VISITATORI

mercoledì 25 dicembre 2013

LO HOBBIT - LA DESOLAZIONE DI SMAUG di Peter Jackson


L’occhio scintillante del drago Smaug ci aveva già fatto intuire, lo scorso Natale, che ci sarebbe toccato di andare a svegliarlo dal suo sonno, giusto di questi tempi.

Ritroviamo quindi la bislacca comitiva composta da tredici nani, un Hobbit ed uno stregone sempre più vicina alla “montagna solitaria” dove dorme il “tiranno alato”. Per arrivarci dovranno ancora attraversare un bosco “malato” che divora le menti e nasconde agli occhi il suo sentiero (Bosco Atro) e poi trovare il modo di attraversare un lago (…”Lungo”…), non potendo esimersi, nel frattempo, anche dall’infilarsi dentro botti di legno per cavalcare fluttuanti rapide di fiume, simili a quelle di un luna park.

Ovviamente a sbarrargli la strada ancora i temibili Orchi - è sempre Azog il profanatore a comandarne le schiere - ed inizialmente anche gli Elfi Silvani li ostacoleranno, trattenendoli per qualche tempo presso il “Reame Boscoso”: torna Legolas/Orlando Bloom mentre Tauriel/Evangeline Lilly è una “Ragazza di fuoco” creata “ad hoc” per l’occasione. Sarà invece d’aiuto alla “compagnia”, offrendogli protezione per una notte, lo strano “mutatore di pelle” chiamato “Beorn”.

Arrivati a destinazione - mentre altrove le fiamme della guerra stanno “oscuramente” divampando, mettendo in grave difficoltà Gandalf “il Grigio” – i nostri si troveranno ad aspettare l’ultimo raggio di luce del giorno di “Durin”, al fine di scoprire dove si trova la porta nascosta che conduce ad Ereborn.

Eccolo il capitolo “di mezzo” della saga cinematografica de “Lo Hobbit”! Nel regno fantastico di J.R.R. Tolkien oramai Peter Jackson si muove con una sicurezza invidiabile, al punto di concedersi stavolta qualche libertà in più, senza particolari timori per le inevitabili proteste degli “adepti più puristi” del genere.

Certamente, alla assurda distanza di un anno, gli spettatori dell’episodio precedente tra i meno “devoti” e coinvolti in questi racconti incontreranno difficoltà a ritrovare il filo della storia, ma non avranno probabilmente del tutto dimenticato il leggero tedio delle prolungate gozzoviglie e dei vari tentennamenti della prima parte. Buone notizie: “La desolazione di Smaug” li aiuterà ad archiviare i cattivi ricordi ed a passare oltre!

Stavolta la marcia è differente in quanto ad azione e fantasia ed i motivi di attrazione non si limiteranno ad alcuni divertenti e funambolici combattimenti. Denso di fascino è l’approdo alla città di “PonteLagolungo/Esgaroth” a bordo dell’imbarcazione messa a disposizione da un chiattaiolo/arciere (Bard/Luke Evans), erede di colui che con le sue “frecce nere” mancò anni addietro di colpire il Drago, aprendo così la porta ad un destino di sciagure e carestia per tutto il paese (ma non temete… c’è una “freccia” che Bard tiene ben nascosta e probabilmente non mancherà di usare il prossimo anno…).

Sono incantevoli i paesaggi nebbiosi della città di legno sospesa sull’acqua e ci soggiogano con la loro quiete apparente; curioso ed accattivante, subito dopo, il confronto tra Bilbo e Smaug appena risvegliatosi, con “l’Hobbit cavalca-barili” a muovere i suoi passi maldestri mentre sprofonda in un mare di monete, nel tentativo di circuire con le sue belle maniere la “massima delle calamità”.

Sono questi alcuni dei momenti dove Jackson riesce a tradurre cinematograficamente al meglio il racconto, mantenendo grande aderenza alle atmosfere e, tutto sommato, anche ai testi originali. In quanto a spettacolarità visiva pure il regno degli Elfi Silvani e poi le maestose fornaci che torneranno a brillare sotto la montagna sono cibo buono per gli occhi e sale del divertimento.

Comunque sono gli incantesimi oscuri e le magie, assieme all’avvincente sforzo del bene che lotta strenuamente contro il male, il fascino ed il cuore sempre vivo del racconto ed ovviamente non è di minore importanza l'incarnazione di tutto questo nel protagonista, “l’eroe comune”, “Mastro Baggins” ovvero l’hobbit reclutato come scassinatore e continuamente “in cerca del suo coraggio”, che non cessa mai di sorprendere noi ed i suoi compagni di viaggio per il grande trasporto alla causa, per la sua astuzia e la sua audacia.

Cosa altro dire che già non vi aspettiate o non sappiate su questo film: indiscutibilmente Jackson, pur ispirandosene in libertà, riesce a non tradire mai l’universo di Tolkien: non spettacolarizza ma sa bene che deve adeguatamente esaltare l’avventura perché è colonna portante e anima del racconto originale; poi appena può prende fiato, rallenta e lascia esalare “fragranze” vagamente filosofiche.

Il tempo di buttare un occhio all’orologio ed ecco che già son passate anche queste “due ore e quaranta”: il re appena spodestato dalla sua montagna minaccia fuoco, vendetta e morte!

No, non è un guasto o una temporanea interruzione della pellicola ma sono proprio i titoli di coda quelli che partono adesso sul più bello e “la prossima puntata” non sarà tra una settimana ma tra un anno! A chi non resistesse a conoscer la fine della vicenda consigliamo una sortita in libreria per frugare tra le pagine scritte e scoprire dove si sta andando a parare.


Chi invece fosse già avvezzo al mondo degli “Hobbit” e non ne avesse bisogno faccia ricorso a tutta la pazienza della quale dispone, confidando nella certezza che per l’ultimo appuntamento – assieme alla gioia di veder ancora sul grande schermo i meravigliosi mondi fantastici ai quali è affezionato – terminerà alfine il lungo viaggio e sarà garantita davvero la definitiva conclusione. 

martedì 17 dicembre 2013

MOLIERE IN BICICLETTA di Philippe Le Guay


L’attore Gauthier (Lambert Wilson) da Parigi si reca fino all’Ile Du Rè per tentare di convincere lo scontroso collega Serge (Fabrice Luchini) – allontanatosi dalle scene e rifugiatosi nel suo sperduto casolare come un eremita – a partecipare ad una messinscena teatrale de “Il Misantropo” di Molière.

I due concorderanno di procedere con una settimana di prove - durante le quali, facendo testa o croce, si alterneranno quotidianamente nei ruoli di Alceste e Filinte – e al termine sarà Serge a decidere se accettare o meno la proposta di Gauthier.

Mentre le spire del testo li risucchiano e sono immersi nel tentativo di trovare il giusto sentimento ed un’anima sincera per i loro personaggi – giammai tralasciando di ricamare discorsi su quale sia l’opportuna dizione per interpretarli – visitando appartamenti in vendita, nei momenti di riposo, faranno la conoscenza di Francesca (Maya Sansa), una donna italiana da poco lasciatasi con il marito ed impegnata nel suo trasloco.

Dopo un iniziale primo incontro, piuttosto brusco e scortese, emergeranno non poche affinità tra i tre ed una particolare intesa sembrerebbe nascere tra Francesca e Serge.

Philippe Le Guay imbastisce - poggiandosi sul solido telaio dell’opera di Moliere - una commedia ricca di preziosi suggerimenti, per mezzo della quale trova modo di insinuarsi tra i vezzi e le bizze degli attori e, molto più per esteso, di tutti gli esseri umani, scandagliando da vicino le contraddittorie singolarità dei caratteri di ognuno dei suoi protagonisti.

Alceste sembrerebbe trovare la sua incarnazione perfetta in Serge/Luchini ma non poco della sua indole iraconda ed indomabile albergano - in diversa forma - anche negli altri due protagonisti: non è per caso che in diversi momenti del racconto il vecchio adagio “i simili si attraggono” sembra trovare una sua evidente conferma.

Risulterà vero altrettanto però che non basta somigliarsi per vivere assieme quieti e felici ed anzi, nella fattispecie, “i nostri” finiranno in un modo o nell’altro inevitabilmente per collidere.

Con un pochino di presunzione - e non senza punte di risentito sarcasmo e cinismo - Serge terrà sulla corda Gauthier che, a sua volta, eviterà di sottolineargli le sue mire non del tutto disinteressate: poi non mancherà di sferrare un colpo scorretto alla prima occasione buona.

Seguendo la via maestra, ovvero lasciandosi condurre dal testo di Molière, Le Guay divaga anche in altre direzioni, offrendoci qualche scorcio alternativo tra riflessione e divertimento: così facciamo la conoscenza di una giovane attrice in erba che diserta le opere classiche ed i palchi del teatro ed a questi preferisce singolari set cinematografici in allestimento a Bucarest, dove conta più il corpo che non la dizione; poi in poltrona, seduti davanti alla televisione, gusteremo “deliziosi” estratti da una puntata della fiction “Docteur Morange”, il chirurgo televisivo che opera i suoi pazienti tra tempeste di neve o di sabbia, interpretato proprio da Gauthier, che con quel personaggio ha conquistato la notorietà ed un ragguardevole cachet da 200.000 euro a puntata.

Ma è soprattutto durante le prove che vediamo montarsi e smontarsi le armonie e le empatie, che affiorano gli opportunismi e le piccole codardie o si affacciano i desideri, i rimpianti e le nostalgie, tra una corsa in bici ed una passeggiata in spiaggia e, mentre i personaggi maturano e prendon forma dal copione - tra commenti beffardi ed inappuntabili indicazioni sulla metrica Alessandrina - all’ombra della finzione prosegue e fiorisce nuova vita vera ed i rapporti umani fanno il loro corso.

Talvolta sarà la realtà ad infondere forza ai personaggi che poi dovranno “staccarsi” ed avventurarsi sul palco, in altri momenti sarà l’esatto contrario e saranno i versi di Moliere a gettare lo loro ombra invadente sulle persone in carne ed ossa, assoggettando al loro verbo un presente in gran parte ancora somigliante a quanto scritto secoli addietro: da allora il genere umano pare esser rimasto immutato ed aver mantenuto in bella vista i soliti deprecabili difetti.

Il finale non vedrà sorrisi festosi e brindisi con coppe di champagne ma solo occhi smarriti che poggiano lo sguardo in direzioni diverse: sull’orizzonte che affoga dentro la lontana linea del mare o da un palco a curiosare tra gli spettatori mentre una parola, sinuosa, sale fin sulle labbra (“indicibile”….spaventosa o spaventevole!).

Così, in un istante, i giorni più recenti confluiscono in un solo unico tentennamento, rendendo visibile a tutti noi - con inequivocabile chiarezza - la germinazione ottenuta dal seme gettato nella “terra dissodata del vivere assieme”.


Sarà proprio questo pronunciamento a mezza bocca l’ultimo e sorprendente piccolo lascito ad affiorare, l’antidoto agli egoismi ed ai risoluti rifiuti, l’antitesi inaspettata ai rancorosi lamenti di Alceste e dei suoi proseliti, di tutte queste iperboli - legittime o ingiustificabili - contraltare fugace e paradossale ma anche incontestabile testimonianza di un tempo condiviso, di uno scambio, magari anche minimamente affettivo o soltanto relazionale, culturale: che nulla marcisce nel nulla e sempre qualcosa rimane del tempo che scorre, a dispetto persino di noi stessi e delle nostre più bieche intenzioni.

lunedì 16 dicembre 2013

STILL LIFE di Uberto Pasolini


Il Sig. John May è un uomo meticoloso e gentile, che affronta il suo lavoro con dedizione ed uno slancio teneramente encomiabile: questo forse per le affinità che avverte con la sua condotta di vita, da sempre riservata ed al riparo dal mondo esterno, chiusa in un quotidiano e costante isolamento.

Lavora per il “Servizio Utenti” del distretto Londinese di Kennington e più precisamente si occupa dei defunti che scompaiono senza avere nessuno al proprio fianco. Cerca di rintracciarne i parenti, indaga tra le tracce di solitudine lasciate dagli estinti, compra per loro l’ultimo vestito e la bara, la lapide, sceglie le musiche giuste e scrive persino il discorso che leggerà l’officiante durante la cerimonia funebre; poi segue il feretro e partecipa alla sepoltura.

Ma John ha tempi lenti ed una preferenza per i funerali classici, alquanto costosi rispetto alle più economiche e moderne cremazioni, scelta questa che non fa certo risparmiare denaro alla sua amministrazione. Così il principale, Mr.Pratchett, un bel giorno lo mette alla porta, dopo ventidue anni di onorato servizio e di ligio espletamento dei propri doveri.

Prima di abbandonare il suo mestiere però il Sig. May porterà a termine – non senza imbattersi in inattese soprese - la ricerca necessaria a dare degna sepoltura al suo ultimo caso: quello di un uomo solo come tanti altri chiamato William “Billy” Stoke”.

Still Life” di Uberto Pasolini (regista nato in Italia ma che ha conosciuto la sua fortuna all’estero, cominciando come “galoppino” sul set di “Urla del Silenzio” e finendo per incassare cifre da capogiro come produttore di “Full Monthy”) è una pellicola insolita e delicata, la cui tematica ci indurrebbe a bollarla – sbagliando! - come triste ed inevitabilmente deprimente.

Invece veniamo ad ogni passo conquistati dalla semplicità del racconto e dal suo splendido protagonista Eddie Marsan, che fin da subito comincia ad aprirsi un varco grazie ai suoi occhi che si fanno per noi larghi e grandi, a quel suo sguardo profondo e solo in apparenza sconsolato, traboccante invece di una rara sensibilità verso l’altro.

Marsan espugna con estrema facilità le roccaforti del nostro cuore, con la sua dignitosa fierezza ed uno slancio pacificamente generoso, iscrivendo immediatamente tra i preferiti del nostro immaginario il personaggio di Mr.May, singolare figura di uomo paziente e capace di regalare al suo impiego - ed agli altri esseri umani - una dedizione d’altri tempi.

La sua è una forma di attaccamento – o di affetto - che trascende il mero lavoro: forse è amore verso il prossimo o per il respiro del mondo quello che lo porta ad onorare ogni vita che abbia calpestato la terra, ossequiando chi non c’è più ma anche concedendo il dovuto rispetto a chi lo aveva conosciuto e potrebbe piangerne la mancanza.

Il suo procedere metodico ma non privo di trasporto, la dolcezza zelante con la quale profonde il suo impegno nei confronti di persone estinte e del tutto sconosciute - per giunta “orfane” in terra di qualcuno che possa reclamar per loro pace e giustizia - insegnano molto a tutti noi sul rispetto, la responsabilità ed il dovere, su quanto anche piccole figure umane, persone solo apparentemente marginali, possano donare molto agli altri e soprattutto nei modi più impensati ed invisibili.

Pasolini (il cui lavoro è stato premiato quest'anno a Venezia come miglior Regia nella sezione “Orizzonti”) raccoglie al meglio il suo racconto dentro inquadrature garbate, accurate, di una precisione finissima che fa il paio con quella del suo protagonista, utilizzando uno stile compositivo molto aggraziato, adagiando la sua pellicola tra “i diversi colori della vita” - e per conseguenza naturale poi anche della morte - dando prevalenza alle tonalità di bianco e d'azzurro che ben si prestano a questa storia “glaciale” ma a suo modo “estremamente” romantica.

Still life” è molto di più che un semplice giro di ricognizione tra tristezze varie e decessi: è un educativo insegnamento su cosa siano l’amorevolezza e la disinteressata considerazione degli altri. Rende piu’ dolce al nostro sguardo il lungo corridoio della vita, dandoci prova di come in fondo al suo percorso possa comunque risplendere sempre una luce, solamente a condizione che ogni cosa venga affrontata con la giusta passione ed una serena generosità. 

domenica 15 dicembre 2013

BLUE JASMINE di Woody Allen


Jasmine (Cate Blanchett) è caduta in disgrazia: suo marito Al (Alec Baldwin) sembrava un genio della finanza ed era invece un truffatore; come se non bastasse, la tradiva.

Adesso non sono più assieme ma con lui son volate via molte illusioni ed anche tranquillità, soldi e benessere: ora è una “donna nella tempesta” che viaggia – come “d’abitudine” in prima classe e con i bagagli chiusi nella stiva dentro valige di “Louis Vuitton” – su un volo che da New York la porterà a San Francisco, dove trascorrerà un periodo a casa della sorella “adottiva” Ginger (Sally Hawkins).

Dall’alta società al proletariato con biglietto di sola andata il transito non sarà meno che traumatico ma, già da qualche tempo, pasticche e superalcolici hanno fatto la loro comparsa per sedare - nei momenti più insopportabili della giornata – i suoi bruschi sbalzi d’umore.

Studiare computer con “l’evanescente” speranza di poter presto lavorare “nell’arredamento on line”: sarebbe questa la strada scelta da Jasmine per risalire la china ma, al momento, deve accontentarsi di lavorare come segretaria in un anonimo studio dentistico, trascrivendo nevroticamente in agenda gli appuntamenti richiesti dai clienti pedanti ed indecisi, mentre il titolare dello studio le fa il filo.

Mai disperare però, perché Il principe azzurro che la porterà a ballare il valzer a Vienna o potrebbe mostrarle la luna – magari solo con il telescopio - è giusto dietro l’angolo. Ma questa non è una favola bensì la vita, dove per scrivere il lieto fine c’è bisogno di fare tutte le scelte giuste e non basta un semplice tratto di penna!

Dopo le “escursioni Europee” (purtroppo terminate nello scadente capitolo Romano dello scorso anno) Woody Allen torna in America ed è subito al meglio della sua condizione, con un film la cui storia è costruita tutta attorno ad una magnifica Cate Blanchett.

La sua protagonista sfodera una prova straordinaria e - mentre cuce la tela di un racconto del quale non tralascia di occupare nemmeno un fotogramma - ci incanta esibendo la sua grande versatilità e mostrandoci Jasmine (o Jeanette…) mentre si sgretola letteralmente davanti ai nostri occhi, affogando tra rabbie e sorrisi isterici, travolta lentamente da un diluvio di errori e di rimpianti.

Come sempre i dialoghi sono un punto di forza irrinunciabile del regista di Brooklyn, ma è la fitta ragnatela dei reciproci scambi e delle interazioni di ogni sorta tra i protagonisti il vero sale di “Blue Jasmine”.

La colonna portante della pellicola è questo confronto continuo tra il vivere, il sentire e l’agire dei vari personaggi, che provengono da fronti diversi ma giocano la partita della vita incontrandosi sul medesimo terreno.

Ad esempio c’è chi è abituato da sempre a poter contare solo su se stesso ed a vivere una situazione economicamente poco agiata e chi invece, in “uscita” da una condizione dove il denaro era l’ultimo dei problemi, ha trattenuto dal suo passato recente la convinzione che per essere felici sia indispensabile disporre di beni materiali in abbondanza, accompagnati da molto altro ancora di superfluo.

Due sorelle (adottive e diversamente fragili) e due mondi distanti: una sosta in Bmw davanti al Golden Gate, protesa con la mente in un Pindarico volo verso un radioso futuro e l’altra si incontra furtivamente con l’amante in uno squallido motel, non riuscendo a sfuggire alle sue sublimazioni affettive, alle sue insicurezze ed ai consigli sbagliati.

Piccole e grandi bugie, ruoli obbligati e finzioni, fallimenti più o meno devastanti e repentini cambi di comportamento: tutto questo assieme ai rimandi intellettuali continui - per mezzo di frasi stimolanti a decine - sono il “formicolio” continuo ed incessante, l’anima che mai riposa in “Blue Jasmine”, pellicola tra le più interessanti e riuscite di Woody Allen, probabilmente anche una di quelle dove si ride meno e con il finale più amaro.

Cast spumeggiante: Ginger, la sorella con il complesso del “gene inferiore”, il suo fidanzato pacchiano e “perdente” Chili (Bobby Cannavale) o il suo ex marito Augie (Andrew Dice Clay), con la vita piegata suo malgrado da un fardello di imbrogli ed illusioni e che, casualmente, si farà portatore dei conti del passato, presentandone il saldo – nel momento meno opportuno - a chi stava appena sognando di ricominciare a volare.


Su tutti svetta la Blanchett: monumentale quando inquadrata in primo piano che parla ai suoi nipoti della “medicina di Edison” e del Prozac e nondimeno nel suo ventaglio di espressioni sofferte, da donna continuamente esposta alle intemperie provocate dalle sue istintive leggerezze, destinata a subire inevitabilmente il crollo dell’edificio delle menzogne e degli sbagli da lei stessa costruito in modo quasi inconsapevole, a volte per reazione istintiva quanto isterica alle avversità delle vita; meravigliosamente patetica nel rifiutare di sapere tutto quello che conosce benissimo e comunque davvero memorabile, fino all’ultima inquadratura, quando il suo sguardo resterà sospeso nel vuoto, forse proprio mentre sta sfuggendogli l’ultimo appiglio buono per rientrare nella sua vita.  

sabato 14 dicembre 2013

DIETRO I CANDELABRI di Steven Soderbergh


Wladziu Valentino Liberace, virtuoso pianista del Wisconsin, classe 1919, di origini Italo-Polacche, per gli amici (e per gli amanti) semplicemente “Lee”.

A cavallo tra gli anni ’50 e ’70 fu uno degli artisti con il più alto cachet della sua epoca: il suo nome è iscritto nella “Walk of fame” di Hollywood, una statua in cera lo ricorda a Las Vegas al museo di Madame Tussauds e Lady Gaga lo cita ai giorni nostri nella canzone “Dance in the Dark”.

Intrattenitore televisivo con un suo programma (“The Liberace Show”), talentuoso interprete di Liszt e di sfrenati Boogie Woogie, adorava vestirsi con mantelli di ermellino uniti a fiammeggianti abiti luccicanti e viveva in una sfarzosa villa simile ad una reggia, arredata secondo i dettami di un insolito stile “kitsch imperiale”.

Sembrerebbe innegabile che Steven Soderbergh, ancora intenzionato a prendersi un “periodo sabbatico” di lontananza dal cinema per dedicarsi ad altro - tra cui sicuramente teatro e televisione – di carne da mettere al fuoco, per il suo “ultimo” lavoro, ne avesse in abbondanza.

Di questo eccentrico ed interessante protagonista dello spettacolo Americano (certo assai meno noto in Europa di quanto non lo fosse invece oltreoceano) il regista di Atlanta racconta l’ultimo decennio di vita, dal finire degli anni ’70 al 1987. E’ durante questo periodo che ebbe una relazione con il giovanissimo Scott Thorson che, quando lo conobbe, era nemmeno ventenne. Ad interpretarlo è chiamato un Matt Damon già oltre i quaranta anni, sufficientemente credibile però nel suo ruolo in virtù di una prova più che ispirata.

Nonostante diverse indiscutibili evidenze Liberace (Michael Douglas) finchè ebbe fiato per respirare negò sempre con decisione la sua omosessualità, arrivando al punto di denunciare il “Daily Mirror” – ottenendo ragione - quando nel 1957 ventilò dalle proprie pagine l’ipotesi che fosse gay. Alla sua morte le dichiarazioni ufficiali parleranno inizialmente di complicazioni cardio-vascolari per nascondere l’Aids e la sua sieropositività.

Aggiungete a tutto questo che l’estroso show man si dichiarava anche un “fervente cattolico”, dal momento che riteneva Dio avesse avuto per lui un “particolare occhio di riguardo” durante il decorso di una sua grave malattia e che, nel contempo, non considerava né peccaminosi, nè in antitesi alla sua “vocazione religiosa”, gli insaziabili languori carnali dei quali sembra fosse spesso preda ed avrete un'idea di quanto poco rischierete di annoiarvi durante la visione di “Dietro i candelabri”.

Il film di Soderbergh non nasconde affatto la natura “sfacciatamente” omosessuale dell’artista americano, al punto che proprio per questo motivo gli studios di Hollywood hanno rifiutato di produrre il soggetto e si è dovuto attendere l’innesto di capitali della “televisiva HBO” per poter passare alla fase di lavorazione.

Michael Douglas incarna con passione il suo personaggio, rendendone al meglio le contraddizioni e le curiose sfumature, colorando di un simpatico estro barocco ogni suo gesto, dai suoi smodati appetiti sessuali alle numerose disarmonie ed interpretando al suo meglio la figura di un uomo intimamente convinto che un artista non dovesse sovvertire l’ordine del mondo ma soltanto divertire il suo pubblico e, “vivaddio”, vendere bibite e qualche souvenir!

La figura di Liberace emerge come quella di un uomo effervescente, istrionico ed eccessivo, oppresso da un vago senso di solitudine per quanta gente potesse avere vicino: come capita spesso quando le situazioni sono prodighe di denaro e divertimento, molti gli ronzavano attorno soltanto per ottenerne qualcosa. Ben conscio del suo ruolo di “potere e di comando” su chi aveva accanto, era anche capace di slanci generosi ed amorevoli quando pienamente coinvolto in un rapporto affettivo, al punto da voler sinceramente essere per il suo uomo padre, fratello, amico e amante.

Difatti Liberace e Thorson si prenderanno cura l’uno dell’altro per diversi anni, dividendo il loro tempo tra lavoro, sesso e shopping, entrambi preda di una focosa passione amorosa ed ovviamente vittime di qualche inevitabile litigio. 

Alla resa dei conti l'amore prevarrà sulla gelosia ma, improvvisamente, la loro relazione prenderà una brutta china e, per motivi che non vi raccontiamo ora, non giungeremo affatto a vedere il classico lieto fine!

Soderbergh non nega alla sua pellicola la quasi imprescindibile baldoria dei colori accesi e dei fastosi dettagli e si avventura tra gli scintillanti lustrini “armato” di una perigliosa ironia, camminando sicuro entro il perimetro di un campo minato e continuamente esposto al pericolo del ridicolo eppure - senza trascurare di certo il pittoresco e debordante contorno estetico - riesce a puntare dritto alla sostanza, senza troppa enfasi o superflue romanticherie e nemmeno nascondendo le spigolosità di un rapporto comunque a suo modo intenso e pieno di sentimento.

Scott era un “senza famiglia”, senza arte nè parte mentre il suo Lee era un divo famoso e pieno di denaro, pervaso da singolari manie. Nel periodo passato assieme le posizioni dei due rimasero tutto sommato ben definite e le differenti origini determinarono una diversa suddivisione dei ruoli e l’accettazione o meno di una condizione parzialmente fatta anche di dominio e subalternità.

Durante la loro “liaison” Liberace si prese persino la licenza di “ricreare” il suo amore a propria immagine e somiglianza: sarà questo il momento in cui la pellicola offrirà alcuni tra gli spunti più interessanti grazie ad una sanguinolenta rappresentazione della sala operatoria - che risulterà di certo repellente ed indigesta ai sostenitori della chirurgia estetica - ed in virtù del divertente cameo di Rob Lowe nei panni del Dottor Jack Startz, medico in grado di far restare i suoi pazienti (…clienti!...) letteralmente ad occhi aperti! Nella parte di Seymour Heller, manager di Liberace, troviamo invece Dan Aykroyd ed in quelli della madre Debbie Reynolds.

Behind the candelabra – My life with Liberace” è la biografia – scritta da Thorson qualche anno dopo la morte di Liberace - dalla quale Richard LaGravenese e lo stesso Soderbergh hanno tratto l’adattamento cinematografico.


Il titolo prende spunto dal vezzo che aveva il pianista di suonare sempre con un candelabro poggiato sul pianoforte, sembrerebbe dopo averlo visto fare nel film “L’eterna armonia” di Charles Vidor, dedicato alla vita di Fryderyk Chopin. Detto questo il cerchio sembra davvero chiudersi e l'approdo sul grande schermo di questa storia come già scritto a chiare lettere nel libro di un inevitabile destino.

giovedì 5 dicembre 2013

INDEBITO di Andrea Segre


Il cinema può arrivare in luoghi conosciuti percorrendo strade mai viste, ricreare immagini per proporle ancora una volta ad occhi che vi abbiano già poggiato lo sguardo o esser capace di trovare nuove parole che rendano vivi discorsi già ascoltati.

Seguendo la rotta indicata da una “bussola fatata” Andrea Segre decide di andare dietro alle orme della crisi globale, pedinandola per vie insolite e che, nello specifico del suo “viaggio”, si snodano tutte in Grecia, una delle nazioni più colpite in Europa dal tracollo dell’economia degli stati sovrani. A condurlo in giro – per le strade di Atene - una guida “sui generis”: il musicista Vinicio Capossela.

L’artista di origine Irpina - che con il suo ultimo lavoro (“Rebetiko Gimnastas”) si erà già avvicinato a questi luoghi - ci accompagna tra locali e strade buie, facendoci ascoltare i rumori che salgono al giungere della solidale compagnia della notte e le voci che animano le taverne popolate da esseri umani che ancora coltivano il desiderio di ricercare le proprie radici e condividere assieme ad altri il sapore di ogni loro scoperta.

Capossela porta con se un piccolo strumento a corde “figlio” del bouzuki, il “baglamas”, simbolico e tenero legno dal quale vibrano note come lamenti o struggenti richiami dell'anima. Lo agita davanti a se come fosse il ramo di un rabdomante, in modo che possa condurlo a scoprire storie nuove e vecchie, le tane degli spettri o il nascondiglio di strani fantasmi; se lo porta all'orecchio come fosse una conchiglia di mare dalla quale poter ascoltare le voci dei “rebetes” morti, o che forse ci suonano ancora dentro.

Indebito”, presentato fuori concorso al 66° Festival di Locarno, è difatti - anche, o soprattutto - un viaggio nella musica “Rebetiko”, quella dove le corde degli strumenti vengono pizzicate direttamente come da un cuore primitivo e le melodie struggenti che ne nascono – sulle quali vengono poggiate parole semplici - parlano di questioni senza tempo, dell'amore, dei rapporti umani, di sofferenza e povertà.

Rebetiko: dal turco “ribelle”, perchè sono stati i profughi di Smirne - scappati dai fuochi della guerra e da una diversa “crisi” - a far germogliare le sue note in terra di Grecia. Musica “allevata” poi dai “Rebeti”, ovvero dagli emarginati, gente fuori dalle regole, che magari faceva uso di droghe e vino e giocava d'azzardo ma non poteva fare a meno della “manghià”, ovvero la dignità. Rebeti, forse dal verbo “remvo”, fantasticare”, e così ad ogni passo la radice di questa parola sembra assumere poteri magici o taumaturgici.

E' uno strano viaggio verso le origini dell'essere umano quello di Segre, Capossela e dei loro amici Greci e lungo il cammino scorre linfa energizzante, buona per resistere e metter in campo nuove rivoluzioni: perchè questa musica – dicono - “è rivoltosa” e lo diviene proprio nel momento in cui riesce ad accendere in noi la consapevolezza che ogni attimo è l'ultimo ed a farci comprendere che - proprio per questo - non ha alcun senso sprecare la nostra vita.

Indebito” non è la crisi filtrata attraverso una accudente melodia e nemmeno si sogna di spacciare la musica come panacea di tutti i mali – purtroppo non è l’antidoto perfetto a depressione e miseria - però sottolinea che attraverso la musica (qui si parla del “rebetiko” in particolare) può riemergere l'anima e tornare ad apparire limpido quel che ci è necessario.

Grazie ad essa talvolta vediamo nuovamente con chiarezza la semplicità dei nostri bisogni e le urgenze divengono forze propulsive che ci traghetteranno ancora in avanti; nel cuore di una taverna o sul gradino di una strada deserta, al netto dei nostri assurdi bisogni consumistici, tutto adesso sembra volersi far guardare sotto una luce diversa.

E’ ritmo e “musica vitale” anche il richiamo struggente all’antica filosofia dell' ”esser felici con quel che è nella disponibilità”: un pacchetto di sigarette, un bicchiere di vino con gli amici o la propria donna: sono grandi rivelazioni al tempo in cui i mercati sono più importanti delle persone e non deve meravigliare che tutto questo giunga da un paese verso il quale siamo da millenni debitori di molte cose, prima fra tutte l'alba della nostra esplorazione interiore.

Segre lascia che il suo film faccia rotta verso il cuore e la ragione, senza perdersi in spiegazioni di troppo o raccordi che ne possano alterare la sincerità e la purezza, macchiandolo di inutile artefazione.

Asseconda, circoscrive, sottolinea”, accompagna Capossela nella sua trance musicale ed infine traspone i segni della musica in cinema, di questa musica che a sua volta è come se fosse figlia di vecchie foto in bianco e nero ritrovate in chissà quale vecchia scatola di metallo, che il passato ha conservato per noi.

Indebito” è come vino che non ci fa mai ubriacare: segue e ritrova le tracce della “Mangas” e cioè della sincerità, di coloro che fanno il bene senza dirlo e dunque sono davvero uomini! Contro il potere costituito ed il conformismo è una boccata di ossigeno e di schietta speranza, che diventa forza a guardare i volti coraggiosi e leali che hanno incisi sulla pelle i segni del tempo ed il suo insegnamento.


Il sole non è in crisi” - è scritto sulla vetrina di un negozio - e nonostante ogni sconforto sarà parecchio difficile mandare del tutto al tappeto anche il cuore e l'anima degli esseri umani, perlomeno di coloro che opporranno la loro strenua resistenza, respirando la vita di ogni giorno anche al tempo ed al ritmo della musica.  

venerdì 22 novembre 2013

VENERE IN PELLICCIA di Roman Polanski



Pioggia battente in una città deserta: soli, all’interno di un teatro - come all’alba di un nuovo inizio - un uomo e una donna.

Thomas (Mathieu Amalric), uno scrittore/regista che sta facendo audizioni per la sua pièce si imbatte (casualmente?...) in Vanda (Emmanuelle Seigner), una attrice energica ed irriverente in grado di dare nuova forza alle parole del suo lavoro ed al tempo stesso di stravolgerne il senso.

La rappresentazione in questione è tratta dal celebre romanzo “Venere in pelliccia”, scritto nel 1870 dallo scrittore Austriaco Leopold Von Sacher Masoch, da cui il termine “masochismo” ed a cascata tutto un universo sensuale, cerebrale ed erotico “sui generis”.

Allacciare il vestito di scena all’aspirante protagonista – apparentemente meno sfrontata e “pericolosa” di quanto non si rivelerà poi - sarà solo il primo passo verso un insolito confronto/scontro basato su un vorticoso e continuo ribaltamento di ruoli tra maschio e femmina, tra regista ed attore, tra chi detta le regole e chi invece “sembrerebbe” dover solo eseguire gli ordini.

Polanski sta innegabilmente vivendo una splendida terza età cinematografica: ha compiuto ottanta anni appena lo scorso 18 agosto e continua ad inanellare prove registiche che, a giudicare dai risultati, pongono il suo finale di carriera ben al riparo da una definitiva conclusione.

Dopo i quattro attori in una stanza di “Carnage” - basato sull’opera “Il dio del massacro” di Yasmina Reza - ancora un film tratto da un testo teatrale, stavolta di David Ivens e sceneggiato per il cinema a quattro mani da Polanski con lo stesso autore della pièce. Due solamente i protagonisti, per l’appunto la Seigner ed Amalric, entrambi bravissimi!

Il palco diviene ben presto qualcosa di simile ad un ring sopra il quale “recitare una boxe” dai colpi finissimi ed eleganti, dove rivelare le passioni negate e comunicare – magari attraverso particolari codici - i propri pensieri nascosti: tutto il teatro è niente altro che un labirinto nel quale inoltrarsi verso gli sconosciuti confini dei propri limiti.

Quello che va in scena è un duello delizioso, una sfida delle intelligenze e della provocazione dove, continuamente, vengono gettati in faccia al proprio “avversario” perfidi guanti di sfida verbale.

Seguendo le tracce antiche di un testo che viene da un tempo remoto – nel quale però già le sole parole scritte da Von Sacher Masoch trasudavano erotismo – i due protagonisti attualizzano e rinnovano i significati e le pulsioni che questo è in grado di scatenare. Dalla finzione sconfinano nella realtà, dapprima ad intermittenza e cammin facendo sempre più con soluzione di continuità, scoprendo quanto per entrambe le condizioni ben si attaglino i medesimi dialoghi e gli scambi di battute, constatandone la loro ambivalenza ed ambiguità!

Le inversioni di ruolo e i giochi di specchi sono molteplici ed illuminanti e confondono la figura dell’uomo e della donna i quali, in un singolare “testa a testa”, si producono in scivolose capriole e suggeriscono numerosi rovesciamenti del punto di vista.

Verrà sottoposto a rivisitazioni insolite anche lo stesso romanzo di Von Sacher Masoch mentre Thomas e Vanda intraprenderanno percorsi di pura avventura ed esplorazione, fin dentro meandri mai visitati neppure da loro stessi.

Polanski ed i suoi due protagonisti giocano, “si divertono e divertono” per poi all’improvviso affondare i colpi con precisione quasi chirurgica, trovando la misura perfetta – grazie soprattutto al testo di Ivens - per analizzare le relazioni tra sesso e dominazione ed i rapporti tra impulsività e ragione, unendoci anche estemporanei lampi di lotta di classe.

La complessità della tematica principale emerge con chiarezza assieme ai misteri del temperamento umano ed il tutto viene condito anche con un essenziale tocco di ironia, perfettamente funzionale a disinnescare le tensioni ed i toni più accesi o, talvolta, quelli avviati a sbilanciarsi troppo verso un tenebroso erotismo.

Senza dubbio il confronto tra Vanda, che si presenta come una donna semplice e volgarotta (certo per furbizia e comodità: ma di chi si tratterà veramente?...) ed il più acculturato Thomas - che ha addirittura un cane chiamato Derrida, come il filosofo Francese - già è fonte di ilarità; poi nei momenti meno opportuni arriva l’eco della bizzarra suoneria di un telefono cellulare ad interrompere le situazioni più cupe o bollenti, ovviamente al ritmo delle note de “La cavalcata delle Valchirie” di Wagner.

In un’ora e mezza si spazia dentro le accese complicanze delle relazioni tra uomo e donna, guardando alle gioie ed alle sofferenze degli amanti, esplorando luoghi reconditi e mettendo a nudo più l’anima che i corpi. Su un altro fronte parallelo assistiamo al confronto del regista alle prese con l’ “insubordinazione” dell’attore che, talvolta, si rivela straripante e vincente al punto da costringerlo ad abdicare dal suo ruolo, fino a cedergli “lo scettro ed il mestiere”.

La sensazione finale che si ricava da “Venere in pelliccia” è un volo d’angelo di rara grazia ed armonia che supera, in forma d’arte, le convenzioni e l’ordinario e dove l’unica certezza, per quanto declinata spesso con grande senso dell’ironia, sembra esser quella velata supremazia della donna sull’uomo, decisa da chissà “chi” e fin dall’alba dei tempi in ossequio alla citazione biblica dal libro di Giuditta che recita “...e il signore onnipotente lo colpì e lo mise nelle mani di una donna”.


E così sia.

L'ULTIMA RUOTA DEL CARRO di Giovanni Veronesi


Sono gli anni ’70 ed il giovane Ernesto Marchetti (Elio Germano) si guadagna da vivere aiutando il padre tappezziere: è un ragazzo con “il vizio” di esser onesto e lavorare non gli fa paura.

Angelina (Alessandra Mastronardi) è la donna che ama ed alla quale si dichiarerà presto con impacciata emozione. La sposerà senza aver un soldo in tasca, al punto da non poterle offrire nemmeno il viaggio di nozze, mentre lei in dote porterà una casa dove vivere e con la luce pagata, anche se con l’inconveniente di aver tutti i giorni qualche parente per ospite all'ora di pranzo.

Lo zio Alberto (Maurizio Battista) procurerà al giovane marito - tramite “le solite” amicizie - un posto fisso in una mensa scolastica ma, ben presto, l'insoddisfazione ed una ventata di ottimismo arrivata direttamente dai Mondiali di Spagna, faranno prendere ad Ernesto un’altra strada, dirottandolo nel settore dei traslochi assieme all’amico Giacinto (Ricky Memphis).

L'Italia, di lì a breve, avrebbe conosciuto nuove mutazioni che non avrebbero risparmiato di coinvolgere i nostri protagonisti: soprattutto stava per arrivare il tempo in cui i socialisti non sarebbero stati più “di sinistra”…

Veronesi, prendendo spunto dalla vera storia di Ernesto Fioretti (l’autista/tuttofare di Carlo Verdone, che il regista toscano ha conosciuto sul set di “Manuale d’amore”) rivisita con una veloce carrellata quarant’anni della nostra storia, dall’omicidio di Aldo Moro passando per le monetine dell’Hotel Raphael lanciate contro Bettino Craxi ed arrivando fino ai giorni nostri, dopo esser transitato (inevitabilmente!...) davanti ai suadenti cartelloni del promesso “nuovo miracolo italiano” di Silvio Berlusconi.

Scorre in pellicola l’Italia immarcescibile dei raccomandati e di tutti i “Signori Cocco”, dei piccoli mariuoli furbi e sfortunati; poi il lungo periodo del “dominio socialista” e proseguendo in avanti una citazione persino per il plastico di Cogne nello studio televisivo di Bruno Vespa. Così, un episodio minore fa di diritto il suo ingresso - almeno cinematograficamente – tra quelli “deplorevolmente salienti” nella vita recente della nostra Nazione!

Il film di Veronesi si fa apprezzare per le sue intenzioni e per la sua atmosfera genuina, nella quale rimane piacevolmente a baloccarsi, facendoci più sorridere che non riflettere sui mali atavici del Paese. Sfruttate appieno in questo senso le opportunità offerte dal personaggio di Giacinto/Memphis (ottimo contraltare per Germano).

E’ probabilmente una scelta operata in sede di stesura del soggetto e dei dialoghi, considerando ad esempio anche le battute marcatamente di alleggerimento assegnate dalla sceneggiatura - opera dello stesso Veronesi in collaborazione con Ugo Chiti, Filippo Bologna e lo stesso Fioretti - a Maurizio Battista.

Al comico Romano anche il compito di sottolineare, con una certa velata insistenza, quanto le riserve della panchina calcistica - ovvero gli “ultimi” - siano più importanti dei giocatori/titolari: non è purtroppo l'unica occasione in cui il film si lascia zavorrare da qualche piccolo luogo comune e da uno stile troppo semplificativo.

Percorrendo senza crederci troppo il solco della vecchia ed amara commedia all’italiana di Scola, Monicelli o Risi – mancando purtroppo l'occasione di emularli in pieno - la pellicola giunge al suo capolinea, dove ci aspetta una prevedibile morale consolatoria e fin troppo smaccatamente esplicitata nell’elogio della vita sofferta, onesta e felice, dove quel che conta è l’amore e non certo il denaro.

Elio Germano spicca sugli altri nel ruolo del cittadino che tenta a fatica, se non proprio di rimanere integerrimo, quantomeno di preservare la sua dignità, evitando di approfittare di sconce scorciatoie per arricchirsi o di sporcarsi le mani con le piccole truffe.

Il suo contributo offre a tratti sterzate generose verso orizzonti di altra intensità emotiva e credibilità, dai quali però il resto della storia si tiene cautamente lontana, rinunciando ad affondare davvero nella carne viva dei problemi e nelle loro cause.


L'ultima ruota del carro” si garantisce così una “navigazione” tranquilla non riuscendo tuttavia, alla resa dei conti, ad andare molto al di là di un racconto piacevole, schietto e sincero.

mercoledì 13 novembre 2013

LA VITA DI ADELE - CAPITOLI 1 E 2 di Abdellatif Kechiche


La vita di Adèle”, recente trionfatore all’ultimo festival di Cannes, quasi non pare esser il frutto di una finzione attoriale, a tal punto quel che questa riproduce spesso pare sgorgare direttamente dalla fonte complessa, magmatica ed in costante tensione della vita stessa.

Di questo magnifico risultato la pellicola è debitrice - in parte consistente - alla eccellente interpretazione della giovanissima Adèle (Adèle Exarchopoulos), colei che sopra tutti è investita del compito di guidarci nel labirinto umano - sentimentale e non soltanto - che il film vuole rivelarci.

Preda di ondate passionali o sperduta tra le mille incertezze, Adèle è sempre di una impressionante naturalezza ed in virtù di questa in grado di condurci ben oltre la condizione della sua recitazione; la Exarchopoulos, con dolcezza ed ingenuità, ci trascina precisamente al centro della sua tempesta di emozioni: lapilli incandescenti di vita in eruzione, diluvio di sensazioni incontrollabili e difficili da razionalizzare.

Kechiche, da par suo, individua in un generoso uso di primi, primissimi piani e dettagli il metodo più efficace per creare un vortice che attiri a se ogni cosa ed annulli ogni distrazione possibile, totalizzando lo schermo nella sua interezza e non lasciando via di scampo all'immedesimazione progressiva dello spettatore.

A questo aggiunge poi la sua particolare predilezione nel mostrarci il rapporto dei suoi protagonisti con il cibo (ricordate “Cous Cous”'?), spargendo a piene mani inquadrature ravvicinate di bocche che tirano su spaghetti e si sporcano di sugo, poi che succhiano ostriche o addentano kebab.

L'istintiva e quasi primordiale carnalità cinematografica del suo modo di raccontare verrà accentuata ben di più quando - non avendo nessuna accondiscendenza nei confronti dello spettatore - giungerà il momento di filmare la dimensione dei corpi in amore: Kechiche valicherà allora senza timori i confini imposti dal tabù, lasciando il campo ad immagini prive di censura ed inibizione ed indugiando abbondantemente e senza limiti di tempo nel mostrarci la passione.

La vita di Adèle” (liberamente tratto dal fumetto “Il blu è un colore caldo” di Julie Maroh) è anche intriso di un sapore fortemente letterario: citazioni generose giungono da “La vita di Marianna” di Marivaux e dall’ “Antigone” di Sofocle; poi si passa a Sartre e successivamente – con una disinvolta capriola - si farà cenno ai testi delle canzoni del più giovanile Bob Marley.

Quanto letto nei libri indirizza ed in qualche misura “profetizza” ed annuncia quel che accadrà in seguito ma, più in generale, sono ogni parola - urlata o sommessa – e qualsiasi piccolo gesto o dettaglio che finiscono, quasi sempre, per conquistare particolare risalto ed importanza nel film di Kechiche. Gli spettatori più attenti non avranno difficoltà a riscontrare l'inscindibile legame sotterraneo della vita dei protagonisti con gli impulsi dettati dall'arte o dalle concettualizzazioni filosofiche; probabilmente molto più evidenti invece agli occhi di tutti gli sconfinamenti del sentimento tra sesso e passione e le strade parallele o contrastanti del piacere e della felicità.

Kechiche trova il modo di dare corpo e parola - come la poesia - “a mille ed altre cose che non c'è bisogno di capire”. Riesce a mostrare come l'arte, che talvolta confluisce con la vita, la lasci poi rifluire nuovamente fuori, uguale e diversa.

Poi sa anche guardare con profondità a cose più tangibili e concrete, come l'inevitabile peso del conflitto tra le diverse classi sociali ed alla sensazione di disagio che questo farà affiorare nel rapporto tra Adèle ed Emma (Léa Seydoux), l'altra bravissima protagonista della pellicola.

In questo magnifico film ogni cosa riesce a sembrare per quel che davvero è, ovvero una continua scoperta, dai libri al sesso, dall’assaggiare i frutti di mare al cercare il “gusto ed il sapore” delle relazioni personali: Adèle bacia le labbra degli altri, uomini o donne, come volesse assaggiar la vita e cercare risposte; poi punta i suoi occhi verso di noi e letteralmente ci sequestra con il suo sguardo e la sua spontaneità espressiva, accrescendo la sua influenza sullo spettatore ad ogni lacrima che si impasta nei fili scompigliati dei suoi capelli.

Kechiche scandisce un ritmo lento alla sua storia , quasi consigliandoci di “osservare la vita danzare al suo tempo”, l'unico che ce la possa mostrare davvero: nel suo territorio cinematografico ogni inezia ha uno spessore enorme, esattamente come nella realtà.


La vita di Adèle” è un continuo baluginare di istinti viscerali e passionali, un costante affluire di sensazioni che, muovendosi dai confini esterni della vita (quadri, pensieri, letteratura) spingono forte verso l'interno; è una esplosione di possenti estasi inconsapevoli e necessarie - del cibo o dei sensi, dei piaceri diversi che attingono alle stesse fonti - delle attrazioni reciproche inesorabili, dell’amore e delle sue tenerezze infinite, talvolta costretti loro malgrado a percorrere strade che potrebbero finire per essere ineluttabilmente divergenti.