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mercoledì 27 marzo 2013

I CROODS di Chris Sanders e Kirk DeMicco


I Croods sono una famiglia di cavernicoli.
Fuori dalla loro grotta c'è un mondo difficile ed ostile al quale i loro vicini di casa non sono sopravvissuti: chi è finito schiacciato da un mammuth, chi ingoiato da un serpente o stecchito dal freddo.
Nutrirsi è un serio problema da affrontare ogni giorno: procacciarsi un uovo (gigante) per pranzo  non è certo facile come entrare in un bar e chiedere un tramezzino, anzi l'operazione “di gruppo” è parecchio complicata ed assomiglia ad un forsennato incontro di Football Americano.
Papà Grug è iperprotettivo e spaventato dal mondo esterno. Quel che insegna ai suoi cari è che per sopravvivere non bisogna mai smettere di avere paura mentre addita la curiosità come un nemico da evitare: mai abbandonare la caverna per andare incontro a pericoli sconosciuti!
Sua figlia Eep però ha un caratterino piuttosto ribelle e non sempre obbedisce, così una sera, uscendo di nascosto dal rifugio/caverna, incontrerà Guy, un suo coetaneo che custodisce con se un “sole bambino”: il fuoco!
Il nuovo film della DreamWorks - ad opera di Chris Sanders e Kirk DeMicco  - è fatto dei soliti ingredienti che contrassegnano da sempre i suoi lavori: fantasia, divertimento ed un pizzico di morale e sentimentalismo.
La storia è ambientata in un passato lontanissimo dove la terra sta finendo preda di un “collasso” che ne rimodellerà l'aspetto e partorirà nuove forme di vita e colori: l'uomo della pietra è dunque chiamato a reinventarsi “uomo nuovo”.
Il domani che avanza inarrestabile e spazza via l'esistente renderà inutili le vecchie regole per sopravvivere ma nel contempo offrirà l'occasione per provare a vivere una vita migliore: per farlo però serviranno non piu' solo prudenza e muscoli ma anche idee e capacità di osare. 
La metafora è semplice ed “I Croods”, divertendoci, suggeriscono quale sia lo stato d'animo ed il piglio giusto per affrontare l'ignoto e provare a raggiungere il domani, specie  quando non è più possibile continuare a nascondersi tirando a campare; nel mentre ci allieteranno con alcune gag e qualche spassosa trovata:  un esempio la scoperta delle calzature per i cavernicoli  e per la precisione delle “scarpe” (…!...) da parte di Eep, che urlerà tutta la sua gioia in preda ad un “femminile” stato di adorazione.
E’ chiaro che “senza rischiare non si vola” ma impareremo anche che per andare oltre l'abisso – proprio quello che si aprirà  davanti ai piedi dei nostri protagonisti mentre dalla terra fuoriescono fumi e lava – serviranno non solo intelligenza ma pure forza, coraggio, nobiltà d'animo ed altruismo che possa stupire e riscaldare i cuori.
Sarà l'unione a fare  davvero la forza e tutti assieme i nostri protagonisti riusciranno ad “inseguire la luce” fino a… raggiungere il sole!
Papa Grug per lungo tempo e molto amorevolmente -  senza guardare ad altro futuro che non fosse quello del giorno dopo –  aveva protetto la sua famiglia mettendola al riparo dai rischi, ma negandogli in tal modo di scorgere l’orizzonte immenso del mondo, la meraviglia del cielo stellato e di tutto il creato.
Invece “una volta usciti  allo scoperto si puo’ scoprire il mondo!” Certo le insidie sono dietro ogni angolo: ecco già di fronte a noi la minacciosa voragine di un burrone, avvicinandosi al quale potrebbe però accadere – anziché precipitare – di prendere “magicamente”  il volo per andare incontro al domani.

martedì 26 marzo 2013

GLI AMANTI PASSEGGERI di Pedro Almodovar


Salite a bordo, allacciate le cinture, pronti: via! L’aereo di una delle compagnie più strambe che possiate immaginare (la “Peninsula”) è in volo.
La “Business Class” è affollata di gente bizzarra, a cominciare dai tre steward tuttofare (Javier Càmara, Carlos Areces e Raùl Arèvalo), “dall’omosessualità esuberante” e piuttosto inclini ad “alzare il gomito” con l’alcool: uno non puo’ fare a meno di dire la verità per via di un “vecchio trauma di volo”, un altro cerca perdono per le sue colpe e gira con la sua “valigetta ventiquattr’ore con corredo interno da preghiera” mentre l’ultimo è un tipo sexy e sbarazzino, probabilmente sempre pronto a spassarsela oppure a fare il filo a chiunque (ed occhio alle tracce peccaminose sulle sue labbra!).
In cabina di comando  le cose non stanno poi molto diversamente: uno dei due piloti  (Alex Acero/Antonio de la Torre) è sposato ma è pure bisessuale ed ha, guarda caso,  una storia con Joserra/Càmara, uno dei tre steward; l’altro (Benito Moròn/Hugo Silva) ha provato una volta a saggiare le sue attitudini sessuali navigando verso l’altra sponda e facendo sesso orale con una “persona di fiducia”: adesso, dopo aver fatto le sue esperienze, si dice convinto di essere etero ma - si sa come vanno queste cose - non si puo’ mai dire!
Anche i passeggeri formano una comitiva non poco bislacca: Norma Bosch (Cecilia Roth) è una donna che un tempo ha spopolato sulla copertina di “Interview” ed ora fa la “porno-escort” a pagamento, dedicandosi soprattutto a rapporti sessuali sado/masochistici con clienti d’alto bordo: a suo dire i primi seicento “V.I.P.” del paese l’hanno frequentata, Re Juan Carlos compreso!
Bruna (Lola Dueñas) è una sensitiva ancora vergine convinta che questo viaggio sarà quello buono per risolvere il suo “problema”; Ricardo (Guillermo Toledo) è un attore/latin lover in fuga dalle sue amanti, per comunicare con le quali – incredibilmente -  gli basta fare un’unica telefonata (prestate  attenzione difatti a cosa succede sopra il viadotto ed alla bicicletta che vi passa sotto…).
Completano il quadro una coppia di sposini - dormiglioni ed “impasticcati” - in viaggio di nozze (Miguel Angel Silvestre e Laya Martì), un nasuto sicario (Infante/José María Yazpik) ed un uomo d’affari coinvolto in truffe bancarie (Il dottor Mas/José Luis Torrijo).
Un’ora e mezzo dopo il decollo verrà scoperto che uno dei carrelli è irrimediabilmente guasto ed anziché dirigersi in Messico come previsto l’aereo comincerà a sorvolare Toledo in attesa che venga resa disponibile una pista per un atterraggio d’emergenza.
Quel che purtroppo non prende mai il volo, duole dirlo, è questo film di un Pedro Almodóvar oramai in chiara crisi di creatività e  di “risultato”: negli ultimi tempi non è certo  il suo primo lavoro che manca il bersaglio e questo nonostante “Gli amanti passeggeri”  segni il  ritorno alla commedia, il genere che fece la sua fortuna degli inizi.
Il buon cast, inserito in una fusoliera “pop e coloratissima”, potrebbe dare origine a situazioni stuzzicanti ed esilaranti ma purtroppo non se ne intuisce che la possibilità ed un  sapore appena accennato:  non è sufficiente servire dell’ “Agua de Valencia” corretta alla “mescalina culizzata” - con la conseguente esplosione di sesso che dilagherà fino alla classe turistica – né proporre dei dialoghi spinti e disinibiti (quanto fini a se stessi) per accendere il nostro buonumore e strapparci qualche risata!
Nemmeno bastano i confusi riferimenti al presente incerto Europeo/Spagnolo (vaghissimi accenni alle truffe  ed alle insicurezze sociali) a regalare una minima compiutezza ad un racconto approssimativo e statico, con i personaggi appena abbozzati e le loro storie tutte solo accennate che non sfociano in nessun dove (compreso “l’omaggio avulso” della “gag” iniziale con Antonio Banderas e Penelope Cruz).
Il cocktail di antidepressivi, ansiolitici ed estratti di peyote andrebbe servito direttamente in sala agli spettatori che purtroppo possono riuscire a trovare qualche attimo di sollazzo appena nei cinque minuti dello spassoso e coreografato intermezzo musicale sulle note delle “Pointer Sisters”, certamente troppo poco per tentare di salvare il fiacco film di Almodóvar  che subito dopo continua a girare noiosamente in tondo - esattamente come il velivolo che porta a spasso i passeggeri/attori - per schiantarsi infine “inconcludentemente” al suolo.

mercoledì 13 marzo 2013

ANNA KARENINA DI Joe Wright


Anna (Keira Knightley) ed il suo cuore in tempesta: travolto da passione per il Conte Vronsky (Aaron Johnson) e nonostante questo ancora colmo di rispetto per il marito Aleksej Karenin (Jude Law).
Una donna stretta nella morsa del suo amore di donna e di madre, pronta in nome dei suoi sentimenti a sfidare la società ipocrita che  non perdona chi infrange le sue regole.
Finirà in tragedia, come è noto, così Joe Wright prova a suscitare nuovi motivi di attenzione ed interesse per questa storia dai connotati eterni  con una rivisitazione cinematografica tutta visivamente confinata tra le pareti – ricostruite sul set - di un teatro.
Risulta una felice intuizione quella di immortalare questo racconto struggente in un ambiente per sua natura sospeso a metà tra la vita e la finzione, in grado di regalargli ancora di piu’ una dimensione senza tempo ed universale, arricchita peraltro da una  gioiosa inventiva ed interessanti trovate sceniche e coreografiche:  fondali finti,  attori che si muovono dappertutto invadendo  persino le quinte oppure spostandosi  in alto, nello spazio riservato agli attrezzisti, camminando tra corde ed utensili mentre simulano  d’esser  all’aperto in una grande piazza, nel suo brulicare di gente. 
E’ avvolgente il ballo dove Vronsky e Karenina incrociano i loro destini e crudeli  gli sguardi che, quasi fossero pugnali,  si conficcano addosso alla dama peccatrice, insolito e divertente l’esercito di uomini che dai banchi ritma i movimenti a colpi di scartoffie e timbri; infine anche  una corsa di cavalli viene ricreata senza  bisogno di allontanarsi nemmeno  un millimetro da palco e platea, con il frusciare frenetico di un ventaglio che diviene via via un palpitante rumore di zoccoli in corsa: di colpo, la caduta di un fantino rivelerà agli occhi di tutti una condotta sconveniente.
Di tanto in tanto Wright si prende licenza di “evadere” e va oltre il confine delle scene e del sipario, perdendosi per un attimo le tra distese innevate o in un mare di fili d’erba agitati dal vento: almeno un paio di inquadrature esterne – gli amanti stesi sul prato e la donna con l’ombrello – riportano alla memoria i quadri impressionisti di Manet e Monet, ma numerose sono le soluzioni originali adottate per regalare a questa storia una nuova veste, persino uno scambio di pensieri a tavola tramite cubi di lettere, come se si stesse giocando una partita di  “Scarabeo”.
Funziona molto bene la costruzione dell’immagine quando abbinata alla fantasia, molto meno quando si concede alle inquadrature un pochino troppo manierate oppure dall’eccessivo tocco glamour: Konstantin Dmitrič Levin tra i covoni di fieno con il sole alle spalle risulta quasi stucchevole,  Anna riversa sul binario è una istantanea inerte e priva di forza.
La vera lacuna di “Anna Karenina” sembra però risiedere  nella sua impossibilità di adattare questo romanzo comprimendolo in  circa due ore (centotrenta minuti), insufficienti a far si che possa sprigionare la sua anima. 
Ci sarebbe bisogno di un generoso dispendio di tempo, al quale sono certamente più  versate le illimitate pagine di un libro – o di una “fiction” televisiva di buona fattura - che non le esigenze (soprattutto di produzione e distribuzione!) del grande schermo.
Volendo invece abbracciare tutto l’arco dell’opera - senza scegliere magari di mettere a fuoco solo alcuni personaggi o particolari passaggi -  davvero poco si riesce ad avvertire della magnanimità impagabile di Karenin e dei suoi crucci, molto superficialmente ci arrivano i dolori e le gioie dei cuori agitati dalla tormenta e percepiamo  appena gli umori ostili  dell’alta società che assedia crudelmente una donna accusata di aver perduto la sua onorabilità.
“L’amore romantico sarà l’ultima illusione del vecchio ordine” sentenzia il fratello ribelle di Kostantin: eppure a smentirlo ci sarà proprio  la grande forza di Anna Karenina – che la Knightley per quanto puo’ prova ad irradiare con una prova onesta –  forte solo del suo coraggio e della sua passione, che arremba  contro tutto e tutti incendiando ogni cosa al suo passaggio prima di cedere, infine, stremata dai fantasmi della gelosia e della solitudine.
Alla resa dei conti il film di Wright - per quanto gradevole  - risulta molto  levigato e freddo, vaporoso e “rassettato”: se il regista fosse riuscito a far emergere con più forza il groviglio di pena e disperazione delle quali ogni singolo protagonista è potenzialmente   intriso – una vera miniera letteraria pronta a consegnarsi a chi la voglia scavare – avremmo probabilmente lasciato la sala con un adeguato senso di “prostrazione” che, unito alla buona  ricerca estetica, ci avrebbe donato la commisurata soddisfazione.
Questo “Anna Karenina” invece sembra troppo spesso inseguire solo la perfezione formale e poco assecondare quanto di  davvero vibrante risiede nel racconto di Tolstoj; ovviamente  è davvero un “peccato” e -  proprio come  questa storia più di altre  ci insegna -  “il peccato ha il suo  prezzo”, quello stesso che il film di Wright non puo’ esimersi di pagare alla fine per essersi concesso – magari senza troppo “dolo” – ripetuti indugi tra gli orpelli in bella vista e lo sfarzo degli abiti colorati della Russia Imperiale, a scapito di un vero approfondimento della sfera intima dei protagonisti ed inevitabilmente finendo per sottrarre ossigeno al fuoco vitale del pathos.

domenica 10 marzo 2013

IL LATO POSITIVO di David O.Russel


Patrick Solitano (Bradley Cooper) soffre di stress sporadico, sbalzi di umore ed un non diagnosticato bipolarismo.

Un giorno ha trovato sua moglie Nikki nuda sotto la doccia con il suo collega professore di storia e per averlo pestato a sangue è stato rinchiuso in un istituto psichiatrico a Baltimora.

Dopo otto mesi sua madre (Dolores /Jacki Weaver) lo riporta a casa, dove ad accoglierlo c'è anche suo padre (Robert DeNiro, in ottima forma), un tipo scaramantico che di mestiere fa l'allibratore e nel cassetto custodisce il sogno di aprire un ristorante dove vendere panini al formaggio.

Neanche papà e mamma sembrano essere il massimo della stabilità d'umore: il primo è stato diffidato per episodi violenti dal frequentare gli stadi e le partite di football degli “Eagles” - per i quali nutre una passione letteralmente maniacale – mentre sua madre ha le emozioni sempre in procinto di sfuggirle dal controllo.

Adesso Pat deve vivere la sua vita a pugni stretti, perchè la sua libertà quotidiana è limitata da una ingiunzione che lo tiene a centocinquanta metri dalla moglie – che vorrebbe a tutti i costi riconquistare – e conseguentemente da tutti i suoi sogni, che ritiene non possano realizzarsi prescindendo da lei.

A cena da amici conoscerà Tiffany (Jennifer Lawrence – Oscar 2013 come migliore attrice protagonista), alla quale è morto il marito - in un circostanza che non vi sveliamo - e che da allora è diventata una “ninfomane per espiazione”, arrivando addirittura ad esser licenziata dal posto di lavoro per aver fatto sesso con “tutti” i suoi colleghi (e colleghe!). 

Anche lei per tentare di fare ordine nella sua vita è stata costretta a far ricorso ai farmaci.

Lentamente tra i due nascerà una amicizia, prima dettata forse da un reciproco quanto differente bisogno ma che in seguito, alimentata dalla “chimica umana”, sconfinerà in un predestinato e più forte sentimento.

"Il lato positivo" di David O.Russel è un film con una fortissima carica di energia, esponente di un cinema che sa perfettamente come raccontare in maniera differente una storia profonda e fuori dal comune mettendo in campo una inusitata leggerezza rispetto al tema che tratta, una levità che mai si defila pur senza trascurare gli aspetti importanti della vita.

Il tono è quello di una commedia dalle sfumature romantiche ma sotto questa vena arde perennemente l'urgenza dei bisogni e delle aspettative dell'essere umano.

Sullo sfondo balugina di tanto in tanto la società Americana, con la sua crisi ed i licenziamenti che erodono i posti di lavoro, anche se nessuno sembra preoccuparsene davvero e si continuano a dilapidare denari comprando caminetti avveniristici ed “airport da muro per I-Pod”, da piazzare in ogni angolo della casa.

Questi comunque non bastano a stemperare il soverchiante stress: difatti si finisce per farlo deflagrare nell'angolo appartato di un garage, dove per recuperare la tranquillità perduta si spacca ogni cosa seguendo una strana “terapia” a base di violenza, Metallica e Megadeath.

Il film di O.Russel è una sorta di fiaba che però tra le pieghe nasconde significative riflessioni e riesce ad evidenziare la paura di esser vivi degli esseri umani mettendola a confronto con i suoi protagonisti principali i quali, pur affetti da patologie e gravi problemi, vivono senza indossare “maschere d'occasione” nei rapporti con gli altri e parlano sinceramente ed a ruota libera, senza alcun filtro, incapaci di ipocrisie o di mentire se non a fin di bene.

La società - che oramai non puo' più permettersi nemmeno che una bella serata (…!...) venga “disturbata” dalla verità – però li etichetta, li controlla e li respinge e non trova altra soluzione per questi “diversi” se non quella farmaceutica, buona per alienare e rendere inoffensiva ogni inquietudine e pulsione, rivelando così ancora di più la propria inadeguatezza verso ogni singolo che la compone.

"Il lato posivito" (il titolo originale sarebbe “Silver Linings Playbook” ovvero “la luce che si intravede tra le nuvole” e “il quaderno degli schemi del football”) in alcuni passaggi scatena risate autentiche ed anche per questa sua ennesima e benefica peculiarità è un film “passpartout”, ovvero “formato famiglia”, adatto a grandi e piccini; nel contempo è sempre capace di mantenere viva la tensione ed il coinvolgimento emotivo e chi si lascerà romanticamente rapire potrà persino arrivare a provare genuina commozione.

Discriminare e giudicare sommariamente è sempre un grave errore e questa storia tra due giovani in difficoltà ne mette a nudo l'evidenza così come pone in risalto l'importanza della “serendipità” e quella, talvolta, di affidarsi ai segnali che la vita fornisce e che possono trascinarci fuori dalle sabbie mobili nelle quali siamo rimasti impantanati.

Un ballo ed una “martingala” salvifica suggelleranno il finale di certo non imprevedibile di un film che riempie i cuori e soddisfa la voglia di rilassarsi e divertirsi con la sua energia decisamente positiva, del quale probabilmente immaginiamo fin dal principio il punto d'arrivo ma che nemmeno per un attimo vi farà trovare di fronte a niente di scontato.

martedì 5 marzo 2013

EDUCAZIONE SIBERIANA di Gabriele Salvatores




Gli orgogliosi ed indomiti Urka: prima fuggiti verso la Siberia per sottrarsi alle persecuzioni degli Zar, poi deportati da Stalin per ragioni di “sicurezza” in Transnistria (grosso modo la zona dove si trova l’attuale Moldavia).

Onesti criminali” rifiutati da tutti fuorchè dalla loro comunità, uniti da regole ferree tramandate di padre in figlio: non c’è posto per droga ed alcool nella loro vita, tenere denaro in casa è un sacrilegio persino se – come è concesso! – è stato rubato a persone spregevoli come gli usurai. Dal muro la “Madre Santissima” li osserva stringendo due pistole tra le mani, da lontano tempra i loro coltelli e dirige i loro proiettili.

Pellicola Ispirata dal libro omonimo di Nicolai Lilin, “Educazione Siberiana” di Gabriele Salvatores racconta del cammino di crescita e formazione di Kolyma (Arnas Fedaravicius) - cresciuto all’ombra della figura ombrosa e rilevante di Nonno Kuzja (John Malkovich) - e del suo amico Yuri detto “Gagarin” (Vilius Tumalavicius).

La storia di questi due adolescenti che diventano uomini viene incrociata con i loro stessi ricordi e le suggestioni di un mondo denso e lontano, frapponendo alla narrazione che evolve visioni di lupi che si muovono nel candore della neve e tenebre d’acqua scura e torrenziale che straripano dal fiume; ogni passo è accompagnato dalle parole - dal sapore arcaico e quasi religioso - di Nonno Kuzja, che indirizzano le scelte e circoscrivono i confini della morale.

Invece Xenja (Eleanor Tomlinson) - ragazza attraente e figlia del medico del paese - è l’anomala scintilla che dividerà per sempre il cammino di Kolyma e Gagarin: la sua mente vagheggia tra le fantasie ed accoglie serenamente la follia, ma il suo corpo sta diventando adulto e “sente” cose che non riesce a decifrare. Nel “Clan dei Siberiani” chiamano “voluti da Dio” i cosiddetti pazzi ed è un obbligo doverli rispettare e proteggere: non andrà così e - senza una precisa ragione - accadrà quello che non sarebbe mai dovuto accadere.

Nel mentre la “Grande Russia” sta disgregandosi ed a breve arriverà la caduta del muro (l’arco temporale della pellicola è compreso nel decennio 1988/1998).

Quindi la “modernità” occuperà ogni spazio rendendo tutto informe e picconando le regole rigorose: da ora in poi le nuove generazioni saranno alberi fragili, pronti a piegarsi al vento forte dell’occidente, quello stesso “soffio demoniaco” che fa nascere palazzi come funghi ed assieme alle merci nei negozi reca con se perdizione e corruzione, disorientando e spazzando via ogni riferimento e certezza.

Salvatores, oltre a metter in primo piano i due ragazzi mentre “combattono la vita” - muovendosi nel mondo aspro ed inospitale che li circonda - sembra interessarsi a tratteggiare qualcosa dell’avvento di questa nuova “liquidità assassina” che cambia la società pre-esistente e spazza via le figure maestre, del “seme nero” che germoglia e profana quello che nei secoli sembrava esser divenuto impenetrabile; poi anche delle incredibili strade che percorrono la fratellanza ed il castigo, liberando gradualmente l’altra linea del suo racconto, quella che ci conduce al nuovo presente che bussa alle porte del duemila, ambientato adesso nello scenario delle terre Caucasiche martoriate dalla guerra e dove avrà luogo anche l’inevitabile epilogo, forse già scritto dal destino come si incide indelebilmente un tatuaggio sulla pelle di un uomo.

Tutto questo viene fotografato da un cinema professionale, pulito e ricercato, molto attento a non sporcarsi le mani con discese agli inferi troppo violente ed introspettive tra le atmosfere che sembra di sentir ansimare ai margini della scena.

Non si forza oltre la mano e così, a conti fatti, la maggior qualità della pellicola resta la sua pregevole confezione estetica oltre all'ottima fruibilità del racconto, lasciando però i più profondi interrogativi sulle regole inesplicabili o al riguardo delle sedimentate tradizioni avvolti nel loro affascinante mistero.

L’affresco generale comunque funziona, talvolta lasciandosi un pochino andare con le colombe bianche (molte…troppe?...) che volano al “rallenty” nell’azzurro del cielo, altre volte cogliendo dettagli migliori come la cacciata dei soldati Russi presi a sputi nella notte dai figli di “Mama Sibirj” o ancora seducendoci con un semplice e simbolico pugnale (la “picca”) che serve tanto a recidere un cordone ombelicale quanto a predire un “incontro di destini” se piantato sulla porta di casa.

Ed alla fine non assisteremo ad una vera e propria resa dei conti ma, più semplicemente, sarà arrivato il tempo per chi si è allontanato di tornare indietro dall’unica strada possibile: quel che la vita ha separato si riunirà nel giorno del giudizio e, solo allora, la lama del coltello tornerà a poter esser impugnata dal suo manico.

lunedì 4 marzo 2013

THE SESSIONS di Bob Lewin


Mark O’ Brien (John Hawkes) divide il suo tempo steso sopra una lettiga o chiuso in un polmone d’acciaio. Il mondo esterno ha per lui dei limiti imposti in quanto a libertà e  possibilità di ampliarne la conoscenza.
Una acuta forma di poliomelite lo ha reso totalmente immobile e per lunghi tratti della giornata è schiavo di una macchina di ferro ma la sua testa pensa e ragiona come quella di chiunque altro, consentendogli ad esempio di frequentare con profitto l'università.
La sua bocca  non è paralizzata come il resto del  corpo, così può raccontare a coloro che gli vivono accanto dell’universo che è dentro di lui – anche questo solo parzialmente esplorato -  oppure semplicemente con un delicato sorriso riuscire a sottolineare gli infiniti accenti che le parole non riescono ad esprimere.
Alla soglia dei quaranta anni è ancora vergine -  nonostante abbia già provato a chiedere ad una ragazza di sposarlo - e sente crescere in lui una curiosità naturale ed istintiva alla quale vuole dare soddisfazione, non prima però di aver chiesto consiglio e “via libera” al suo prete confidente (William H.Macy), avendo ricevuto una educazione fortemente cattolica e professando ancora la sua fede. 
Una terapista sessuale  sensibile e particolare, una donna molto professionale di nome Cheryl Cohen Green (Helen Hunt) sarà uno dei suoi incontri più lieti ed è con lei che si addentrerà alla scoperta del suo corpo e delle possibilità di “comunicare , non solo fisicamente”, con quello di una donna.
Centra davvero il bersaglio il film di Bob Lewin, capace di muoversi tra argomenti scomodi - più di qualcuno sicuramente li definirebbe scottanti -  come sesso, handicap e religione, senza fuggire da questi  nè rifiutando in alcun modo di negare la realtà che compongono,  evitando di  mascherarla con inutili artifici e non tentando di rinchiuderla in improbabili nascondigli,  riuscendo anzi con efficacia a far emergere sostanza e verità.
Né un sorriso di troppo, né una sola lacrima vengono estorti a mezzo di facili pietismi,  semmai risulta  evidente una naturalezza invidiabile nel trattare la storia e di questa agiatezza della pellicola è Helen Hunt il più evidente biglietto da visita, che fa dono senza alcuna inibizione oltre che della sua ottima prova d’attrice anche  del  suo corpo nudo, bello ed a digiuno di incontri con il chirurgo plastico. 
“The sessions” – premiato dal pubblico al “Sundance” – parrebbe ad un primo sguardo solo il racconto di una singola esistenza - con i suoi risvolti  personali e le sue singolari eccezionalità - ed invece a ben vedere si spinge fino al punto di diventare una storia universale, in grado di cogliere aspetti comuni a tutti gli esseri umani e non soltanto di quelli alle prese con delle situazioni oggettive che li rendono “parzialmente diversi”, tenuti al margine da una società  pronta ad accogliere solo determinati standard di individui “privi di  complicazioni aggiunte”.
Mark parte avendo inizialmente come obiettivo quello di “toccare una donna e perdere la sua verginità” - conservata fin troppo a lungo - ma attraverso il rapporto con Cheryl otterrà qualcosa di molto più autentico e si ritroverà a dover addirittura considerare che, come il sesso, “altre cose gli sono piaciute allo stesso modo”, come a voler in fondo significare che non era certo quella l’unica vetta da scalare o da raggiungere.
In un motel, come  amanti clandestini qualsiasi, i due protagonisti esploreranno i punti cardinali della sfera emozionale dell’uomo che sono gli stessi per chiunque e prevalentemente oscillano tra  amore, affetto, commozione, sesso e tenerezza.
Nell'insolito rapporto Cheryl conduce da “esperta” Mark alla scoperta del corpo di entrambi non senza dover constatare alla fine di aver ottenuto anch’essa qualcosa di molto rilevante nello scambio, ad esempio dalle parole del suo “paziente/cliente” che volano alte ben al di sopra dell’immobilità dei suoi arti e si tramuteranno per lei in violente scosse emotive.
“The sessions”, oltre a saper aggirare molto bene e senza alcun inciampo ogni dettaglio moralistico e convenzionale,  racconta l’amore e l’attrazione dell’essere umano nelle sue  molteplici forme che non si fermano certo al mero piacere fisico, mettendo in campo tutte le sue  complicate “negoziazioni”, gli imbarazzi, i rifiuti e non ultime le inaspettate scoperte e gli incontri - anche fortuiti e forniti all'improvviso dal destino - che rendono ogni esistenza un viaggio incredibile, sempre aperto alla  speranza per tutti.
Il film di Lewin – al quale il regista offre probabilmente un approccio corredato di una consapevolezza ed una  sensibilità determinanti, essendo anch’egli affetto da una forma meno grave di poliomelite - è liberamente ispirato alla vita del vero Mark O’Brien, un poeta e giornalista immobilizzato dalla malattia fin da bambino.
La sua vita  fu già portata all’attenzione del pubblico  da Jessica Yu, vincitrice dell’oscar di categoria nel 1996 con il corto-documentario “Breathing Lessons”;  stavolta la genesi parte da un articolo dello stesso O' Brien dal titolo  “On seeing a sex surrogate”.
Magari  “The sessions” non sorprende per la sua fattura e per dirla tutta  nemmeno affonda appieno tra gli infiniti spunti di riflessione che il tema offrirebbe ma senza dubbio stupisce per la sua leggerezza unità alla buonissima incisività, oltre alla totale assenza di elementi ipocriti e ricattatori, proponendosi come una piacevole escursione cinematografica perfettamente in equilibrio tra commozione, riflessione ed una inaspettata spensieratezza.