VISITATORI

giovedì 20 febbraio 2014

EFFEMMECINEMA diventa "CINESHO(R)TSbyEFFEMME"


EFFEMMECINEMA continua altrove...

In una nuova veste "ma non troppo",
per poter continuare a condividere assieme "emozioni e parole" di Cinema.

Avevo bisogno di recuperare del tempo per "altre cose"...Dunque "COLPI" precisi e più "CORTI", d'ora in poi...

"CINESHO(r)TSbyEFFEMME"
        
cliccate su:

martedì 11 febbraio 2014

SMETTO QUANDO VOGLIO di Sidney Sibilia


Resuscitare la commedia all’italiana, da diversi anni a questa parte sembra esser diventata una sorta di “emergenza nazionale di minoranza”: i tentativi di soccorso si sono succeduti con vario impeto ma quasi mai sono arrivati a buon fine.

Ci prova stavolta l’esordiente Sidney Sibilia con il suo “Smetto quando voglio”: in produzione Matteo Rovere assieme alla “Fandango” di Domenico Procacci.

Nel paese dei “cervelli in fuga” – la nostra Italia, per l’appunto - c’è ancora chi decide di rimanere: attenzione però, perchè qualcuno tra questi – colpito dallo sconforto interiore e dalle ristrettezze economiche - potrebbe cominciare a prodigarsi in mansioni non proprio consuete ed attività ai margini della legalità.

Nel film di Sibilia sette capaci laureati - con le ambizioni anestetizzate e travolti dalle difficoltà quotidiane - anziché metter a frutto il loro ingegno nel campo di propria competenza sono ridotti a barcamenarsi come qualsiasi disperato del nuovo millennio “senza arte né parte”.

Due latinisti (Mattia/Valerio Aprea e Giorgio/Lorenzo Lavia, figlio di Gabriele), si arrabattano a lavorar di notte presso una pompa di benzina, pagati a nero dal principale Cingalese; un antropologo (Andrea/Pietro Sermonti) tenta di riciclarsi presso uno “sfasciacarrozze”, arrivando persino a dichiararsi “pentito” dei suoi studi giovanili; un archeologo classico (Arturo/Paolo Calabresi) gira con il furgone del Ministero (che si rivelerà assai utile in seguito…) e sorveglia in cantiere i suoi operai, troppo impetuosi con il martello pneumatico; un laureato in economia (Bartolomeo/Libero De Rienzo), convinto che a poker si possano contare le carte si diletta a giocare – a corto di contante – sfidando pericolosamente la pazienza di burberi energumeni “sinti-circensi” mentre un chimico geniale (Alberto/Stefano Fresi) è costretto nella cucina di un ristorante cinese, sognando di scalare un giorno da lavapiatti a cameriere, per poter ambire finalmente ad un salario da settecento euro al mese!

Completa il quadro un brillante neurobiologo (Pietro Zinni/Edoardo Leo), autore di un algoritmo rivoluzionario verso il quale però non sembra esserci grande interesse da parte delle istituzioni che assegnano riconoscimenti e fondi, cosìcchè a lui ed alla sua compagna (Giulia/Valeria Solarino) - che di mestiere fa l’assistente sociale e si occupa del recupero dei tossicodipendenti - non rimane che pagare le rate dell’ascensore ed il sogno di una nuova lavastoviglie a far da propellente erotico.

Proprio al professor Zinni verrà l’intuizione fulminante di teorizzare una “particolare molecola” ottenendone una “droga spaziale e definitiva” che, velocemente, si trasformerà in denaro sonante. Raccoglierà attorno a se i suoi “colleghi” e li trasformerà in complici, assemblando una “estemporanea combriccola” che sedurrà in un batter d’occhi “tossici clienti” di diversa estrazione sociale.

Implicazioni morali a parte, tutto sembrerebbe finalmente veleggiare con il vento in poppa, anche perchè “il losco traffico” - dal momento che la formula del “prodotto” non è ancora stata catalogata negli elenchi del Ministero della Salute relativi alle nocive “smart drugs” – risulterebbe essere addirittura legale. Ma, nemmeno a dirlo, ben presto cominceranno i guai...

Come recita la locandina “meglio ricercati che ricercatori” e così ecco che questi giovani che sanno “solo studiare” mettono a punto (ovvero “studiano”) un piano per riprendersi la “dignità scientifica” che gli spetta, assieme al giusto corrispettivo economico.

Questa banda di “Dottori alla canna del gas” che si trasforma in un “gruppo di compravendita” di sostanze psicotrope richiama subito alla mente film come “I soliti ignoti” o “La banda degli onesti” oppure, nella moderna fluidità dello stile, il più recente “Full Monthy”, paragoni pregevoli rispetto ai quali non c’è certamente intenzione di plagio ma al massimo un deferente omaggio.

Sidney Sibilia, classe ‘81, dal canto suo ha sperimentato sulla propria pelle quanto sia difficile sbarcare il lunario: infatti, prima di approdare dietro alla macchina da presa, ha lavorato a Londra presso un fast food, nei villaggi turistici ed infine nello studio di una agenzia pubblicitaria.

La genuinità del suo approccio, unita al lavoro professionale del cast ed alla buona cura della sceneggiatura (dello stesso Sibilia assieme ad Andrea Garello e Valerio Attanasio) ci regala un film fresco ed intraprendente, forse non sempre in grado di divertirci come vorrebbe o di mantenere il picco del suo potenziale.

Smetto quando voglio” è comunque una salutare ventata di comicità al netto di facili espedienti e volgarità, in grado di delineare con gusto e perspicacia il quadro inquietante della nostra disoccupazione giovanile ed il dramma delle risorse sprecate, utilizzando la giusta dose di ironia per cogliere più di un aspetto della tematica.

Manca il fuoriclasse “vero”, quello che sappia strappare risate all'unisono, quindi si lavora “in orchestra” e lo si fa egregiamente, raggiungendo probabilmente la vetta nel frangente della rapina in farmacia, fatta con “armi catalogate all’Hermitage”; divertenti anche i tentativi di “raccogliere prove empiriche” da parte del “chimico Alberto”, tra discoteche ed avances omosessuali sul divano, oppure l'accenno all’uso dei prefissi “Boliviani” come escamotages per evitare intercettazioni telefoniche. Sorprenderà infine scoprire quanto il pericoloso “Er Murena” (un improbabile e sfregiato malavitoso interpretato da Neri Marcorè) abbia in comune con i nostri “criminali/ricercatori” rispetto a quel che avevamo considerato!


Nonostante qualche prevedibilità di troppo e le risate a intermittenza “Smetto quando voglio” è da considerarsi un riuscitissimo lavoro artigianale, che traccia un solco semplice quanto coraggioso, da imitare e migliorare: dategli fiducia e fate un salto in sala, prima che i soliti “spacciatori di cine-cialtronerie” vi risucchino nuovamente cervello e sorrisi con la loro disgustosa “roba avariata”.

venerdì 7 febbraio 2014

A PROPOSITO DI DAVIS di Ethan e Joel Coen


Il nuovo film di Ethan e Joel Coen è una commedia ammaliante e malinconica.

Ambientato a New York, nel Greenwich Village degli anni '60 – che avrebbe visto l'inizio della carriera di talenti del calibro di Bob Dylan - la pellicola prende spunto dalla figura del cantante Dave Van Ronk (1936-2002), che ispira anche il titolo originale “Inside Llewyn Davis”, ricalcante quello di un album del 1964 “Inside Dave Van Ronk”.

Ma il film dei due fratelli Statunitensi non è una biografia, vive di vita propria e sembra essere una sorta di prosecuzione del precedente “A Serious Man”, stavolta in chiave folk e senza echi religiosi.

Llewyn Davis (Oscar Isaac) è un artista squattrinato e di talento. Nel freddo inverno NewYorkese gira per le strade con la chitarra in mano: per lui invece dei soldi delle “royalties” c'è un cappotto usato. Non ha un tetto sotto il quale riposare e Jean (Carey Mulligan) - la ragazza che talvolta lo ospita e che forse ha messo incinta - lo tratta con disprezzo e toni al vetriolo e lo paragona al “fratello idiota di Re Mida”, ovvero uno che quel che tocca non lo fa diventare precisamente oro ma piuttosto qualcosa di inutile e maleodorante.

Llewyn però, nonostante la fortuna sembri continuamente voltargli le spalle, proverà ad inseguire caparbiamente i suoi sogni e partirà per Chicago, viaggiando in auto assieme ad una strana compagnia: il cantante eroinomane ed ormai malfermo sulle gambe Roland Turner (interpretato da John Goodman, attore feticcio dei Coen) ed il suo “valletto” Johnny Five (Garret Hedlund).

In un “club” deserto terrà un'audizione di fronte a “Bud” Grossman (nomignolo di Albert Bernard Grossman, interpretato da F.Murray Abraham), manager musicale della scena folk e rock di quegli anni, realmente esistito e noto per aver avuto tra i suoi “clienti” anche Bob Dylan e Janes Joplin.

Tra i tavolini del locale Llewyn canterà la struggente ballata “The death of Queen Jane”, al termine della quale il commento lapidario di Grossman sarà purtroppo un poco incoraggiante “Qui non ci vedo soldi!”

A proposito di Davis” è un film dalle atmosfere dense ed ai limiti con l'assurdo, dove incontriamo strani “protagonisti” (gatti, uomini, cani) e percorriamo molta strada, tra asfalto e metafora, buio e fiocchi di neve.

Una fusione che possa dirsi riuscita tra musica e racconto è davvero rara ma, questa struggente storia di un uomo che si dibatte tra le onde della vita inseguendo i suoi sogni sembra davvero coronare questa alchimia.

La fotografia di Bruno Delbonnel regala magnifici colori lattiginosi che sembrano far respirare ogni istante di vita faticosa ed affannata, così come irradia calore per pochi secondi il primo piano di una puntina di giradischi che corre circolare  lungo  il nero del vinile.

Dell'autobiografia di Van Ronk “Manhattan Folk Story”(Edizioni BUR) – fonte ispiratrice del film - ipotizziamo possano esser rimasti i riferimenti al reale, le luci ed il fumo dei locali; le sue canzoni (come la splendida “Hang me, oh hang me” cantata dallo stesso Oscar Isaac), qualche aneddoto riveduto e corretto, i sentimenti forti come il coraggio di andare avanti contro ogni avversità e lo sconforto di esser continuamente respinti dalla vita ma, quel che più di tutto seduce, è il carismatico ed inconfondibile tocco dei Coen.

Decisamente distante dal soltanto gradevole esercizio di stile dell'ultimo “Il Grinta”, come dicevamo in apertura “A proposito di Davis” è molto più vicino alle bislacche peripezie del professore di fisica Larry Gopnik, protagonista del loro lavoro precedente.

Anche stavolta aleggiano instancabilmente messaggi che paiono essere inafferrabili e la storia è pervasa da un fascino misterioso. Ogni mestizia e sfortuna lasciano decantare una successiva indicazione, ogni cosa, dopo un lungo girovagare, sembrerà trovare quiete e collocarsi al suo giusto posto.


Parrà nulla di significante o roba già vista, raccontata e sentita in altre forme centinaia di volte: esattamente come una canzone folk che “che non è mai stata nuova ma nemmeno invecchia” oppure - come più di una volta capita – l'ennesimo splendido lungometraggio di Ethan e Joel Coen.

sabato 1 febbraio 2014

THE WOLF OF WALL STREET di Martin Scorsese


Martin Scorsese e Leonardo di Caprio tornano a far coppia al cinema con una commedia dai toni “survoltati” e dal retrogusto velenoso sugli eccessi attorno al mondo della finanza, ponendo l'attenzione su “alcuni” dei suoi incontrollabili effetti collaterali.

La pellicola si ispira alla vicenda reale di Jordan Belfort, uno spregiudicato uomo d’affari la cui ascesa e rovina fu tra gli anni ’80 e ’90 ed autore del romanzo “The wolf of Wall Street”, da cui il film prende il titolo.

Di Caprio presta il volto a Belfort e passa una buona parte del film spiegando cosa si deve fare per sopravvivere in un mondo di squali e diventare veri cantori del “Vangelo del denaro”, guardando qualche volta anche in camera e così rivolgendosi direttamente a noi spettatori.

Sembrerebbero esservi ricette e soprattutto ingredienti imprescindibili: anzitutto droghe, niente affatto in modica quantità ma al contrario assunte con costante abbondanza e varietà. Nulla parrebbe però in grado di aumentare a dismisura il tasso di adrenalina come l’accumulazione forsennata ed ininterrotta di mazzette di dollari fruscianti.

Il processo è “circolare” (ed a suo modo virtuoso!), ovvero ci si droga per spacciare subito dopo “altra droga” ai clienti. Per questi però niente eroina, cocaina o altre sostanze simili bensì letali “Penny Stock”, al cinquanta per cento di provvigione ma solo per chi vende! Bisogna sbolognare in fretta migliaia di titoli senza garanzia - o “immondizia pura” - al fine di portare a casa cospicue commissioni.

Un “mare di banconote” – scontato dirlo - è l’elemento naturale dove amano nuotare donne discinte, appariscenti e disponibili e ben presto nella pellicola di Scorsese si moltiplicano le situazioni bollenti. In breve tutto diviene straripante e sconfina nel grottesco, con facilità si oltrepassa ogni limite. “Sodoma e Gomorra” oppure gli States? Impossibile distinguere!

The wolf of Wall Street” per lunghissimi tratti è uno scatenato festival degli eccessi: gli avvenimenti si susseguono come i kilometri in una folle gara automobilistica, dove il percorso è ricco di curve iperboliche e ad ogni passaggio si rischia seriamente di finire fuori strada. Però, una volta superato l’ostacolo, ecco che la spasmodica corsa riprende ancor più all’impazzata, con gran rombo di motori e mai nessuno che si sogni di pigiare sul freno.

La degenerazione diviene abitudine e la ricchezza ipertrofica il minimo da pretendere: week-end da due milioni di dollari, avvocati da settecento bigliettoni l’ora, pacchetti quotidiani di incassi da cinquantamila per ogni prestanome e, per foraggiare tutto questo, c'è bisogno di infinite telefonate per vendere azioni su azioni, da ficcare giù per la gola ai clienti, finchè non si strozzano!

Intanto Belfort verrà colto dalla moglie Teresa “con le mani dentro la marmellata” o sarebbe meglio dire tra i biondi capelli di una donna! Sul momento, annichilito, non fiaterà nemmeno una parola: il cervello invaso da un ronzare di pensieri del tipo “Cosa ho fatto, mi dispiace, sono un verme!” Nemmeno tre giorni dopo arriverà il divorzio ed a seguire un nuovo matrimonio con la procace Naomi (Margot Robbie): uno scafo lungo cinquantadue metri con il suo nome a prua sarà lo spropositato regalo di nozze!

Guasterà la festa il solito “pedante” agente dell’ F.B.I. (Kyle Chandler), che una mattina si presenterà a bordo dell'enorme natante – simile a quello del “cattivo di 007” - con ogni probabilità ancora sudaticcio per aver viaggiato nella metropolitana affollata e magari con indosso lo stesso vestito dei tre giorni precedenti!

Un mondo di perdizione, dissennatezza e con bassissimo tasso di scrupoli: questo è quello che Scorsese e Di Caprio provano a mettere a nudo con frenetica ironia. Nessuna parvenza di onestà e di morale sembrano avere residenza.

The wolf of Wall Street” non è una pellicola che voglia perdersi in tecnicismi e profondi ragionamenti: lo scopo principale sembra esser quello di spiattellarci addosso un quadro debordante di elementi, una bulimia di continue follie di fronte alla quale esultare ingolositi oppure arrivare a provare un ripugnante ribrezzo.

Gli “Strattoniani” - da “Stratton Oakmont”, il nome della società di brokeraggio fondata da Belfort - sono una setta, forse una “razza a parte”, che vede il mondo esclusivamente dal versante del guadagno infinito; tutta gente che ripudia la sobrietà (in ogni senso!....) e la considera come qualcosa di estremamente noioso.

Tutto sembra assurdo e distante rispetto alle nostre piccole ed ordinarie abitudini: ma c’è davvero qualcuno che vorrebbe vivere per sempre in un mondo normale?

La regia navigata di Scorsese descrive una sorta di incontenibile “babele” dando ampio sfogo ad un plateale gusto del divertimento. Molte le situazioni esilaranti: su tutte quella con Di Caprio che striscia verso la sua Lamborghini bianca sopraffatto da un “Quaalud d’annata” (Un “Lemmon 714”); poi, una volta a casa, per soccorrere il suo collega d’affari (Donnie Azoff/Jonah Hill) – che “strafatto” rischia di strozzarsi - si verserà copiosamente cocaina direttamente nella narice, convinto forse di ottenere il medesimo effetto energizzante di Braccio di Ferro che, dallo schermo della televisione, sembra osservarlo attonito, ingurgitando spinaci.

Belfort/Di Caprio per tre ore freme e si agita come posseduto da un demoniaco bisogno di guadagnare: esorta, arringa, digrigna i denti e svezza il branco di lupi che ha accolto nella sua tana e alla fine sarà l’istinto che li farà mangiare l’un con l’altro.

The wolf of Wall Street” evita per scelta “la trappola” di render conto del più ampio quadro generale degli eventi: decontestualizza, tralascia di entrare nel dettaglio dei devastanti effetti economici a catena, sia negli Stati Uniti che nel mondo. Non è della “crisi” di ieri né di quella di oggi che si vuole parlare, nessuna notizia ci viene fornita sugli investitori truffati e sulle loro disgrazie, nessun particolare sulle leggi o sulle situazioni auspicabili per porre un argine reale ad un disastroso modo di agire e fare affari, sulla pelle di migliaia di malcapitati.

Il regista NewYorkese ha in mente di fare principalmente “divertimento d’autore” ma anche di andare “visivamente dritto al sodo”, sferrandoci un “diretto” nello stomaco, portando oltre la nostra già fervida immaginazione, più verosimilmente cercando di provocare sconcerto e (forse) disgusto mentre - beninteso! – ci “depista” facendoci sbellicare dal ridere.


Quel che “dipinge” è niente altro che l’inferno eppure sembra proprio il paradiso! Se dovesse piacervi, lanciatevi pure alla sua conquista: basta “prendere e truffare”!

giovedì 30 gennaio 2014

DALLAS BUYERS CLUB di Jean-Marc Valleè


Ron Woodroof (Matthew McConaughey) è un elettricista che vive le sue giornate affaccendato tra rodei e scommesse, cercando di far cadere le donne nel suo letto ed ingurgitando droghe, assieme a generose sorsate di alcool.

Poi un bel giorno crolla in terra e i medici dell'ospedale gli dicono che, per esser ancora vivo, il numero dei suoi linfociti è sorprendentemente poco nutrito, che ha contratto il virus dell' “H.I.V.” ed ha “trenta giorni al massimo per sistemare le sue cose”.

E' il 1985 e le cure ufficiali a disposizione sono poco più che un placebo; in alternativa è possibile sottoporsi a sperimentazioni rischiose (se non addirittura dannose, come quella con l’antivirale’ “AZT”).

Ron però è quel tipo di uomo che ritiene sia meglio “morire con gli stivali” addosso piuttosto che andarsene un po' alla volta, attaccato ad una flebo di morfina; così comincia ad erodere velocemente il terreno della sua scarsa conoscenza e con grande ingegno e forza d'animo lotta per guadagnarsi anni “supplementari” di vita (vivrà fino al settembre del 1992), trovando il modo di procacciarsi per proprio conto delle medicine in grado di garantirgli la sopravvivenza e cure efficaci.

Dallas Buyers Club” di Jean-Marc Vallèe è tratto da una storia vera ed ha come protagonista un Matthew McConaughey talmente innamorato e “devoto” alla sceneggiatura (di Craig Borten e Melisa Wallack) da essersi sottoposto per mesi ad una dieta ferrea, dimagrendo oltre venti chili per divenire estremamente credibile nel suo ruolo.

La gestazione del film non è stata esente da grandi difficoltà: prima di trovare qualcuno disposto a metter a disposizione i cinque milioni di dollari necessari a produrre la pellicola si sono succeduti oltre un centinaio di rifiuti, dovuti forse alla scomodità della tematica, che racconta gli inizi del dilagare dell’ A.I.D.S. come “paura di massa” (il 1985 è l’anno in cui morì Rock Hudson) ed i loschi interessi delle case farmaceutiche connessi all'estendersi del virus.

L' “angelo salvatore” di Woodroof vive in messico e veste i panni di un medico radiato dall'albo tre anni prima. Contemporaneamente negli U.S.A., a far da sfondo alla storia, vediamo prodursi in un “balletto mortale” - sulla pelle di pazienti valutati “diecimila dollari l'anno” - la “Food and Drug Administration” e le grandi aziende in competizione nell'accaparrarsi i profitti derivanti dall' enorme “business della cura”.

Viaggiando tra Giappone ed Israele, dalla Cina ad Amsterdam e seguendo l'esempio di altri che l'hanno preceduto in Florida ed a New York, Ron metterà in piedi, tra varie difficoltà, un “club di compratori” (cittadini-malati si iscrivono e diventano soci, conseguendo il diritto a ricevere un kit di farmaci pro-capite)

Diventerà di fatto uno “spacciatore illegale di medicine”, ovvero guadagnerà denaro salvando al tempo stesso vite umane – numerosi saranno coloro che verificheranno l'efficacia delle cure – muovendosi al limitare di una legge commista a troppi interessi, semplicemente priva di buon senso o del più elementare rispetto verso i suoi cittadini.

Assieme a Rayon (Jared Leto), un travestito conosciuto in ospedale, Ron supererà di gran lunga la soglia dei “trenta giorni” (ed anche gran parte dei suoi pregiudizi omofobi da bullo maschilista) e riuscirà ancora una volta a cavalcare un toro, a bere una birra o portare una donna a cena davanti ad un buon bicchiere di vino, conquistando preziosi scampoli di vita e felicità che sembravano essergli preclusi per sempre.

Dallas Buyers Club ha una sua forza viva anzitutto nella prova di Ron e Rayon, i suoi emaciati e consunti protagonisti , che sprizzano piccole scintille di buon cinema fin dal loro incontro tra i letti dell'ospedale.

Con buon senso d'equilibrio Vallèe riesce a tenere a bada gli eccessi del prorompente e rinato McConaughey (una vera e propria seconda carriera dopo il “Killer Joe” di Friedkin) ed anche a non enfatizzare troppo la parte del racconto che riguarda i grandi interessi di denaro, puntando più sulle sfumature umane che non sulle invettive accusatorie, politiche ed economiche.

Poggiando molto sulla figura di un “santo e truffatore” come quella di Woodroof - e senza tentare di volerne smussare i lati meno edificanti - il risultato finale risulta “sporco” al punto giusto e privo di “facili lacrime” e sdolcinature.

Dallas Buyers Club” è un film che usa il cinema anche come veicolo d'informazione e di denuncia, ponendo efficacemente l’accento su come, irresponsabilmente, “piccoli e grandi avvoltoi” di varia stazza releghino in secondo piano la vita delle persone al fine di raggiungere i propri interessi.

Valleè non disdegna di regalarci una “carezza” in mezzo a tanta spregiudicatezza e sofferenza: occupa lo spazio di appena pochi secondi ma è piacevolmente evocativa un'immagine che vede stringere il campo su McConaughey, esitante nella penombra di luci artificiali e soffuse, mentre annusa la vita ed è circondato dal battito d'ali di mille farfalle.

domenica 26 gennaio 2014

NEBRASKA di Alexander Payne


Woody Grant (Bruce Dern) è un anziano signore che vive a Billings, nel Montana, ed è convinto di aver vinto un milione di dollari: questo dopo aver ricevuto una di quelle lettere truffaldine - inviate a centinaia di migliaia di persone nel mondo - che, in caso di fortunata estrazione, promettono simili somme in “regalo” purchè venga sottoscritto un abbonamento ad una rivista, oppure acquistato qualche trattamento di bellezza.

Woody ha un passato da alcolista e non di rado tende ancora ad attaccarsi al collo della bottiglia.

Forse - data anche l’età - non è più troppo presente a se stesso; comunque ritiene di avere un premio da ritirare e che non ci si possa fidare delle poste per farselo recapitare. Prova dunque ad incamminarsi – addirittura a piedi - verso gli uffici che dovrebbero liquidargli la somma e che hanno sede a Lincoln nel Nebraska, distante diverse centinaia di miglia da casa sua.

Sua moglie Kate (June Squibb) va su tutte le furie e sbraita a gran voce mentre i due figli rimangono in un primo momento sconcertati: Ross (Bob Odenkinrk) sembra aver tempo ed attenzione solamente per la sua carriera televisiva e ritiene che forse sarebbe giunto il momento di valutare come soluzione un casa di riposo; invece Dave (Will Forte), si dimostra molto più comprensivo ed in cuor suo ritiene che tutto questo non sia nient’altro che l’ultimo escamotage di un vecchio - annoiato e vicino alla fine dei suoi giorni – impegnato a procacciarsi un buon motivo per vivere.

Difatti, quando il padre gli avanzerà la più elementare delle richieste (“portamici tu!”), Dave non ci penserà due volte ed accetterà di accompagnarlo a destinazione, cogliendo al volo l’occasione per passare un po’ di tempo assieme a lui.

Alexander Payne con “Nebraska” lascia affiorare le tematiche intimiste a lui care da sempre, proponendocele stavolta con un rigore formale differente o, “se preferite”, il migliore mai raggiunto, in virtù anche dell’ottimo lavoro di Phedon Papamichael alla fotografia , che illumina la sua storia con un bianco e nero affilato e risplendente.

I protagonisti sono persone normali che trasudano varia umanità, declinandola con ironia e colorite fioriture popolari. A completare un quadro di contagiosa e sfumata surrealtà ci sono vaghe note di noia, rimpianto e qualche punta di cattiveria.

La sceneggiatura di Phil Johnston e Bob Nelson si fa forte nei dialoghi scabri, essenziali e privi di ridondanza. Per il viaggio di padre e figlio è previsto dal soggetto un prolungato intervallo nella città di Hawthorne, durante il quale avrà luogo una singolare ed inaspettata riunione familiare che non terminerà precisamente con baci, abbracci ed arrivederci.

E’ laggiù, dove Woody è nato e cresciuto, che questi incontrerà persone che non vedeva da anni e riaffioreranno vecchie memorie ed ombre del suo passato, ridotto oggi in gran parte a niente altro che un mucchio di legna ed erbacce (e comunque, “quel che non si ricorda più oramai non ha importanza!”)

Payne - anch'egli originario del Nebraska e precisamente di Omaha - ha grande dimestichezza nel raccontare “inezie di grande rilievo”, con il massimo della semplicità.

Forte di una abilità rara nel dare concretezza visiva alla sua sensibilità, sottolinea ogni piccolo gesto e le diverse sfumature dei legami affettivi e, nella fattispecie, usa l’attitudine registica per rovistare tra le verità del tempo, nella vita che procede per “solitudini parallele” e tra vecchie case in rovina.

Nebraska” tenta di farci ascoltare il rumore fioco e leggiadro di tutte le piccole cose che rendono (o renderebbero) bella e felice la vita, che si tratti anche solamente di un compressore o di un furgone (usato); ci dice che “la luce” non brilla a nostro piacimento ma spesso solo nello spazio di fugaci “interiezioni”, momenti in apparenza irrilevanti e molte volte inaspettati: avrete certamente modo di notare – tra gli altri gustosi episodi - la passeggiata di Woody sul viale poco prima della fine o quando questi, in un locale gremito di persone, riceverà quasi per equivoco applausi fragorosi ed insolitamente inebrianti.

Payne ed il suo cast portano in dote al film una carica di ilarità che si dispiega in una sequela di piccoli scambi, di battute fulminanti e deliziose, che riescono a strapparci riflessioni e grasse risate persino tra le lapidi di un cimitero.


Esemplare sembra essere la compiutezza raggiunta nel cantare le sventure e le impercettibili fortune dei personaggi minori, quelle “piccole esistenze rivelatrici” che scolorano nella folla, motivo per cui “Nebraska” si propone tre le espressioni migliori di un cinema capace di trarre da dettagli infinitesimali dei significati universali, ripescandoli nella confusione informe e rumorosa del mondo, laddove vagano spesso inosservati senno e saggezza, scontenti e scoramenti, dolori soffocati ai quali dare voce.

giovedì 16 gennaio 2014

THE UNKNOWN KNOWN di Errol Morris


Per Donald Rumsfeld “l’unico modo per sapere è immaginare”!

Secondo il suo modo di pensare il motivo principale per il quale gli Stati Uniti subirono le devastanti perdite di “Perl Harbour” - durante il secondo conflitto mondiale - sarebbe da ricercarsi addirittura nella mancanza di immaginazione!

Ed è quindi chiaro, consequenzialmente, arrivare a comprendere come ci siano “cose che credi di sapere ed invece non conoscevi”, ovvero “The Unknown known”. Si tratterebbe di tutte quelle informazioni che ti eri immaginato come vere ed inoppugnabili ed invece con il tempo hanno mostrato la loro inconsistenza, forse le stesse che ti hanno fatto credere all’inevitabilità di un conflitto o di una guerra al punto da arrivare a scatenarla.

Probabilmente a suo modo questo personaggio è “candido ed onesto” e ci invita senza reticenze ad affacciarci al davanzale dal quale osserva il mondo con i suoi occhi; ci spiega quali, secondo lui, siano le coordinate imprescindibili per decifrare l’orizzonte.

Errol Morris, con il suo film documentario lo intervista non con lo scopo di metterlo all’angolo (impresa forse impossibile contro un marpione di tal fatta), semmai di farlo uscire allo scoperto, senza infastidirlo o incalzarlo troppo ma dandogli tutta la corda necessaria e, alla resa dei conti, l’ex Segretario della Difesa Americana, non si fa certamente pregare troppo.

Partendo dai suoi “snowflakes” (i “fiocchi di neve”, ovvero migliaia o forse milioni di promemoria scritti dallo stesso Rumsfeld) il regista costruisce un lungo film/intervista.

Chi si aspetta fendenti e colpi bassi rimarrà deluso: la tattica è quella di cercare di evidenziare i punti deboli e le contraddizioni senza sfociare in vero e proprio atto d’accusa, ad esempio sottolineando la manipolazione nell’uso dei vocaboli e nel travisamento del loro significato allo scopo di “giustificare l’ingiustificabile”, come se poi si potessero coprire gli “errori o gli orrori” - o attenuare le loro conseguenze - semplicemente usando nella maniera più congeniale il dizionario o da questo traendo i possibili artifici.

Ma siamo nella “tana del lupo”, un antro di machiavelliche architetture e nebbie, doppiezze e battute ad effetto, come le conferenze stampa tenute da Rumsfeld ai tempi dei conflitti in Afghanistan ed Iraq, dove le sue qualità di showman e di affabulatore emergono con chiarezza, come la sua abilità nel porsi domande e darsi le risposte al tempo stesso, comunque strappando applausi e risate, giocando sempre d’anticipo ed entrando a gamba tesa, senza dimenticare di sfoggiare davanti agli interlocutori il suo sorrisetto ironico e sicuro.

Colpire e sbalordire” o comunque render le acqua torbide, i significati e le evidenze confuse: forse Saddam Hussein aveva davvero le armi di massa e le ha distrutte per non esser scoperto; certamente l’assenza di prove non è una prova della loro assenza!

Questi ed altri giochini con frasi e terminologie sembrerebbero la barriera invalicabile del “giovane/vecchio” dell’establishment Americano, da sempre al potere, prima con Nixon, poi con Ford, Reagan, Bush, dal Vietnam alla Guerra Fredda fino al Medio Oriente.

Un oratore capace ed a suo modo affascinante ma anche un prevaricatore, comunque un politico indisponibile ad assumersi qualsiasi responsabilità, come se gli eventi fossero ogni volta ineluttabili, un qualcosa nel quale gli uomini non hanno nessuna voce in capitolo.

E’ la storia a controllare noi o siamo noi a controllare la storia?” Nemmeno a questa domanda – per la quale ovviamente è meno facile trovare una risposta - Rumsfeld offre una sua versione, anzi ne offre svariate, sempre più di una.

Ma è solo un “mare di parole”: proprio questa l'evocativa l’immagine usata da Morris, così come sono azzeccate le sovrimpressioni con le dettagliate definizioni del vocabolario, il tutto sottolineato dalle musiche di Danny Elfman che cementano ogni cosa in un film, oppure un incubo, scegliete voi.

Quel che appare inequivocabile è la volontà di coprire o mistificare piu’ che mentire spudoratamente: la chiara tendenza a volersi appropriare del presente cercando di ricreare una personale versione del passato, senza passare per gli elementi di fatto.


Ma concedere o meno questa possibilità alle persone - specie agli esponenti di spicco che hanno deciso della nostra storia antica o recente - spetta soprattutto a coloro che li osservano e poi ne giudicano le gesta alla luce degli eventi trascorsi, ovvero a noi, gli unici che possano provare ad impedire in futuro il ripetersi di nuove nefandezze o che altri individui, simili o uguali, godano ancora una volta della stessa libertà d'azione, urlando prima possibile, ovunque ed in ogni modo, il nostro disgusto e la nostra disapprovazione.

martedì 14 gennaio 2014

DISCONNECT di Henry-Alex Rubin




Sassy 777” scorre on line la lista dei desideri di “Boitoi18”, “Cin8380” condivide in rete il suo dolore con “Fear and Loathing” mentre “BenBoyd” fantastica avventure con l'immaginaria “Jessica Rhony”.

Dietro i freddi “NickName” si celano (quasi sempre...) esseri umani in carne ed ossa.

Disconnect” di Henry Alex Rubin dipana la sua trama attraverso tre (quasi quattro...) storie separate ma contigue: quella della giornalista Nina (Andrea Riseborough, molto brava!) che approccia il “SexyCam Performer” Kyle (Max Thieriot) per ricavarne un servizio televisivo, poi di Cindy e Derek (Paula Patton e Alexander Skargard, figlio di Stellan), moglie e marito alle prese con la luttuosa perdita del proprio bambino e poi precipitati in problemi economici a causa di una frode a mezzo internet ed infine di Ben (Jonah Bobo), che viene irretito da Frye e dal suo amico Jason (Colin Ford), adolescenti complici e “cyber-bulli”, intenti a divertirsi ed a fargli credere che una inesistente ragazza di nome Jessica si sia invaghita di lui.

Ad unire tra loro le vicende sono i personaggi di Mike Dixon (Frank Grillo), un ex-poliziotto ora esperto investigatore di crimini informatici, vedovo e padre di Jason e chiamato ad indagare sul caso di frode dai due coniugi Cindy e Derek e quello di Rich Boyd (Jason Bateman), il padre di Ben, che di professione fa l'avvocato e sarà coinvolto – seppur marginalmente - negli eventi riguardanti Nina e Kyle.

Storie incrociate - sempre più un vezzo piuttosto che una vera e propria necessità della narrazione - con sceneggiatura ad opera di Andrew Stern.

Disconnect” punta l'indice sui pericoli della rete (le truffe, le false identità, lo sfruttamento dei minori) ma ancora di più vuole sottolineare come questa (paradossalmente?) sia talvolta l'ennesimo tassello che contribuisce alla rarefazione dei rapporti umani ed a gettarli in crisi.

Non pare esserci comunque un intento castigatore e moralista, soprattutto considerando che nel contesto generale degli avvenimenti sarà proprio il mezzo virtuale al tempo stesso ragione ed in qualche misura soluzione dei mali, contribuendo prima a creare i pericoli e le distanze ma poi scatenando – originando conseguenze a catena - processi di cambiamento e riavvicinamento che, almeno in parte, si attiveranno in conseguenza del materializzarsi del contatto fisico e delle deflagrazioni improvvise dell'anima.

Rivelazioni provenienti da hard disk sui quali si è reso necessario investigare provocheranno vitali e reali scintille emotive, un avvenimento drammatico consequenziale ad un pubblico dileggio virtuale riavvicinerà genitori assenti alle famiglie ed ai figli trascurati ed imprevedibili situazioni e prese di coscienza scaturiranno dal contatto di mondi lontani come “l'hard-web” degli adolescenti e la “televisione” degli adulti.

Dunque nel film di Rubin la virtualità non viene additata solo come una trappola ma semplicemente come una delle tante strade percorribili per un limitato segmento temporale, trascorso il quale poi inevitabilmente si finisce per riapprodare alla vita vera e quindi, narrativamente parlando, la “deriva tecnologica” non risulta essere il baricentro straripante del racconto bensì un mezzo attraverso il quale analizzare e spiegare sentimenti e (nuove/antiche) problematiche dell'esistenza.

Disconnect” difatti non è altro che un nuovo film sulle “vicinanze solitarie”, sui sensi di colpa che lentamente affiorano e le conseguenti collisioni tra le persone e nel suo insieme porta la mente a ripescare il “Crash” di Paul Haggis (tre Oscar e due Golden Globe nel 2006), senza reggerne il paragone in quanto a pathos e spessore. Niente di sorprendente insomma e – eccezion fatta per la pessima scelta stilistica del “ralenty” poco prima della fine - tutto il resto è girato e pensato in maniera gradevole, molto meticolosa ed organizzata, riuscendo ad evitare di incespicare troppo negli incroci farraginosi, nondimeno divenendo in un istante cinema masticabile, in poco tempo digerito e presto dimenticabile.

SANGUE di Pippo Del Bono


La vita è un “grande mare”, dove tutti si incontrano ed ogni cosa continua, senza fermarsi mai. Forse persino la morte non è niente altro che un “passaggio” che altri hanno varcato prima di noi, camminando verso un misterioso ignoto.

Magari è addirittura questo il destino toccato a Margherita ed Anna, due donne mai conosciutesi in vita ma che potrebbero aver viaggiato assieme verso la morte: una era la madre di Pippo Del Bono, artista passionale e regista di questa pellicola, mentre l'altra era la compagna di uno dei leader storici delle Brigate Rosse, Giovanni Senzani.

I due uomini si conoscono per caso, quando l'ex terrorista (23 anni passati in carcere) si reca a vedere lo spettacolo “Racconti di Giugno”, messo in scena dall'attore ligure. Dalle esperienze condivise e da quelle che si confesseranno l'un l'altro nascerà un libro dal titolo “Sperduti”; poi il fulminante ed improvviso passaggio della morte lascerà entrambi orfani, mutilati nel loro amore, “soli ma ancora insieme” e di fronte, senza maschere.

E così, quasi casualmente, sedimenterà questo “Sangue” (Premio "Don Quijote" al 66° Festival di Locarno), cinema che entra dentro la vita e vita che scivola nel cinema, dove la camera – come ammette con spontanea sincerità lo stesso Del Bono - diventa talvolta un terzo occhio necessario a non farsi trafiggere e travolgere da un dolore enorme e soverchiante.

Non uno sguardo necrofilo sull'inerzia e la decadenza del corpo, semmai l'azione incondizionata di un amore disperato che cerca di trattenere l'impossibile, contemplando le cose con afflizione ma senza morbosità, mentre il tempo diluisce dentro un imbuto oscuro, nel quale entrare è un atto irreversibile. Presente e futuro si frantumano, divengono in un attimo qualcosa che non c'è più, fino a che ogni promessa di eternità o semplicemente del domani, finiscono per sfuggire alla nostra mente.

Del Bono indugia sulle mani ingiallite della mamma che portano il colore della morte, cercando di compenetrare l'incomprensibile: vuole sondare l'inaccessibile e nel mentre “esondano” i suoi sentimenti, accompagnati da espressioni contrite e da un sentore di lacrime che aleggia intorno. Catarsi più che liberazione, cercando di sopravvivere al veleno che dilania la carne di chi abbandona e di coloro che rimangono.

Non ci vengono risparmiate le immagini di un corpo inerte nella camera mortuaria e poi sigillato dentro la bara, quello della stessa donna che mesi prima sentiva le forze abbandonarla mentre lei desiderava “alzarsi, andare, fare”. Per lei il figlio aveva affrontato un viaggio forse assurdo, comandato dall'indomabile ed istintivo richiamo della speranza, recandosi fino in Albania in cerca di un misterioso medicinale Cubano a base di estratti di veleno dello Scorpione Azzurro.

Ogni tanto tra i fotogrammi compare Senzani, il “Marxista guerrigliero” che ora ha il “sangue buono” e difatti le zanzare, che per decennni lo hanno evitato, lo prendono d'assalto: un comunista, come quelli che – diceva Margherita - impedivano alla Madonna persino di apparire, un uomo deciso e convinto della sua scelta di lotta armata mai condivisa da una “compagna di vita” che pure ha scelto di aspettarlo per anni, in solitudine, e poi lo ha dovuto abbandonare repentinamente, suo malgrado, diventando cenere e petali di fiore che ora “sono mare”.

E' un cinema viscerale quello di Del Bono, che fonde teatro e vita, che ospita immagini della città terremotata de L'Aquila come un simbolico parallelo di decadenza e di abbandono e che lega tra loro testimonianze spaesanti, talvolta persino agghiaccianti, come quella di Senzani sull'omicidio Peci, un uomo le cui speranze svanirono nell'urlo di un istante, di un colpo secco, lasciando in ricordo la miseria di una sola fotografia.

Sangue” è una riflessione generosa sulla vita e la morte, su fede e religioni, sull'essere umano, su inferni reali e paradisi inventati, sulla rivoluzione e la lotta armata, certo vaga ed imprecisa ma densa di calore e vogliosa di offrire e condividere; forse distante da un risultato cinematografico compiuto ma encomiabile nella sua passione prorompente e per la libertà attraverso la quale va oltre gli squallidi tabù sulla morte o sugli anni di piombo, forte di un coraggio cristallino che rende di fatto incomprensibile qualsiasi becera polemica abbia accompagnato il cammino di questa pellicola.


venerdì 10 gennaio 2014

IL CAPITALE UMANO di Paolo Virzì


Il capitale umano” è il titolo di un romanzo di Stephen Amidon.

Paolo Virzì trae da questo libro le basi per il suo nuovo film, trasferendone l'ambientazione dall'America del Connecticut al piccolo paese – immaginario - di Ornate in Brianza, limando il racconto e ricreandone i personaggi con l'aiuto in sceneggiatura di Francesco Bruni e Francesco Piccolo.

Dei cento colori scoppiettanti delle sue precedenti commedie il regista Livornese trattiene solamente “un po' di giallo e di nero” e confina il suo racconto in un perimetro delimitato, dentro il quale si agitano “spiriti” claustrofobici ed invisibili: ansia, competizione ed incertezze, mercati “volubili”, gli impatti inaspettati delle “maggiorazioni sballate”, rendite instabili per “posizioni” incerte.

Dino (Fabrizio Bentivoglio), Carla (Valeria Bruni Tedeschi) e Serena (Matilde Gioli) osservano il mondo con occhi diversi ed il loro approccio alla realtà è quel che ne consegue. Il primo è disposto a giocarsi tutto - persino il destino della propria famiglia - pur di arrivare a guadagnare soldi facili: vanno bene le “regole” che più possono fargli comodo a seconda dell'occasione, senza curarsi minimamente della correttezza o della dignità. L'altra rischia l'asfissia nel suo recinto ovattato e protetto e cerca di uscirne muovendo passi incerti in direzione di smarrite sortite filantropiche ed estemporanee escursioni sentimentali. Infine la più giovane: ha assaggiato già il sapore scipito del denaro (con annesso l'odore degli interni in pelle ed il canto del motore del fuoristrada) e le è bastato guardarsi dentro un disegno - un ritratto bello e crudele – per tornare indietro, verso l'istinto sopito ed i palpiti del cuore.

Dino Ossola, immobiliarista cinquantenne, è il padre di Serena ed è sposato con Roberta (Valeria Golino), che non è la madre della ragazza e di mestiere fa la psicologa. Carla invece è la moglie del ricco e spregiudicato finanziere Giovanni Bernaschi (Fabrizio Gifuni), il cui figlio Massimiliano (Guglielmo Pinelli) ha una relazione con Serena.

La loro storia gira attorno ad un incidente stradale notturno del quale è stato vittima un cameriere che - tornando dal lavoro in bicicletta - viene investito e lasciato agonizzante ai margini dell'asfalto. Di come siano andati davvero i fatti occorsi a questo personaggio “dimenticabile” (paradossalmente presto dimenticato anche dallo spettatore, nonostante sia il fulcro della vicenda) vengono rilasciati particolari “in piccole dosi” lungo la pellicola, suddivisa in tre capitoli che ogni volta ripercorrono quanto accaduto – e non soltanto – cogliendone la prospettiva dalle diverse angolazioni dei protagonisti, fino ad arrivare all'esito finale.

Lentamente salgono in superficie suggestioni che creano malessere e piccole malinconie di fronte alle quali ci sentiamo impotenti e prigionieri. Virzì più che cementare il filone dell'investigazione e del mistero - del quale si occupa per lui un accigliato commissario dalla barba incolta (Bebo Storti) - sfrutta tutto quanto la situazione generale può offrirgli per osservare introspettivamente le persone dal punto di vista umano ed offrire nel contempo un quadro complessivo del Paese-Italia e delle azioni/relazioni di chi ci vive e ne disegna il frastagliato profilo.

Auto scure ed eleganti salgono in fila avanzando nella neve lucida e bianca, portando al tavolo delle riunioni affaristi sempre più somiglianti a giocatori d'azzardo; istituzioni distratte lasciano che i teatri divengano fatiscenti, immaginando per locali gloriosi che furono calcati da attori famosi ed ospitarono sul palco opere importanti solamente improbabili suddivisioni in appartamenti da vendere, l'ennesimo supermercato o frettolose ristrutturazioni dove ospitare poi cori di “voci padane”: a discutere del futuro incerto dell'arte aspiranti attrici che tempo addietro hanno rinunciato alla loro occasione, “dilettanti della realtà”, finti innamorati della prosa e falsi romantici della vita, recensori annoiati e caustici della “Pre-Alpina”.


Virzì si abbandona scientemente ad un fruttuoso “spaesamento”, lontano da set e luoghi amici, da vecchi vezzi ed abitudini collaudate e si incammina con successo verso un orizzonte stilistico differente, colpendo il bersaglio nel tratteggiare nefandezze e debolezze, schierando in campo buoni e cattivi senza distinzione alcuna di casta o di classe sociale, lasciandoci osservare come la posta in gioco venga vinta o perduta nel rimescolarsi di avvenimenti concatenati e sui quali spesso non è possibile avere il controllo assoluto, alludendo al “Capitale umano” non solo come la negoziazione del valore trattato quale risarcimento dalle compagnie assicurative ma anche come il prezzo salato che puo' trovarsi a pagare un singolo ragazzo o persino una intera Nazione sulla cui rovina altri hanno scommesso senza scrupoli.