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venerdì 22 novembre 2013

VENERE IN PELLICCIA di Roman Polanski



Pioggia battente in una città deserta: soli, all’interno di un teatro - come all’alba di un nuovo inizio - un uomo e una donna.

Thomas (Mathieu Amalric), uno scrittore/regista che sta facendo audizioni per la sua pièce si imbatte (casualmente?...) in Vanda (Emmanuelle Seigner), una attrice energica ed irriverente in grado di dare nuova forza alle parole del suo lavoro ed al tempo stesso di stravolgerne il senso.

La rappresentazione in questione è tratta dal celebre romanzo “Venere in pelliccia”, scritto nel 1870 dallo scrittore Austriaco Leopold Von Sacher Masoch, da cui il termine “masochismo” ed a cascata tutto un universo sensuale, cerebrale ed erotico “sui generis”.

Allacciare il vestito di scena all’aspirante protagonista – apparentemente meno sfrontata e “pericolosa” di quanto non si rivelerà poi - sarà solo il primo passo verso un insolito confronto/scontro basato su un vorticoso e continuo ribaltamento di ruoli tra maschio e femmina, tra regista ed attore, tra chi detta le regole e chi invece “sembrerebbe” dover solo eseguire gli ordini.

Polanski sta innegabilmente vivendo una splendida terza età cinematografica: ha compiuto ottanta anni appena lo scorso 18 agosto e continua ad inanellare prove registiche che, a giudicare dai risultati, pongono il suo finale di carriera ben al riparo da una definitiva conclusione.

Dopo i quattro attori in una stanza di “Carnage” - basato sull’opera “Il dio del massacro” di Yasmina Reza - ancora un film tratto da un testo teatrale, stavolta di David Ivens e sceneggiato per il cinema a quattro mani da Polanski con lo stesso autore della pièce. Due solamente i protagonisti, per l’appunto la Seigner ed Amalric, entrambi bravissimi!

Il palco diviene ben presto qualcosa di simile ad un ring sopra il quale “recitare una boxe” dai colpi finissimi ed eleganti, dove rivelare le passioni negate e comunicare – magari attraverso particolari codici - i propri pensieri nascosti: tutto il teatro è niente altro che un labirinto nel quale inoltrarsi verso gli sconosciuti confini dei propri limiti.

Quello che va in scena è un duello delizioso, una sfida delle intelligenze e della provocazione dove, continuamente, vengono gettati in faccia al proprio “avversario” perfidi guanti di sfida verbale.

Seguendo le tracce antiche di un testo che viene da un tempo remoto – nel quale però già le sole parole scritte da Von Sacher Masoch trasudavano erotismo – i due protagonisti attualizzano e rinnovano i significati e le pulsioni che questo è in grado di scatenare. Dalla finzione sconfinano nella realtà, dapprima ad intermittenza e cammin facendo sempre più con soluzione di continuità, scoprendo quanto per entrambe le condizioni ben si attaglino i medesimi dialoghi e gli scambi di battute, constatandone la loro ambivalenza ed ambiguità!

Le inversioni di ruolo e i giochi di specchi sono molteplici ed illuminanti e confondono la figura dell’uomo e della donna i quali, in un singolare “testa a testa”, si producono in scivolose capriole e suggeriscono numerosi rovesciamenti del punto di vista.

Verrà sottoposto a rivisitazioni insolite anche lo stesso romanzo di Von Sacher Masoch mentre Thomas e Vanda intraprenderanno percorsi di pura avventura ed esplorazione, fin dentro meandri mai visitati neppure da loro stessi.

Polanski ed i suoi due protagonisti giocano, “si divertono e divertono” per poi all’improvviso affondare i colpi con precisione quasi chirurgica, trovando la misura perfetta – grazie soprattutto al testo di Ivens - per analizzare le relazioni tra sesso e dominazione ed i rapporti tra impulsività e ragione, unendoci anche estemporanei lampi di lotta di classe.

La complessità della tematica principale emerge con chiarezza assieme ai misteri del temperamento umano ed il tutto viene condito anche con un essenziale tocco di ironia, perfettamente funzionale a disinnescare le tensioni ed i toni più accesi o, talvolta, quelli avviati a sbilanciarsi troppo verso un tenebroso erotismo.

Senza dubbio il confronto tra Vanda, che si presenta come una donna semplice e volgarotta (certo per furbizia e comodità: ma di chi si tratterà veramente?...) ed il più acculturato Thomas - che ha addirittura un cane chiamato Derrida, come il filosofo Francese - già è fonte di ilarità; poi nei momenti meno opportuni arriva l’eco della bizzarra suoneria di un telefono cellulare ad interrompere le situazioni più cupe o bollenti, ovviamente al ritmo delle note de “La cavalcata delle Valchirie” di Wagner.

In un’ora e mezza si spazia dentro le accese complicanze delle relazioni tra uomo e donna, guardando alle gioie ed alle sofferenze degli amanti, esplorando luoghi reconditi e mettendo a nudo più l’anima che i corpi. Su un altro fronte parallelo assistiamo al confronto del regista alle prese con l’ “insubordinazione” dell’attore che, talvolta, si rivela straripante e vincente al punto da costringerlo ad abdicare dal suo ruolo, fino a cedergli “lo scettro ed il mestiere”.

La sensazione finale che si ricava da “Venere in pelliccia” è un volo d’angelo di rara grazia ed armonia che supera, in forma d’arte, le convenzioni e l’ordinario e dove l’unica certezza, per quanto declinata spesso con grande senso dell’ironia, sembra esser quella velata supremazia della donna sull’uomo, decisa da chissà “chi” e fin dall’alba dei tempi in ossequio alla citazione biblica dal libro di Giuditta che recita “...e il signore onnipotente lo colpì e lo mise nelle mani di una donna”.


E così sia.

L'ULTIMA RUOTA DEL CARRO di Giovanni Veronesi


Sono gli anni ’70 ed il giovane Ernesto Marchetti (Elio Germano) si guadagna da vivere aiutando il padre tappezziere: è un ragazzo con “il vizio” di esser onesto e lavorare non gli fa paura.

Angelina (Alessandra Mastronardi) è la donna che ama ed alla quale si dichiarerà presto con impacciata emozione. La sposerà senza aver un soldo in tasca, al punto da non poterle offrire nemmeno il viaggio di nozze, mentre lei in dote porterà una casa dove vivere e con la luce pagata, anche se con l’inconveniente di aver tutti i giorni qualche parente per ospite all'ora di pranzo.

Lo zio Alberto (Maurizio Battista) procurerà al giovane marito - tramite “le solite” amicizie - un posto fisso in una mensa scolastica ma, ben presto, l'insoddisfazione ed una ventata di ottimismo arrivata direttamente dai Mondiali di Spagna, faranno prendere ad Ernesto un’altra strada, dirottandolo nel settore dei traslochi assieme all’amico Giacinto (Ricky Memphis).

L'Italia, di lì a breve, avrebbe conosciuto nuove mutazioni che non avrebbero risparmiato di coinvolgere i nostri protagonisti: soprattutto stava per arrivare il tempo in cui i socialisti non sarebbero stati più “di sinistra”…

Veronesi, prendendo spunto dalla vera storia di Ernesto Fioretti (l’autista/tuttofare di Carlo Verdone, che il regista toscano ha conosciuto sul set di “Manuale d’amore”) rivisita con una veloce carrellata quarant’anni della nostra storia, dall’omicidio di Aldo Moro passando per le monetine dell’Hotel Raphael lanciate contro Bettino Craxi ed arrivando fino ai giorni nostri, dopo esser transitato (inevitabilmente!...) davanti ai suadenti cartelloni del promesso “nuovo miracolo italiano” di Silvio Berlusconi.

Scorre in pellicola l’Italia immarcescibile dei raccomandati e di tutti i “Signori Cocco”, dei piccoli mariuoli furbi e sfortunati; poi il lungo periodo del “dominio socialista” e proseguendo in avanti una citazione persino per il plastico di Cogne nello studio televisivo di Bruno Vespa. Così, un episodio minore fa di diritto il suo ingresso - almeno cinematograficamente – tra quelli “deplorevolmente salienti” nella vita recente della nostra Nazione!

Il film di Veronesi si fa apprezzare per le sue intenzioni e per la sua atmosfera genuina, nella quale rimane piacevolmente a baloccarsi, facendoci più sorridere che non riflettere sui mali atavici del Paese. Sfruttate appieno in questo senso le opportunità offerte dal personaggio di Giacinto/Memphis (ottimo contraltare per Germano).

E’ probabilmente una scelta operata in sede di stesura del soggetto e dei dialoghi, considerando ad esempio anche le battute marcatamente di alleggerimento assegnate dalla sceneggiatura - opera dello stesso Veronesi in collaborazione con Ugo Chiti, Filippo Bologna e lo stesso Fioretti - a Maurizio Battista.

Al comico Romano anche il compito di sottolineare, con una certa velata insistenza, quanto le riserve della panchina calcistica - ovvero gli “ultimi” - siano più importanti dei giocatori/titolari: non è purtroppo l'unica occasione in cui il film si lascia zavorrare da qualche piccolo luogo comune e da uno stile troppo semplificativo.

Percorrendo senza crederci troppo il solco della vecchia ed amara commedia all’italiana di Scola, Monicelli o Risi – mancando purtroppo l'occasione di emularli in pieno - la pellicola giunge al suo capolinea, dove ci aspetta una prevedibile morale consolatoria e fin troppo smaccatamente esplicitata nell’elogio della vita sofferta, onesta e felice, dove quel che conta è l’amore e non certo il denaro.

Elio Germano spicca sugli altri nel ruolo del cittadino che tenta a fatica, se non proprio di rimanere integerrimo, quantomeno di preservare la sua dignità, evitando di approfittare di sconce scorciatoie per arricchirsi o di sporcarsi le mani con le piccole truffe.

Il suo contributo offre a tratti sterzate generose verso orizzonti di altra intensità emotiva e credibilità, dai quali però il resto della storia si tiene cautamente lontana, rinunciando ad affondare davvero nella carne viva dei problemi e nelle loro cause.


L'ultima ruota del carro” si garantisce così una “navigazione” tranquilla non riuscendo tuttavia, alla resa dei conti, ad andare molto al di là di un racconto piacevole, schietto e sincero.

mercoledì 13 novembre 2013

LA VITA DI ADELE - CAPITOLI 1 E 2 di Abdellatif Kechiche


La vita di Adèle”, recente trionfatore all’ultimo festival di Cannes, quasi non pare esser il frutto di una finzione attoriale, a tal punto quel che questa riproduce spesso pare sgorgare direttamente dalla fonte complessa, magmatica ed in costante tensione della vita stessa.

Di questo magnifico risultato la pellicola è debitrice - in parte consistente - alla eccellente interpretazione della giovanissima Adèle (Adèle Exarchopoulos), colei che sopra tutti è investita del compito di guidarci nel labirinto umano - sentimentale e non soltanto - che il film vuole rivelarci.

Preda di ondate passionali o sperduta tra le mille incertezze, Adèle è sempre di una impressionante naturalezza ed in virtù di questa in grado di condurci ben oltre la condizione della sua recitazione; la Exarchopoulos, con dolcezza ed ingenuità, ci trascina precisamente al centro della sua tempesta di emozioni: lapilli incandescenti di vita in eruzione, diluvio di sensazioni incontrollabili e difficili da razionalizzare.

Kechiche, da par suo, individua in un generoso uso di primi, primissimi piani e dettagli il metodo più efficace per creare un vortice che attiri a se ogni cosa ed annulli ogni distrazione possibile, totalizzando lo schermo nella sua interezza e non lasciando via di scampo all'immedesimazione progressiva dello spettatore.

A questo aggiunge poi la sua particolare predilezione nel mostrarci il rapporto dei suoi protagonisti con il cibo (ricordate “Cous Cous”'?), spargendo a piene mani inquadrature ravvicinate di bocche che tirano su spaghetti e si sporcano di sugo, poi che succhiano ostriche o addentano kebab.

L'istintiva e quasi primordiale carnalità cinematografica del suo modo di raccontare verrà accentuata ben di più quando - non avendo nessuna accondiscendenza nei confronti dello spettatore - giungerà il momento di filmare la dimensione dei corpi in amore: Kechiche valicherà allora senza timori i confini imposti dal tabù, lasciando il campo ad immagini prive di censura ed inibizione ed indugiando abbondantemente e senza limiti di tempo nel mostrarci la passione.

La vita di Adèle” (liberamente tratto dal fumetto “Il blu è un colore caldo” di Julie Maroh) è anche intriso di un sapore fortemente letterario: citazioni generose giungono da “La vita di Marianna” di Marivaux e dall’ “Antigone” di Sofocle; poi si passa a Sartre e successivamente – con una disinvolta capriola - si farà cenno ai testi delle canzoni del più giovanile Bob Marley.

Quanto letto nei libri indirizza ed in qualche misura “profetizza” ed annuncia quel che accadrà in seguito ma, più in generale, sono ogni parola - urlata o sommessa – e qualsiasi piccolo gesto o dettaglio che finiscono, quasi sempre, per conquistare particolare risalto ed importanza nel film di Kechiche. Gli spettatori più attenti non avranno difficoltà a riscontrare l'inscindibile legame sotterraneo della vita dei protagonisti con gli impulsi dettati dall'arte o dalle concettualizzazioni filosofiche; probabilmente molto più evidenti invece agli occhi di tutti gli sconfinamenti del sentimento tra sesso e passione e le strade parallele o contrastanti del piacere e della felicità.

Kechiche trova il modo di dare corpo e parola - come la poesia - “a mille ed altre cose che non c'è bisogno di capire”. Riesce a mostrare come l'arte, che talvolta confluisce con la vita, la lasci poi rifluire nuovamente fuori, uguale e diversa.

Poi sa anche guardare con profondità a cose più tangibili e concrete, come l'inevitabile peso del conflitto tra le diverse classi sociali ed alla sensazione di disagio che questo farà affiorare nel rapporto tra Adèle ed Emma (Léa Seydoux), l'altra bravissima protagonista della pellicola.

In questo magnifico film ogni cosa riesce a sembrare per quel che davvero è, ovvero una continua scoperta, dai libri al sesso, dall’assaggiare i frutti di mare al cercare il “gusto ed il sapore” delle relazioni personali: Adèle bacia le labbra degli altri, uomini o donne, come volesse assaggiar la vita e cercare risposte; poi punta i suoi occhi verso di noi e letteralmente ci sequestra con il suo sguardo e la sua spontaneità espressiva, accrescendo la sua influenza sullo spettatore ad ogni lacrima che si impasta nei fili scompigliati dei suoi capelli.

Kechiche scandisce un ritmo lento alla sua storia , quasi consigliandoci di “osservare la vita danzare al suo tempo”, l'unico che ce la possa mostrare davvero: nel suo territorio cinematografico ogni inezia ha uno spessore enorme, esattamente come nella realtà.


La vita di Adèle” è un continuo baluginare di istinti viscerali e passionali, un costante affluire di sensazioni che, muovendosi dai confini esterni della vita (quadri, pensieri, letteratura) spingono forte verso l'interno; è una esplosione di possenti estasi inconsapevoli e necessarie - del cibo o dei sensi, dei piaceri diversi che attingono alle stesse fonti - delle attrazioni reciproche inesorabili, dell’amore e delle sue tenerezze infinite, talvolta costretti loro malgrado a percorrere strade che potrebbero finire per essere ineluttabilmente divergenti.

ZORAN - IL MIO NIPOTE SCEMO di Matteo Oleotto


Paolo (Giuseppe Battiston) è un omaccione piuttosto egoista, cinico e bugiardo. Passa le sue giornate ciondolando nell’osteria (…”osmiza”…) del vecchio amico Gustino (Teco Celio), dal quale talvolta cerca rifugio, a notte fonda quando ha bevuto troppo e deve abbandonare in tutta fretta la guida del suo furgoncino giallo, per evitare che i vigili – appostati al varco sulla strada – gli sequestrino la patente.

Lavora di malavoglia nella cucina di una mensa per anziani ed occasionalmente prova - con una corte puerile e patetica - a riconquistare i favori della sua ex-moglie Stefania (Marjuta Slamic), che però non vuol più saperne di lui ed ora vive assieme ad Alfio (Roberto Citran), un uomo tranquillo che compone e colleziona curatissimi uccelli di ceramica.

Paolo, alla morte della lontana zia slovena Anja, non erediterà denaro bensì un cane di ceramica ed un nipote adolescente dal nome singolare: Zoran (Rob Prašnikar). Il giovane parla un italiano colorito ed aulico, asserendo di averlo imparato leggendo “capolavori” come “Lampi sull’Isonzo” di Giulio Previati e “Lacrime di Fanciulla” di Enrico Cosulich (allo spettatore scoprire se i due libri esistono realmente o sono un parto immaginario degli sceneggiatori) e soprattutto ha una particolare abilità nel cogliere il centro del bersaglio al gioco delle freccette, bravura che lo “zio Paolo” reputerà propizia per dare una svolta alla propria grama vita.

Il film di Matteo Oleotto è ambientato al confine con la Slovenia, in un paese del nord vicino Gorizia, città dove questi è nato; con semplicità ed un umorismo caustico (dal retrogusto “etilico”…) il regista cerca di cogliere alcune delle molteplici sfumature nascoste dei suoi luoghi natii, le atmosfere quasi arcaiche e le particolari solitudini di quelle lontane zone dell’Italia, i caratteri ombrosi della gente o quelli invece gioviali, maturati tra le odorose fragranze del vino.

I suoi protagonisti si incontrano spesso in particolari luoghi di ritrovo come le “Osmize”, locali di antica tradizione dell’altopiano carsico, dove si vendono e si consumano vini e prodotti tipici direttamente nelle abitazioni o nelle cantine dei contadini che li producono.

Giuseppe Battiston è il mattatore straripante (e “straripato”!) di questa pellicola e regala al personaggio di Paolo Bressan la sua “pachidermica bonarietà” assieme ad una punta di cattiveria, ponendo l’accento su quell’egoismo insensibile tipico di coloro che sono stati colpiti duro dalla vita e non hanno saputo rialzarsi e reagire.

Lo strano ragazzino erudito e dal viso dolce ed occhialuto suo malgrado lo porterà - forse non del tutto casualmente - a dover guardare in faccia la pochezza della sua realtà, troppo spesso aggirata solo con le armi della menzogna o di mezzucci ed espedienti occasionali, costringendolo infine a riconsiderare il suo approccio con la vita.

Zoran – Il mio nipote scemo” si avvale delle armi di una commedia corrosiva, avendo come obiettivo anche quello di colpire “distrattamente” al cuore dei nostri sentimenti che, a dire il vero, per lunghi tratti sfiora solo marginalmente - tergiversando perlopiù tra situazioni divertenti e battute acide e beffarde - riuscendo però, proprio sul finale, a centrare anche questo bersaglio, quando ogni cosa si scioglierà in una fragorosa risata dal sapore fresco e liberatorio.   

mercoledì 6 novembre 2013

BLANCANIEVES di Pablo Berger


Biancaneve nasce “anche” a Siviglia, all’inizio del secolo scorso: si chiama “Carmen” ed è figlia del leggendario torero Antonio Villalta (Daniel Gimènez), uno che combatte contro sei bestie alla volta.

Ma la sua venuta al mondo avviene in un giorno disgraziato: sua madre (Inma Cuesta) morirà nel darla alla luce mentre il padre perderà l’uso delle gambe; finirà poi per consegnarsi nelle grinfie della suadente infermiera Encarna (Maribel Verdù), perfida e scaltra abbastanza da farsi sposare dallo sventurato che ridurrà, in breve, ad un fantoccio in suo potere.

Anche “Carmencita”, dopo la morte della nonna (Angela Molina) sarà obbligata a trasferirsi dalla matrigna che la costringerà a subire angherie e soprusi, arrivando poi fino al punto di incaricare il suo amante/servitore di portarla nel bosco per ucciderla.

Sulle ali dell’abbuffata in patria di Premi Goya (ben dieci tra i quali “miglior film”) e forte della sua candidatura all’oscar 2014 in rappresentanza della Spagna, arriva in Italia “Blancanieves” del regista Pablo Berger, un fiaba surreale dall’anima (bianca e) nera.

Prendendo spunto dal racconto dei Fratelli Grimm il regista di Bilbao crea un film che sembra arrivare direttamente dall’epoca del muto, ricco di atmosfere gotiche; celebrativo della tauromachia, nelle intenzioni vorrebbe poi veleggiare dalla favola verso chissà quali altri lidi, passando attraverso licenze fantasiose e venature macabre.

Ma “Blancanieves” si arenerà presto a causa di una alquanto monotona prevedibilità: nella prima parte difatti vediamo perfettamente rispettato “il clichè di genere”, con la piccola bambina (interpretata dalla brava Sofia Oria) vessata dalla matrigna cattiva, costretta ad umilianti lavori ed impotente nell’aiutare il padre; poi, una volta che questa sarà cresciuta e sfuggita al controllo della perfida donna, arriva puntuale il cambio di passo ed ecco che Carmen incontrerà sul suo cammino sei (e non sette!...) “nani toreador”, i quali faranno affiorare le sue abilità nascoste fino a condurla ad esibirsi nella stessa arena dove ebbero origine le sue disgrazie (una sublime quanto facilmente ipotizzabile apoteosi della rivincita).

In opposizione a queste evoluzioni del racconto piuttosto scontate verrà in soccorso il finale della storia che ha un suo apprezzabile spunto creativo e si mostrerà capace di offrire un sussulto di originalità e di struggente sentimentalismo; prima di questo però, solo qualche piccolo siparietto di Encarna alle prese con il pavido amante Genaro Bilbao (Pere Ponce) - suo succube schiavo fino ad esserne letteralmente ridotto al guinzaglio – aveva stuzzicato la nostra attenzione.

Nella fiaba moderna la “regina” anziché il trono si vedrà sottrarre dalla figliastra “Biancaneve” la fama e l’ambita copertina della rivista “Lecturas” - simpatica intuizione anche questa - ma niente di più oltre quanto appena accennato troverete di stimolante e di davvero creativo nella pellicola di Berger, ricolma di eleganti merletti e velette nere e fin troppo straboccante di occhi sgranati ed espressioni “esageratamente piene”, tutte uguali l’una all’altra.

Coraggiosamente muto ed in bianco e nero, concepito senza parole come un melodramma dalle tinte funebri che strizza l’occhio – per stessa ammissione del regista – ai “Freaks” di Tod Browning, “Blancanieves” patisce soprattutto di una originalità assai intermittente e, nella seconda parte, della prestazione di una protagonista spesso non all’altezza: la bella ma non altrettanto brava Macarena Garcia, alla quale è affidato il ruolo di Carmen una volta cresciuta.


Berger però afferma incredibilmente di trovar la Garcia capace di “trasmetter con gli occhi” come la Renèe Falconetti della “Passione di Giovanna d’Arco” di Dreyer; questione di gusti ma anche di sguardi: magnetici e magnifici quelli dell'attrice degli anni venti, pallidi ed inutilmente lacrimosi quelli della nuova musa dei giorni nostri!