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martedì 29 gennaio 2013

LINCOLN di Steven Spielberg


E' il 1865 e l'America è nel corso della guerra di secessione: quattro sanguinose primavere hanno già portato via una moltitudine dei suoi figli. Nel mentre infuria un'altra battaglia, tutta politica: quella volta a far approvare il Tredicesimo Emendamento della Costituzione Americana, riguardante l'abolizione della schiavitù.

Abraham Lincoln, sedicesimo Presidente degli Stati Uniti D'America e primo eletto nella schiera dei Repubblicani, è fortemente persuaso che solo questo regalerà libertà, pace ed un nuova fratellanza a “tutto” il suo popolo e perseguirà il suo obiettivo con ogni mezzo possibile.

Il film, fin da subito, punta l'attenzione sulle mille insidie nascoste che renderanno duro e difficoltoso questo cammino, a cominciare da quelle che si celano nella stessa “Camera dei Rappresentanti” - “un vespaio pieno di bifolchi inetti e senza talento” - aprendo poi il sipario sul sottobosco di loschi emissari sguinzagliati in giro con il compito di procacciar voti anche a mezzo di favori, corruzione se necessario (quanto è giusto prevaricare la legge per il conseguimento di un altissimo fine?) e concessioni di posti pubblici ai politici titubanti che, persino durante gli infuocati dibattimenti, vengono osservati e schedati per poter poi essere in seguito circuiti.

Stavolta Spielberg – cosa piuttosto insolita per lui – pone in secondo piano l'immagine e privilegia la parola, avvalendosi di dialoghi superbi e letterari che conferiscono alla pellicola una dimensione fortemente romanzesca mentre a cucire ogni passaggio della storia c'è onnipresente Daniel Day Lewis, che offre una interpretazione davvero eccellente del Presidente Americano.

Con nettezza ne fa emergere il profilo di uomo responsabile, illuminato e dalla grande saggezza, proteso con energica volontà e decisione nel districarsi tra le paludi della politica e del compromesso, dotato di una sua personale bussola interiore che gli consente di cogliere il tempo giusto in ogni occasione e lo orienta verso un futuro di libertà e giustizia.

Assediato senza tregua da questuanti di ogni tipo e dalla ragion di stato, non esiterà a porre in secondo piano le ragioni della sua famiglia per favorire l'interesse della Nazione ed inseguire la sua visione.

Come un baleniere sa che l'arpione oramai è conficcato nel corpo del mostro e bisogna evitarne il colpo di coda: è ben conscio che il suo è un incontro con la storia ed è pronto a sopportare il peso delle decisioni inevitabili ed il fardello di dolore che ne conseguirà.

Abraham Lincoln, pur avendo avuto poca possibilità di frequentare le scuole, ha appreso molto dai libri come dalla vita e su un volume di Euclide, un giorno preso a prestito, ha scoperto “l'uguaglianza e la sua correttezza”, partorendo forse allora nella sua mente una sorta di idea “matematica della giustizia”, che ancora oggi rammenta.

Giusto sul filo del rasoio coglierà un risultato straordinario ed epocale per l’umanità che, poco più tardi, pagherà al prezzo della sua stessa vita.

Sullo sfondo le operazioni militari che videro in prima linea il Generale Ulysses S.Grant (Jared Harris) ed il poderoso impegno in prima persona del Presidente della Commissione Finanza - ed esponente della minoranza radicale dei Repubblicani - Thaddeus Stevens, interpretato da un Tommy Lee Jones in ottima forma, che ne rende memorabili almeno un paio di accorate invettive.

Nei dialoghi alcuni accenti concepiti “ad hoc” per gli spettatori del ventunesimo secolo al riguardo di un futuro che prima o poi sarebbe stato costretto ad accogliere “addirittura” i matrimoni misti, il suffragio universale ed i “colonnelli negri” (ed oggi pensate, persino un Presidente...)

Lincoln” è un affresco storico efficace, dove quasi sempre l'eclettico regista di Cincinnati riesce a tenere a freno la sua naturale propensione all'enfasi pur addentrandosi fino alle radici stesse della sua nazione, scavando nei meandri di un'epoca che pose le basi della sua libertà e della sua grandezza.

Chi non ama i dialoghi straripanti si astenga dalla visione, ma questa considerazione non deve intaccare minimamente il fatto che la pellicola sia fulgida e compiuta, un manifesto valido per ogni tempo sulla necessità dell'uguaglianza e l'emancipazione degli esseri umani.

Epico, patriottico, spesso capace di sconfinare oltre il racconto storico, “Lincoln” attende il prossimo ventiquattro febbraio pronto a farsi sommergere da una impetuosa quanto benevola gragnuola di Oscar.

QUALCOSA NELL'ARIA di Olivier Assayas


Cosa ne è stato della rivoluzione culturale (sociale, politica…filosofica) che agitava il finire degli anni ’60 è la realtà odierna a dircelo, meglio di qualsiasi film e purtroppo senza grandi possibilità di smentita.

Con il suo “Qualcosa nell’aria”, Olivier Assayas - che quella stagione la abitò da protagonista nella surriscaldata Francia, avendo giusto l’età nella quale i sogni fermentavano quotidianamente assieme all’impeto, la rabbia e l’impegno sociale – prova a ricomporre il quadro d’insieme, riversando i suoi ricordi, le sue convinzioni ed i suoi ideali dentro una pellicola, nel tentativo di cogliere i molteplici aspetti di un periodo agitato e tumultuoso, disseminato anche di errori, abbagli e delusioni ma certo pieno di calorosa passione.

Qualche anno dopo il maggio francese – era il 1968 e nel film siamo nel 1971 - alcuni ragazzi di un liceo Parigino sono ancora nel guado dell'esistenza che separa le sponde dell'impegno politico collettivo da quelle di una ricerca artistica ed un percorso di vita individuale.

Blaise Pascal dai libri - per bocca del professore - rimarca la fragile inconsistenza della loro vita, niente di piu' che un passaggio temporale verso il cielo o l'inferno, mentre sono l'impegno quotidiano o gli scontri di piazza a scorticare la loro pelle viva: è l'onda d'urto della realtà che ogni giorno li nutre di stimoli ad al tempo stesso rischia di travolgerli.

Il ferimento piuttosto grave di un vigilante della scuola, durante un' incursione notturna, separerà i destini del gruppo: qualcuno si allontanerà dalla Francia verso l'Italia per “ragioni di opportunità”, altri verso Londra (Laure/Carole Combes), culla della controcultura che nasconde anche il dono avvelenato dell'eroina; poi le monete per tre volte indicheranno il Nepal e la vita di alcuni dei ragazzi viaggerà incontro a nuove distanze.

Assayas, attraverso le figure giovanili ed irrequiete tratteggiate dai suoi attori, delinea - con un trasporto che talvolta raffredda fin troppo con la sua puntigliosa regia e le interpretazioni molto composte dei suoi attori - un periodo storico di svolta e formazione, quando i fatti sembravano dover finalmente seguire il passo delle idee.

Il termine rivoluzione non sembra per il regista Francese una parola né archiviata, né del tutto sopita e con il suo “Apres Mai” – il titolo originale è assai più significativo ed identificativo – prova a ricordare dove si è interrotto il cammino (suo e di altri), quali furono le ragioni e dove diramarono le strade partendo dal loro epicentro di fuoco, quello che sembrava dovesse far saltare in aria il mondo come una polveriera.

C'era qualcuno che cercava davvero di proiettare la realtà oltre il grigiore di una stanca e ripetitiva quotidianità ed ambiva a scuotere le masse, altri che finirono per vivere totalmente nell’immaginazione non riuscendo nemmeno ad aprire la porta quando il futuro bussò chiedendo di entrare.

I protagonisti del film di Assayas – un piccolo campione che vuole essere rappresentativo di tutta un'epoca – sono uomini e donne che, pur lasciando trasparire un vigore interiore che vorrebbe tracimare all'esterno, sembrano a tratti alieni, avulsi da loro stessi o smarriti e che si animano solo nell’operosità, alle prese con un ciclostile o quando debbono fronteggiare le cariche delle forze dell’ordine.

L’edonismo era lontano, sconosciuto o in secondo piano; c'era semmai voglia di sperimentare e conoscere, scoprire se stessi ed il proprio corpo, allargare il campo d’azione della propria mente e la percezione del circostante, inevitabilmente aprendo anche voragini nelle quali con estrema facilità si poteva scivolare dentro: così fu per alcuni che, seppur durante una ricerca generosa ed istintiva, lasciarono troppo spazio alle droghe che finirono per prendere il sopravvento.

Quali scelte parevano possibili? Vivere il presente per marciare coerenti e senza compromessi verso un obiettivo comune oppure prediligere di lasciar affiorare giorno per giorno l’anima senza controllare nulla, tra coraggio e confusione, spesso finendo incontro al risveglio e la disillusione.

Christine (Lola Crèton) persevererà in qualche modo nel suo impegno, inseguendo gli ideali; Gilles (Clement Metayent) rifiuterà dogmi e violenza, abbandonerà la passione della pittura e lavorerà nel cinema, ritrovandosi infine su un set dove la star ancheggia sui tacchi a spillo e non distingue la destra dalla sinistra (una allusione politica o solo la difficoltà nel comprendere il lato giusto dal quale abbandonare la scena?), una figura rivelatrice di nuove superficiali inconsistenze che avanzano e finiranno per imporsi.

Come nei “Dreamers” di Bernardo Bertolucci ma con un visione molto piu' ampia e dettagliata dello scenario generale, “Qualcosa nell'aria” è una fotografia di giorni importanti del passato recente, dalla “lungimiranza spericolata” e che ancora si agitano tra le maglie del nostro presente senza avere più lo stesso vigore di allora.

E' il ritratto di una fase storica dove sembrava delinearsi con chiarezza che non si dovesse subire la stanchezza mortifera dell'abitudine e l'esigenza della vita pareva imporsi come il vero programma rivoluzionario: davvero i sogni parevano a portata di mano, toccarli e poi realizzarli qualcosa di possibile.

Forse per Assayas e molti altri della sua generazione questa riflessione potrebbe essere anche - o soltanto - una questione di nostalgia, ma è in tutti quelli nati negli anni successivi che potrebbe affiorare una sorta di invidia, mista ad una consapevole e troppo quieta disperazione: quella di non aver mai potuto nemmeno provare a immaginare e costruire un mondo migliore.

martedì 22 gennaio 2013

DJANGO UNCHAINED di Quentin Tarantino


Dopo aver disseminato la sua filmografia con  tante piccole citazioni stavolta Tarantino attinge al suo immaginario di riferimento a piene mani; prende in prestito – revisionandolo -  un  titolo di Sergio Corbucci del 1966 (“Django” oggi “Unchained”), con la stessa musica di quel film (di Luis Bacalov) ci apre il suo nuovo lavoro e  con  quella di “Continuavano a chiamarlo Trinità” di Franco Micalizzi ci accompagna i titoli di coda; per ultima cosa  riserva persino un piccolo e ironico cameo al nostro Franco Nero, protagonista della pellicola italiana di cui dicevamo all’inizio. Quindi  parte per un sostanzioso – e stratosferico! - omaggio a tutto campo all’amato “spaghetti-western”
E’ noto quanto l’ex “enfant prodige” del Tenessee ami scorrazzare in libertà quando pensa e costruisce i suoi film e non c’è da stupirsi se stavolta ha considerato buona l’occasione per metter sullo sfondo nientedimeno che lo spinoso argomento della schiavitù; in precedenza aveva osato prender di petto l’olocausto, ridicolizzando tra l’altro senza remore la figura di Hitler che, nel finale del film “Bastardi senza Gloria”,  periva addirittura  in un teatro in fiamme.
Stavolta, per ricamare sulla trama, sceglie il personaggio di  un singolare dentista, verboso e colto, che in realtà  lavora procacciandosi “carne per contanti” – sarebbe da intendersi un  cacciatore di taglie – ed a fianco gli mette uno schiavo “liberto” desideroso di apprendere un mestiere da sogno: quello di uccidere i bianchi ed esser pure pagato.
Nel ruolo del primo, il Dottor King Schulz, si cimenta l'ineccepibile Cristoph Waltz mentre per dare spessore e gloria al protagonista della pellicola Django “FreeMan” - occhio a non farlo arrabbiare, la “D” è muta e non si pronuncia - ecco l'attore Jamie Foxx.
Dopo aver raggranellato denaro durante l'inverno, accumulando cadaveri per i quali riscuotere compensi dallo stato, i due strani compari allo sciogliersi della neve tireranno dritto dal Tenessee fino al Mississipi, precisamente a Greenland, perchè nella tenuta del navigato negriero Calvin Candie (un Leonardo Di Caprio convincentemente cattivo) si trova Broomhilda (Kerry Washington), la moglie di Django.
All’arrivo ci sarà ad accoglierli un altro gustoso personaggio come quelli che solo Tarantino sa immaginare e poi modellare sul corpo ed il viso dei suoi attori: un negro impertinente e “stronzetto” che di nome fa Steven (il vecchio sodale di sempre, Samuel L.Jackson), che si rivolge al suo padrone Candie dandogli del tu in tono confidenziale: ma nonostante le apparenze solo uno comanda anche se quello che tiene il coltello dalla parte del manico non è scaltro abbastanza da capire velocemente l’aria che tira d’intorno.  
A Tarantino non interessa ricostruire la storia con la “S” maiuscola, nè quella che vedeva coinvolti Nazisti ed Ebrei,  tantomeno quella degli schiavi d’America: molto probabilmente nemmeno ambisce a reinventarla per davvero in una sua nuova dimensione verosimile, semmai potrebbe aspirare al massimo ad omaggiare coloro che hanno subito torti imperdonabili; di sicuro però brucia impaziente dal desiderio di soddisfare il suo ed il nostro palato, vuole saziare gli appetiti vellicando la pancia senza tralasciare di lusingare l’intelletto,  cercando di divertire e sorprendere confezionando cinema elegante  che non procuri accidiosi sbadigli, cosa che a dire il vero gli riesce davvero egregiamente.
“Django Unchained” è un fuoco di fila di due ore e quaranta che non conosce un attimo di noia, dove possiamo  divagarci ad esempio, con momenti di humor demenziale e denigratorio prima che un nutrito branco di beceri razzisti con dei “sacchetti bianchi” in testa parta per una missione punitiva al ritmo della “Carmina Burana” di Carl Orff e l’attimo dopo, in soli due minuti d’orologio, sentire riassumere la storia di “Sigfrido e il Drago”, parole epiche che, per lo spazio di un attimo,  spolverano di un’aura mitologica la  missione “estrema e romantica” che vedrà  Django partire per salvare la sua Broomhilda.
Nota a margine: l’eroe è un ex-schiavo negro che monta un cavallo e questo già è di per se stupefacente per il Sud America del 1858; figuriamoci poi le risate se questi come primo vestito da “uomo libero” va a scegliersi un completo da damerino blu fluorescente con fiocchetti bianchi penzolanti e lo ostenta tra la gente che lo osserva stupefatta e divertita.
Ride poco invece Shelton Jackson Lee - al secolo “Spike” – che  in Patria si è parecchio lagnato che la storia dei suoi avi sia stata così maltrattata ma,  per quanto risulti comprensibile che la sua sensibilità sia stata urtata dalla troppa libertà con cui il tema è stato trattato, forse il vero problema risiede nel fatto che il celebre ed ottimo regista afroamericano non disponga anzitutto di uno spiccato “sense of humour” e che poi non abbia  nemmeno lontanamente idea di cosa sia  uno “spaghetti western”.
Perché “Django Unchained” è principalmente una scorreria cinematografica di gran classe, un’avventura a più dimensioni che galoppa in grande libertà, un “divertissement” impetuoso che strizza l’occhio all’eccellenza e vorrebbe farsi capolavoro, una maniera strafottente e virtuosissima di fare cinema d’autore ed i piu’ curiosi potranno, qualora volessero, dare un’occhiata anche ad oriente al grande Takashi Miike ed al suo “Sukiyaki Western Django” del 2007, altro omaggio di simile fatta ma in salsa giapponese, tra l’altro con Tarantino nelle vesti di narratore.
L’ultima mezz’ora sono schizzi di sangue sulle pareti, canne di fucile e pistole fumanti e ad un certo punto, tra tante pallottole e teste bucate, si affaccia per una comparsata anche  “il Regista”; ma a quel punto il film ha già dato tutto  e non rimane altro che ammirare un finale ricco ed effervescente quanto per altri versi docile e scontato.
Questo è, ancora una volta – ed assai meglio di altre – Quentin Tarantino, un grandissimo, generoso e spericolato professionista, dal quale non si puo’ pretender nulla ed è lecito aspettarsi di tutto; già me lo immagino tra qualche anno o tra pochi mesi nell’atto di regalarci “Il capolavoro della sua vita” mentre lascia  basiti i giornalisti in  conferenza stampa: “Ve l’avevo detto ragazzi che da uno che GIOCA al grande cinema come me dovevate aspettarvelo, prima o poi!”

FRANKENWEENIE di Tim Burton


Il mondo cinematografico di Tim Burton è straordinariamente ricco e “Frankenweenie” arriva - anzi ritorna - a dimostrarci che lo è sempre stato, fin dagli albori.
Difatti, il giovane Burton appena ventiseienne presentò nel 1984 un cortometraggio con lo stesso titolo e grosso modo eguale sceneggiatura del film oggi uscito nelle sale – girato all’epoca con attori in carne ed ossa – non ottenendo però dalla Disney, per la quale allora lavorava, la dovuta attenzione ed il meritato riconoscimento; nonostante questo si procaccio’  una nomination agli Oscar, poi un divieto ai minori di quattordici anni ed a seguire uno scarso successo di pubblico.
Altri tempi: dovevano ancora irrompere sulla scena e fare scuola molti stili diversi, differenti tecniche, modi di raccontare e fare cinema  e certamente, tra le ragioni di quanto accadde, va considerato quanto certi ambienti di riferimento fossero in maggioranza conservatori ed abbarbicati alle proprie sicurezze, poco globalizzati e refrattari al nuovo.
Oggi la storia chiude in qualche modo il suo cerchio e l’ultimo lavoro di Burton è prodotto proprio dalla Disney – una sorta di silenziosa rivincita del regista di Burbank, visto che il colosso Hollywoodiano all’epoca nientedimeno poi lo licenziò – ed approda nelle sale a portare nuove emozioni con una originale e divertente stop motion.
“Frankenweenie” - contrazione-fusione di “Franken(stein)” e ”Weenie”, che significa “sfigato” - è funereo e solare come solo le pellicole di Tim Burton possono e sanno essere.
Come al solito però non si tratta solo di restare ammirati dalle immancabili geniali trovate e dalle loro “traslazioni” visive come il cimitero degli animali domestici, il gatto che fa escrementi premonitori (“Mr.Baffino”) o il redivivo cane Sparky che perde i pezzi e sfoggia, come niente fosse, una toppa cucitagli sul corpo in mezzo alle tante cicatrici; c’è molto di più in questo racconto: ad  esempio diversi messaggi importanti rivolti ai “bambini che diventeranno adulti e che solo gli adulti che sono rimasti un po’ bambini” possono comprendere appieno e che, soprattutto nella parte centrale, il film  esplicita con estrema chiarezza.
Il Prof.Rzykruski (una sorta di “disegno/omaggio” a Vincent Price) è senza dubbio “l’antenna” dalla quale il film irradia la sua anima saggia, quello che si preoccupa di farci sapere ad esempio che la scienza non è ne buona né cattiva - nonostante possa essere usata in entrambe le maniere - e che bisogna fare attenzione, perchè  esistono pure “variabili del cuore” delle quali dover tenere conto.
La città ed i suoi abitanti gli sono ovviamente ostili – il sindaco lo etichetta come “Signor Minaccia” – perché temono che possa fare quello che promette, ovvero tentare di
“ingigantire le teste” dei loro figli e far crescere troppo il loro cervello: è noto che a volte il sapere in eccedenza puo’ diventare un problema.
Come spesso accade nell’universo Burtoniano ci sono elementi di morte ed immancabilmente di diversità: stavolta è tutto il mondo dei più piccoli che osserviamo disagiatamente al margine,  vittima di un malessere apatico e sotterraneo, con l'eccezione di qualche coetaneo  che non pensa a niente altro che a vincere – una competizione scientifica che genererà altissimi fattori di rischio – ed intorno  molti adulti che talvolta, come sapranno riconoscere poi, nemmeno sanno di cosa parlano, capaci solo di fare facili promesse perché le sanno già impossibili da realizzare, come ad esempio quella di riportare in vita un cane morto.
Un piccolo spazio molto interessante viene dedicato al personaggio della nipote del sindaco, bambina indesiderata ma offerta al pubblico in “adorabile esposizione” nella scena in cui canta  triste e sconsolata: il suo nome, Helsa Van Helsing,  è l’ennesima citazione  di un mondo da sempre fieramente blandito ed omaggiato da Burton. 
Poi, a ridosso dell’epilogo,  una tartaruga diverrà grande quanto Godzilla ed alcune scimmiette di mare semineranno il panico in città fino a che non verranno fermate con “pop corn molto salati” e così, grazie ad  un intermezzo vivace tra fiamme, pericoli e mostriciattoli, ecco che si sterza bruscamente dalla linea  riflessiva e profonda seguita fino a quel momento verso una piu’ leggera e divertente,  impedendo forse al film di  tirar dritto verso il capolavoro di genere, collocandosi al pari di “Nightmare before Christmas” o “La sposa cadavere”.
Se dietro questa “variazione di tono”  sia ipotizzabile un qualche compromesso, tra produzione ed autore, per rendere meno spigoloso e tetro un film destinato (anche) ad una platea mondiale di piccoli spettatori, non è concesso sapere.
Trattasi però  di un problema di poco conto nel momento in cui possiamo fregarci le mani di fronte al ritorno di un cineasta che si ripropone alla nostra attenzione   maturo come non mai ed equipaggiato al massimo del corredo della  sua fantasia, che mai abbisogna  di fulmini o scariche elettriche per sprizzare scintille.
Tim Burton è ancora lui ed anzi, se qualcuno vorrà cimentarsi nel confrontare i due “Frankenweenie” noterà  bene che lo è sempre stato: magnificamente emancipato e fedele a se stesso, geniale e senza  freni, fin dai primissimi  giorni. 

JACK REACHER - LA PROVA DECISIVA di Christopher McQuarrie


Pittsburgh: sulla riva del fiume giacciono cinque vittime uccise dai sei colpi di un cecchino: già dopo una prima occhiata la  scena del crimine, in quanto ad indizi, sembra una miniera d'oro (anche troppo!)
Presto, inchiodato dalle prove è James Barr, un ex militare addetto alla sorveglianza dei civili a Baghdad che per anni si è allenato con duemila pallottole al giorno; a difendere la sua causa l'avvocato Helen Rodin (Rosamund Pike), figlia del procuratore distrettuale (Richard Jenkins) ma – ovviamente - per risolvere il caso i due non basteranno ed ecco che, chiamato in causa dallo stesso Barr che ne fece la conoscenza durante lo svolgimento del suo servizio, si materializza dal nulla  Jack Reacher (Tom Cruise).
Reacher è un solitario “fac-totum” con una sua idea della giustizia che non tiene troppo conto dei limiti della legge: non ha la patente ma guida, non usa la penna ma ha una memoria di ferro, non fuma e sa bene come rendersi irreperibile. Non farsi trovare è cominciato come un esercizio ed ora è una dipendenza! Le donne non le trascina nel suo letto: da loro al massimo si fa scarrozzare in giro con l'auto e se capita le esorta a non farsi sfruttare troppo dagli uomini.
Ma nell’indagine i  conti non tornano e  ci si accorge presto che dietro la strage si celano interessi molto più grandi di quel che si poteva immaginare.
Christopher McQuarrie - già sceneggiatore da premio oscar con “I Soliti Sospetti” di Brian Singer – sa bene cosa vuole dire “azione e divertimento” ed assieme a Tom Cruise, ringalluzzito e muscoloso protagonista che ci mette anche il denaro per produrre la pellicola, si adopera per portare sullo schermo il libro di Lee Child “La prova decisiva”.
Ne viene fuori un film brillante, che dichiara fin dall’inizio di non voler sottostare al  giogo di una ferrea credibilità e chiede quindi  licenza di incendiare le polveri, munifico di tutti i “clichè di genere” ma intelligente nel farne uso: dunque largo alle auto crivellate di colpi ed ai combattimenti  a mani nude, agli inseguimenti nelle strade buie della città  con decine di auto della polizia e le loro sirene ululanti (stavolta però occhio all'autobus che passa!...); poi una irrinunciabile galleria contromano ed ovviamente quel pizzico di humor che non guasta mai.
Se c'è l'eroe pronto a tutto – non necessariamente senza macchia ma di certo molto scaltro – non puo' mancare l'uomo nero ed ecco pronto per l'occasione “The Zec”, il lussuoso cameo affidato a Werner Herzog, un uomo che considera le prigioni Americane una “casa di riposo”: in passato per sopravvivere non ha esitato a mangiarsi le dita prima che sviluppassero una cancrena e in un occhio conserva il brillante luccichio azzurro del ghiaccio siberiano.
Herzog, assieme a Robert Duvall (Cash, il proprietario del poligono di tiro) impreziosisce parecchio il parco attori, dove pur senza demeritare si accusa ogni tanto qualche stanchezza: Rosamund Pike ad esempio sgrana gli occhi come bocce da biliardo a  piè sospinto - anche se alla fine ne avrà ben donde - e potrebbe provocare nello spettatore un leggero effetto urticante.
Non ci si astiene dall'usare alcune classiche espressioni come “Vengo a prenderti!” e  l'immancabile “Figlio di puttana!”, ovviamente pronunciato con una qualche sarcastica raucedine a seguire.
Così, aggiungendo al cocktail qualche altro ingrediente come un duello veloce a colpi di telefono, vetri infranti e un intermezzo comico con  mazze da baseball e poi qualche pallottola sibilante tra la fitta pioggia battente, senza troppi cali di tensione e nemmeno un briciolo di noia si arriva al gran finale.
Tutto è fatto a regola d'arte  e,  anche se la musica l'abbiamo già sentita, l'orchestra suona molto bene: per gli amanti del genere recarsi al concerto potrebbe valere la pena.
Sappiatelo, Jack Reacher ha tempo per tutto:  sgomina le bande criminali e scopre le mele marce, nel mentre mantiene le promesse  e  soddisfa solerte ogni  vostra aspettativa.

martedì 15 gennaio 2013

THE MASTER di Paul Thomas Anderson


Freddie Quell (Joaquin Phoenix) torna a casa terribilmente scosso nel sistema nervoso dopo la sua esperienza in marina militare durante la Seconda Guerra mondiale.

Le sue ferite psicologiche ora sbattono contro il muro del test diRorschach”, ultimo certificatore del fatto che la Patria non ha molto da offrire ai suoi soldati che tornano all'ovile dopo aver patito le pene di un terribile inferno.

Insicurezza, isolamento e vagheggiamenti a sfondo sessuale abitano la sua mente ed egli  cerca invano di anestetizzarli con misture alcoliche terribili, persino a base di solventi per vernici, vere e proprie pozioni che si prepara in maniera estemporanea - così come gli suggerisce la sua traballante psiche - e che finiranno per creargli ulteriori e gravi problemi, provocando danni non solo alla sua incolumità fisica.

Una sera, barcollando lungo il molo salirà su un barcone li ormeggiato ed incontrerà l'intrigante Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), una specie di stranosantone misticodai modi molto confidenziali e con un potere di fascinazione al quale Freddie, annientato dal suo presente disorientato e solitario, sarà incapace di resistere.

Da li in avanti i due divideranno assieme il cammino assieme alla moglie di Dodd, l'ambigua ed onnipresente Peggy (Amy Adams), divenendo quasi inseparabili: la strada che percorreranno aprirà il suo orizzonte verso incontri ogni giorno più inaspettati ed insoliti come ad esperienze fuori dell'ordinario.

Paul Thomas Anderson, pur senza dichiararlo apertamente, ispira il suo racconto alle vicende di  Ron Hubbard - lo scrittore di  Dianetics  e fondatore  di “Scientology” - ma non si ferma davvero a scoperchiare le magagne relative alle tecniche per irretire le persone o raggirarle per ottenerne denaro e vantaggi.

Grazie all'apporto di due attori straordinari come loro solito ma stavolta in vero stato di graziatanto Phoenix con il suo ghigno e la sua sghimbescia postura che Seymour Hoffman capace di conferire un magnetismo che sa di reale al suo ipnotico personaggiosi inoltra ad osservare l'ennesimo versante dellasuaAmerica, cogliendone infiniti particolari evecchi/nuoviaspettisiamo nel 1950 -  non tutti necessariamente legati alle tematiche della storia raccontata.

The Masterè difatti un film seducente che ad ogni passo rischia di farci perder l'orientamento, lineare ma anche assai spigoloso perchè poco compiacente nell'offrirsi ad una lettura univoca, niente affatto desideroso di rispondere con semplicità alle domande che inevitabilmente finisce per consegnare numerose allo spettatore ed anche  per queste sue caratteristiche si pone decisamente su un piano di eccellenza.

Inoltre, P.T. Anderson (anche sceneggiatore) disegna dei ruoli perfettamente assortiti per i due protagonisti principali: difatti, al fianco di un uomo smisurato arrivista, millantatore o chissà, addirittura realmente convinto di poter curare i mali (leucemie, pazzia e non solo) dei proseliti che si consegnano alle sue strane cure eprocedure” - parliamo per l'appunto della figura ispirata ad Hubbardecco che pone una altro interessante personaggio, ovvero il reduce Quell/Phoenix.

Freddie, con i suoi comportamenti folli e disarticolati, riesce a regalarci momenti di aspra ed umana tenerezza ed al tempo stesso ad esser una singolare cartina al tornasole per una lettura introspettiva di quanto accade davanti ai nostri occhi, arrivando persino a ribaltare molte ipotesi e convinzioni.

CosìThe Masterapre il recinto della sua narrazione per abbracciare molto più di quanto ci si aspetti: non solo potere e denaro, la fragilità della mente ed i suoi rifugi, ricatti psicologici ed imbrogli di varia caratura ma anche tutti gli invisibili ed inaspettati intrecci che scaturiscono dai rapporti umani e dalle loro storie, puntando la luce ad esempio sugli assillanti bisogni d'affetto e stima o le equivoche ricerche di riconoscimento e approvazione. 

Pacificamente granitico, il film di Anderson è come un veliero che senza paura e con suadente tranquillità solca il mare: accompagnato da un tempo di apparente bonaccia, che dietro il visibile del suo sereno nasconde fulmini e tempesta, fila presto via lontano mille miglia dalla navigazione di cabotaggio per inoltrarsi nell'oceano aperto e sconfinato, forse a dispetto persino di quanto non voglia il timone fermo e deciso del  suo capitano/regista.

Perchè questo è cinema che puo' approdare in ogni porto e guardare ad ogni dove, raggiungendo, senza sforzo, terre inarrivabili e  senza latitudine.