Duccio Chiarini ci fa entrare dalla porta  principale direttamente a contatto con i suoi familiari e cammina accanto a noi in questa pellicola  che anche per lui non deve esser stato semplice girare, nella quale in un'ora soltanto ha dovuto condensare  poche  linee guida portanti, tralasciando verosimilmente mille altri intrecci e sentimenti mentre, ripercorrendo il suo stesso passato, ne scopriva e recuperava chissà quanti altri.

“Hit the road, nonna” comincia la sua gestazione nel 2006 ed accumula negli anni una mole di girato considerevole: Chiarini probabilmente lascia che nel montaggio finale si ritaglino il loro spazio le immagini e le parole più' capaci di “sedimentare” lungo il percorso ed anche quelle maggiormente rappresentative di quel che prova a raccontare, facendosi aiutare in fase di sceneggiatura da Ottavia Madeddu, una collaborazione indispensabile per fornirgli  il necessario distacco.

Il film è costantemente sotto la  pressione di Delia, una donna dalla  forza prorompente ed invadente, capace di seminare il panico in famiglia con folate di fuoco che erano assieme vampate d'amore, incursioni di una franchezza che facilmente poteva esser confusa con qualcosa di diverso e sempre spiazzante per i suoi cari;  un personaggio mai entrato in salotto in punta di piedi ma sempre con le scarpe chiodate...

Chiarini procede affiancando sopratutto le testimonianze di suo padre, del quale i ricordi raccontano di un rapporto genitoriale molto sofferto ed ancora irrisolto, e della madre Delia, ovvero sua nonna: tallona questa nel suo passato rispolverando fotografie e vecchi filmati e la segue poi da vicino nel presente, piazzandole la telecamera sul carrello del supermercato o riprendendola mentre rovista nel cassetto dei medicinali... indaffarata tra i fornelli della cucina dove cuoce tutto con molto burro ed abbondante sale.

Con dei primi piani amorevoli e spietati ne coglie più di un rimpianto che le vela gli occhi e le solca il viso;  in seguito la riprende mentre i singhiozzi  le sgorgano spontanei nel pensare al futuro, alla paura di ammalarsi ed alla morte che vorrebbe poter sostituire con un nuovo mondo a venire e che, con l'innocenza di una fanciulla, desidererebbe simile al mare dei Caraibi o alle spiagge di Agadir.

Saranno  anche pianti penitenti questi, pensando a ciò che ha perduto o non è stata capace di donare ai propri cari, sempre relegati in secondo piano rispetto al suo vorticoso vivere, oppure semplice egoismo e comprensibile paura della fine? Intanto la nuora, con la quale il rapporto non è mai stato idilliaco, cerca forse  nervosamente in un “gratta e vinci” di trovare qualcosa di un mondo del quale è stata solamente lontana spettatrice e rilancia interrogativi inespugnabili che vedono contrapposti, in un continuo scambio di posizioni, invidia ed egoismo... amore e rimpianti.

Difficile sbrogliare la matassa della vita e le sue ragioni quando un’esistenza davvero articolata ed impetuosa si interseca con le altre entrandoci in rotta di collisione

Poi il destino spariglia le carte in corso d'opera e porta Delia in ospedale, cambia il percorso narrativo e soprattutto obbliga i protagonisti a doverci fare i conti e così questo film di controversi rinvenimenti di memorie ed affetti trova un suo finale, che forse è un lampo come un'esistenza vissuta sempre con il piede sull'acceleratore, oppure un quieto spegnersi nella calma dei sentimenti che abbandonano gli impeti e riaffiorano in una ulteriore e nuova collocazione... come l'erba che sempre vince sull'asfalto ed alla lunga torna a prender possesso del  terreno che era stato occupato.

martedì 10 aprile 2012

17 RAGAZZE di Delphine e Muriel Coulin



Nel piccolo paese di Lorient, in Bretagna, l’adolescente Camille scopre di essere incinta. Superato un primo momento di smarrimento individuerà nel percorso che l’attende una occasione di crescita, riscatto e realizzazione personale e di tale “scoperta” farà partecipi molte delle sue coetanee minorenni; parecchie di loro (assieme a Camille saranno ben “diciassette”…), tra spirito di emulazione, solidarietà femminile e ribellione ne seguiranno le orme.

Così descritto, in maniera stringata, sembrerebbe follia ed invece va intanto chiarito subito che il film si ispira ad un episodio di cronaca realmente accaduto di recente, per la precisione nel 2008 in Massachusetts.

Le due sorelle francesi Coulin lo trasferiscono nel paese dove hanno trascorso la loro infanzia e ne ricavano una pellicola delicata ed insolita, capace di trattare il tema mantenendo un ampio respiro e conservando allo stesso tempo uno sguardo attento, che continuamente si interroga senza l’obbligo di dover fornire risposte ed inducendo chi osserva a fare altrettanto.

Costrette in una società che ha perduto la sua verginità ben prima di loro questo gruppo di ragazze né particolarmente sovversive né troppo ribelli assecondano le loro pulsioni esistenziali e le loro emozioni, quelle che le vorrebbero distanti il più possibile dal grigio destino già scritto per loro e per ogni abitante del paese e che le vede già, nella migliore delle ipotesi, incanalate su un identico e monotono futuro, senza alcun sussulto possibile.

Trovano - ma sarebbe meglio dire incontrano - nella vita che sta per nascere (e si rigenera) lo sbocco più naturale ed immediato per alimentare i propri sogni; per mezzo del loro stesso corpo scoprono di poter plasmare l’energia che hanno dentro, forse senza averne la maturità ma fortemente desiderando e intensamente accompagnando il cambiamento di giorno in giorno.

Tutto intorno il mondo degli adulti, quello che dovrebbe aiutarle con l’ esperienza e la saggezza o semplicemente rimanendo loro vicino con amicizia, pensa a nient’altro che a dissuaderle ed a come evitare pericolose emulazioni. Professori e genitori si rimbalzano le responsabilità (tutte le ragazze frequentano la stessa scuola) e i problemi dibattuti al massimo spaziano dal dilemma sul metter o meno nell’istituto un distributore di preservativi all’ espellere le “ribelli” oppure all’ impossibilità di praticare in gravidanza il salto in alto nelle ore di educazione fisica.

E' desolante come quasi nessuno, al di fuori delle ragazze direttamente coinvolte, sia in grado almeno parzialmente di gioire o di leggere positivamente gli avvenimenti, agghiacciante rilevare come una comunità sociale intera non sappia minimamente rallegrarsi per delle piccole creature umane in arrivo e che nessuno sappia più attendere ed accompagnare il piu’ bello, semplice ed antico evento della storia dell’umanità tutta.

I grandi parlano, ma soltanto “tra loro” ; nessuno invece parla “con loro”, ovvero alle ragazze, che intanto fantasticano, si entusiasmano, provano a crescere e sognano di esser libere, felici e responsabili.

“17 ragazze” ha un tocco lieve ed assolutamente misurato nel riuscire a rimanere sospeso, interpretando al meglio il ruolo di un cinema indagatore, osservatore ma non giudice, certo mandando al tappeto alcuni adulti davvero troppo immaturi, irosi o superficiali e pure ben assumendosi la responsabilità di sottolineare tra le generazioni a confronto quale sia quella che ha ancora voglie e speranze e quella che invece le ha perdute per sempre ma lo fa senza per questo schierarsi ed evitando la trappola di finire a raccontare un mondo utopico ed inesistente.
Tutti questi sogni e questa energia li fa scontrare con le difficoltà del reale, immaginando anche le amicizie e la solidarietà esposte alla prova del tempo ed alle tempeste del vivere, senza inquadrarne particolarmente le brutalità ma anche senza sconti nella sua analisi d’insieme.

Sicuramente il volto fiero ed angelico di Camille (Louise Grinberg) e tutta la sua storia al centro del racconto tradiscono una piccola ammirazione verso queste “ragazze che nessuno potrà fermare fintanto che sognano” ma il film delle Coulin non è né un manifesto femminista né vuole proporre come soluzione semplicemente una opposizione a prescindere allo stato delle cose, ben sottolineando anzi in certi momenti (e fino alla fine) quali siano le distanze tra il sogno e la sua realizzazione.

Ma, questo eccome, vogliono ipotizzare addirittura la maternità come un “progetto politico o rivoluzionario di massa”, aprire i confini verso nuove prospettive; invitarci a riflettere, a valutare e sperimentare, a riappropriarci della vita e del destino … a rilanciare anziché rinunciare.

FRANTOPAT

domenica 8 aprile 2012

PIRATI di Peter Lord



Capitan Pirata ha la barba lussureggiante e tra i suoi fedeli può vantare un pirata albino, uno con la gotta ed un altro “sorprendentemente procace”.

La bacheca della sua nave però scarseggia in quanto a trofei: ci campeggia solo il premio per il miglior aneddoto su un calamaro e sulla strada che porta al titolo di pirata dell'anno già gli si parano davanti Bellamy il Moro, Hastings Gambadilegno ed una “sciabolona” letale e fatale chiamata Liz, la “macellaia delle Barbados”, tre tipacci che in batter d'occhio spazzan via lontano i sogni di vittoria e fanno di tutti gli avversari niente altro che “lische fritte”.

Così per tentare l'abbordaggio all'ambitissimo trofeo si assaltano imbarcazioni di ogni sorta, passando da quelle piene di appestati ad altre che sul ponte raccolgono fantasmi e naturisti(...!...), ma alla fine di ogni giornata i forzieri restano vuoti e senza bottino.

Il destino porta allora questa ciurma da strapazzo ad imbattersi addirittura nel “Beagle”, il brigantino di Charles (Charlie?...) Darwin, dove però al posto dell'oro ci sono solo due reni di babbuino (e difatti sembra che l'animale boccheggi nella stiva con aria disperata).

Ed è a questo punto che gli autori (seguendo anche le orme del romanzo “Pirates! In an adventure with scientists” di Gideon Defoe) dirottano con molta arguzia i protagonisti del loro rutilante racconto con il vento in poppa verso la Londra Vittoriana, facendo solcare le onde del mare al loro galeone al ritmo dei Clash (ovviamente “London Calling”!).

Qui il barbuto filibustiere potrà scapricciare le sue voglie accademiche e addirittura partecipare al concorso di scienziato dell'anno, facendo rischiar però al suo pappagallo – in realtà un rarissimo “dodo” - di finire in un piatto come pietanza “a l'orange”.

Il nemico da affrontare sarà la regina in persona, quelle che odia piu di tutti i pirati, le loro canzonacce ed i loro ridicoli cappelli...e l'epilogo della storia meglio lo vediate da voi stessi direttamente in sala.

Stop motion “alla plastilina” dinamica e di gran divertimento, contaminata di computer grafica e ricca di trovate sgargianti, tra vasche da bagno che volano per le scale puntando mammuth e scheletri di dinosauro appesi al soffitto e inseguimenti su un velocipede tra i vicoli fumosi di Londra.

Bellamy il Moro che fa il suo ingresso all' “isola del sangue” apparendo da dentro una balena che srotola la sua lingua come un tappeto rosso è memorabile, lo “scimpanzuomo” maggiordomo di casa Darwin un tipetto esilarante; la commissione di trichechi, scheletri e sirene un “flash” che regala buonumore.

Non si tengono le scintille in tasca gli autori che si concedono persino una citazione per l' “Elephant man” di David Lynch, piazzano i loro bucanieri a sgranocchiare pop corn nella Real Society e pigiano sull'acceleratore sprizzando fantasia fin sopra i titoli di coda.

Depredare o sciabolare?...Dove porterà l'istinto di un pirata che si rispetti?...
Niente è meglio della “Notte del prosciutto (cotto!...)”.

Si va in lungo e in largo per i mari del mondo (ma siamo proprio sicuri che i mostri marini sulle carte navali siano solo decorativi?...), su un vascello o su un dirigibile a pedali, magari al timone ci sarà una tartaruga ed a far da esche per i calamari qualche poppante.

Non deludono gli Inglesi dello studio “Aardman” , autori del già notevole “Galline in fuga” e del premio oscar “Wallace e Gromit” e cavalcano a gonfie vele anche le onde degli oceani, srotolandoci sopra un diluvio di piccole perle curiose, geniali e molto spassose.

Ancora, tra le tante, il “Secondo” con la sciarpa che quando il suo Comandante scende a terra lo culla nel sonno fischiettandogli rumori navali: vento, gabbiani e scricchiolii del legno.

...E quando il gioco si fa duro e si paventa il pericolo piu' scuro allora “tutti per uno” e vien confermato il vecchio adagio di sempre, quello per cui gli amici, “pardon” i pirati, si vedono nel momento del bisogno.

giovedì 5 aprile 2012

ROMANZO DI UNA STRAGE di Marco Tullio Giordana


43 anni dopo la strage del 12 dicembre 1969  aleggia ancora sopra di noi, come una nube tossica dalla filigrana radioattiva che getta il suo invisibile fascio di luce scura su tutto il sottostante.

Marco Tullio Giordana, spesso alle prese con  rinvenimenti di quegli anni, si incammina in un percorso palesemente ostile facendosi aprire la strada dalle figure di un  Anarchico Pinelli bonario e ribelle  al quale presta il volto Pierfrancesco Favino e di  Valerio Mastandrea nei panni di un  Commissario Calabresi sempre in apprensione,  prigioniero di un’ espressione  atona e perennemente afflitta.

Il primo uscirà presto di scena  con un tonfo sordo fuori  dall’inquadratura, conseguenza di un volo tristemente noto ed unico episodio in questa vicenda che abbia portato a delle condanne “incerte, esecutive e definitive; l’altro lo vedremo esanime in terra alla fine, soggetto  di una  fotografia di sintesi agghiacciante e per certi versi immutata dello stato delle cose.

Per muoversi in questo ginepraio fitto di nebbie e depistaggi son serviti molti anni di preparazione: poi si è scelto di usare come architrave  il libro di Paolo Cucchiarelli “Il segreto di piazza Fontana”, tenendo in debito conto gli atti processuali e pure gli scritti di alcuni testimoni dell’epoca (Stajano, Nozza, Cederna), ognuno latore di un tassello del mosaico anche se, come ben  ben sappiamo, nessuno in grado di indicare la luce in fondo al tunnel.

Il racconto è  appunto una composizione di ipotesi, macchinazioni e suggestioni delle quali poche o quasi nessuna possono  limpidamente affermarsi sopra le altre ed è necessariamente affollato dei molti personaggi della vicenda stessa e della nostra storia; troppi di questi  risultano però descritti con eccessiva semplificazione o smisuratamente schierati dalla parte del bene o del male, connotati di  accezioni talvolta personali o vagamente superficiali:  è il caso ad esempio dell'Aldo Moro interpretato da Fabrizio Gifuni, fin troppo enfatizzato sul suo versante morale e positivo, ma anche di molte altre figure politiche ed istituzionali come il Questore Guida o il Presidente Saragat, delle quali il  profilo è disegnato con i tratti tipici dello stereotipo e che vanno a detrimento della credibilità realistica del racconto; molto meglio la figura del giornalista Marco Nozza (Thomas Trabacchi).

I fotogrammi apicali della pellicola e che toccano la nostra sensibilità però sono solamente quelli di repertorio quando (ci)rivediamo (nel)la folla immensa di P.zza del Duomo a Milano il giorno dei funerali delle vittime e dai quali il regista ritaglia anche degli sgranati quanto toccanti primi piani dei parenti inconsolabili. Un vertice emotivo paragonabile a questo la finzione degli attori riesce a toccarlo forse solamente quando in un obitorio propone, davanti al corpo esanime di Pinelli, sua  madre e sua moglie Licia, una Michela Cescon che nonostante la sua diradata presenza lascia il segno più di altri.

Vedere troppe cose è insopportabile afferma uno dei sordidi protagonisti che incontriamo lungo il racconto... metterne insieme altrettante un esercizio non semplice da rendere in forma di cinema.

Marco Tullio Giordana ci prova con diligente passione ed obiettività quanto basta; per quanto complicata non è  sul fronte della ricostruzione dei vari ed intricatissimi episodi che perde il passo, piuttosto lasciando il suo lavoro privo di un  afflato  capace di restituire   le atmosfere di quegli anni attraverso una dimensione artistico-cinematografica in grado  di  fonderne assieme rabbie ed istinti, pulsioni interiori e tormenti intellettuali e tutto quello sciamare  di vita in rivolta del quale doveva esser intriso all’epoca ogni singolo granello d’aria. 

Il punto debole sembra potersi rilevare in un certo appiattimento generale nel quale rimangono relegate le manifestazioni di piazza e le contestazioni dell' “autunno caldo” oppure nella convenzionale maniera di ricostruire le  ipotesi delle varie commistioni politiche e criminali mischiate alle devianze dello stato, nello stanco rimbalzare tra le riunioni nei circoli anarchici, le adunanze fasciste e gli incontri in misteriosi “palazzi paralleli” che sanno molto di  già visto.

Più che di una ordinata suddivisione in capitoli ci sarebbe stato bisogno che i vari teoremi complottisti ed i frammenti sparsi del tentativo di “golpe Borghese”, le intemperanze di Feltrinelli o l'alone dei Colonnelli Greci assieme alla varie piste rosse o nere  fossero state in grado di staccarsi dalla loro pedissequa rappresentazione per “risorgere” in  una nuova forma capace di utilizzare gli attributi propri del cinema e della revisione poetica ed emozionale, abbandonando il terreno dell'indagine e del documento per arrivare a toccare corde più intime e sfociare in nuove consapevolezze e turbamenti.

Tutto invece rimane distante, prigioniero di una freddezza forse non  desiderata nemmeno dagli stessi autori (in sceneggiatura i soliti Rulli e Petraglia) e senza unoscatto di reniche  giunga dal profondo delle viscere;  neanche arriva il  soccorso di un protagonista prorompente che compatti e tiri le fila, come fu ad esempio sempre per Marco Tullio Giordana il Peppino Impastato de “I cento passi” interpretato da Luigi Lo Cascio,  qui presente nei panni del Magistrato Paolillo.

Così la pellicola  finisce per annaspare tra le onde degli avvenimenti  numerosi e ridondanti e per tradire anzitutto la natura stessa del suo  titolo, che farebbe sperare di poter condurre su un versante letterario l’indecifrabilità del reale e farne qualcosa di leggibile ad un livello emotivo.

Alla resa dei conti “Romanzo di una strage” fatica a trovare una sua compattezza,  un po’ santifica e un po’ indulge, nel mentre generosamente prova a ridestare l'attenzione del Paese invitandolo a “ricordarsi di non dimenticare” ma gli episodi che affastella  in  fila né  risvegliano il necessario dolore del cuore, né aprono nessun vero varco che possa gettarci oltre gli invalicabili ostacoli dove troveremmo, forse, una Nazione mai conosciuta prima,  più unita e felice perché finalmente libera dall'afflittivo fardello di un opprimente passato.