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giovedì 20 febbraio 2014

EFFEMMECINEMA diventa "CINESHO(R)TSbyEFFEMME"


EFFEMMECINEMA continua altrove...

In una nuova veste "ma non troppo",
per poter continuare a condividere assieme "emozioni e parole" di Cinema.

Avevo bisogno di recuperare del tempo per "altre cose"...Dunque "COLPI" precisi e più "CORTI", d'ora in poi...

"CINESHO(r)TSbyEFFEMME"
        
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martedì 11 febbraio 2014

SMETTO QUANDO VOGLIO di Sidney Sibilia


Resuscitare la commedia all’italiana, da diversi anni a questa parte sembra esser diventata una sorta di “emergenza nazionale di minoranza”: i tentativi di soccorso si sono succeduti con vario impeto ma quasi mai sono arrivati a buon fine.

Ci prova stavolta l’esordiente Sidney Sibilia con il suo “Smetto quando voglio”: in produzione Matteo Rovere assieme alla “Fandango” di Domenico Procacci.

Nel paese dei “cervelli in fuga” – la nostra Italia, per l’appunto - c’è ancora chi decide di rimanere: attenzione però, perchè qualcuno tra questi – colpito dallo sconforto interiore e dalle ristrettezze economiche - potrebbe cominciare a prodigarsi in mansioni non proprio consuete ed attività ai margini della legalità.

Nel film di Sibilia sette capaci laureati - con le ambizioni anestetizzate e travolti dalle difficoltà quotidiane - anziché metter a frutto il loro ingegno nel campo di propria competenza sono ridotti a barcamenarsi come qualsiasi disperato del nuovo millennio “senza arte né parte”.

Due latinisti (Mattia/Valerio Aprea e Giorgio/Lorenzo Lavia, figlio di Gabriele), si arrabattano a lavorar di notte presso una pompa di benzina, pagati a nero dal principale Cingalese; un antropologo (Andrea/Pietro Sermonti) tenta di riciclarsi presso uno “sfasciacarrozze”, arrivando persino a dichiararsi “pentito” dei suoi studi giovanili; un archeologo classico (Arturo/Paolo Calabresi) gira con il furgone del Ministero (che si rivelerà assai utile in seguito…) e sorveglia in cantiere i suoi operai, troppo impetuosi con il martello pneumatico; un laureato in economia (Bartolomeo/Libero De Rienzo), convinto che a poker si possano contare le carte si diletta a giocare – a corto di contante – sfidando pericolosamente la pazienza di burberi energumeni “sinti-circensi” mentre un chimico geniale (Alberto/Stefano Fresi) è costretto nella cucina di un ristorante cinese, sognando di scalare un giorno da lavapiatti a cameriere, per poter ambire finalmente ad un salario da settecento euro al mese!

Completa il quadro un brillante neurobiologo (Pietro Zinni/Edoardo Leo), autore di un algoritmo rivoluzionario verso il quale però non sembra esserci grande interesse da parte delle istituzioni che assegnano riconoscimenti e fondi, cosìcchè a lui ed alla sua compagna (Giulia/Valeria Solarino) - che di mestiere fa l’assistente sociale e si occupa del recupero dei tossicodipendenti - non rimane che pagare le rate dell’ascensore ed il sogno di una nuova lavastoviglie a far da propellente erotico.

Proprio al professor Zinni verrà l’intuizione fulminante di teorizzare una “particolare molecola” ottenendone una “droga spaziale e definitiva” che, velocemente, si trasformerà in denaro sonante. Raccoglierà attorno a se i suoi “colleghi” e li trasformerà in complici, assemblando una “estemporanea combriccola” che sedurrà in un batter d’occhi “tossici clienti” di diversa estrazione sociale.

Implicazioni morali a parte, tutto sembrerebbe finalmente veleggiare con il vento in poppa, anche perchè “il losco traffico” - dal momento che la formula del “prodotto” non è ancora stata catalogata negli elenchi del Ministero della Salute relativi alle nocive “smart drugs” – risulterebbe essere addirittura legale. Ma, nemmeno a dirlo, ben presto cominceranno i guai...

Come recita la locandina “meglio ricercati che ricercatori” e così ecco che questi giovani che sanno “solo studiare” mettono a punto (ovvero “studiano”) un piano per riprendersi la “dignità scientifica” che gli spetta, assieme al giusto corrispettivo economico.

Questa banda di “Dottori alla canna del gas” che si trasforma in un “gruppo di compravendita” di sostanze psicotrope richiama subito alla mente film come “I soliti ignoti” o “La banda degli onesti” oppure, nella moderna fluidità dello stile, il più recente “Full Monthy”, paragoni pregevoli rispetto ai quali non c’è certamente intenzione di plagio ma al massimo un deferente omaggio.

Sidney Sibilia, classe ‘81, dal canto suo ha sperimentato sulla propria pelle quanto sia difficile sbarcare il lunario: infatti, prima di approdare dietro alla macchina da presa, ha lavorato a Londra presso un fast food, nei villaggi turistici ed infine nello studio di una agenzia pubblicitaria.

La genuinità del suo approccio, unita al lavoro professionale del cast ed alla buona cura della sceneggiatura (dello stesso Sibilia assieme ad Andrea Garello e Valerio Attanasio) ci regala un film fresco ed intraprendente, forse non sempre in grado di divertirci come vorrebbe o di mantenere il picco del suo potenziale.

Smetto quando voglio” è comunque una salutare ventata di comicità al netto di facili espedienti e volgarità, in grado di delineare con gusto e perspicacia il quadro inquietante della nostra disoccupazione giovanile ed il dramma delle risorse sprecate, utilizzando la giusta dose di ironia per cogliere più di un aspetto della tematica.

Manca il fuoriclasse “vero”, quello che sappia strappare risate all'unisono, quindi si lavora “in orchestra” e lo si fa egregiamente, raggiungendo probabilmente la vetta nel frangente della rapina in farmacia, fatta con “armi catalogate all’Hermitage”; divertenti anche i tentativi di “raccogliere prove empiriche” da parte del “chimico Alberto”, tra discoteche ed avances omosessuali sul divano, oppure l'accenno all’uso dei prefissi “Boliviani” come escamotages per evitare intercettazioni telefoniche. Sorprenderà infine scoprire quanto il pericoloso “Er Murena” (un improbabile e sfregiato malavitoso interpretato da Neri Marcorè) abbia in comune con i nostri “criminali/ricercatori” rispetto a quel che avevamo considerato!


Nonostante qualche prevedibilità di troppo e le risate a intermittenza “Smetto quando voglio” è da considerarsi un riuscitissimo lavoro artigianale, che traccia un solco semplice quanto coraggioso, da imitare e migliorare: dategli fiducia e fate un salto in sala, prima che i soliti “spacciatori di cine-cialtronerie” vi risucchino nuovamente cervello e sorrisi con la loro disgustosa “roba avariata”.

venerdì 7 febbraio 2014

A PROPOSITO DI DAVIS di Ethan e Joel Coen


Il nuovo film di Ethan e Joel Coen è una commedia ammaliante e malinconica.

Ambientato a New York, nel Greenwich Village degli anni '60 – che avrebbe visto l'inizio della carriera di talenti del calibro di Bob Dylan - la pellicola prende spunto dalla figura del cantante Dave Van Ronk (1936-2002), che ispira anche il titolo originale “Inside Llewyn Davis”, ricalcante quello di un album del 1964 “Inside Dave Van Ronk”.

Ma il film dei due fratelli Statunitensi non è una biografia, vive di vita propria e sembra essere una sorta di prosecuzione del precedente “A Serious Man”, stavolta in chiave folk e senza echi religiosi.

Llewyn Davis (Oscar Isaac) è un artista squattrinato e di talento. Nel freddo inverno NewYorkese gira per le strade con la chitarra in mano: per lui invece dei soldi delle “royalties” c'è un cappotto usato. Non ha un tetto sotto il quale riposare e Jean (Carey Mulligan) - la ragazza che talvolta lo ospita e che forse ha messo incinta - lo tratta con disprezzo e toni al vetriolo e lo paragona al “fratello idiota di Re Mida”, ovvero uno che quel che tocca non lo fa diventare precisamente oro ma piuttosto qualcosa di inutile e maleodorante.

Llewyn però, nonostante la fortuna sembri continuamente voltargli le spalle, proverà ad inseguire caparbiamente i suoi sogni e partirà per Chicago, viaggiando in auto assieme ad una strana compagnia: il cantante eroinomane ed ormai malfermo sulle gambe Roland Turner (interpretato da John Goodman, attore feticcio dei Coen) ed il suo “valletto” Johnny Five (Garret Hedlund).

In un “club” deserto terrà un'audizione di fronte a “Bud” Grossman (nomignolo di Albert Bernard Grossman, interpretato da F.Murray Abraham), manager musicale della scena folk e rock di quegli anni, realmente esistito e noto per aver avuto tra i suoi “clienti” anche Bob Dylan e Janes Joplin.

Tra i tavolini del locale Llewyn canterà la struggente ballata “The death of Queen Jane”, al termine della quale il commento lapidario di Grossman sarà purtroppo un poco incoraggiante “Qui non ci vedo soldi!”

A proposito di Davis” è un film dalle atmosfere dense ed ai limiti con l'assurdo, dove incontriamo strani “protagonisti” (gatti, uomini, cani) e percorriamo molta strada, tra asfalto e metafora, buio e fiocchi di neve.

Una fusione che possa dirsi riuscita tra musica e racconto è davvero rara ma, questa struggente storia di un uomo che si dibatte tra le onde della vita inseguendo i suoi sogni sembra davvero coronare questa alchimia.

La fotografia di Bruno Delbonnel regala magnifici colori lattiginosi che sembrano far respirare ogni istante di vita faticosa ed affannata, così come irradia calore per pochi secondi il primo piano di una puntina di giradischi che corre circolare  lungo  il nero del vinile.

Dell'autobiografia di Van Ronk “Manhattan Folk Story”(Edizioni BUR) – fonte ispiratrice del film - ipotizziamo possano esser rimasti i riferimenti al reale, le luci ed il fumo dei locali; le sue canzoni (come la splendida “Hang me, oh hang me” cantata dallo stesso Oscar Isaac), qualche aneddoto riveduto e corretto, i sentimenti forti come il coraggio di andare avanti contro ogni avversità e lo sconforto di esser continuamente respinti dalla vita ma, quel che più di tutto seduce, è il carismatico ed inconfondibile tocco dei Coen.

Decisamente distante dal soltanto gradevole esercizio di stile dell'ultimo “Il Grinta”, come dicevamo in apertura “A proposito di Davis” è molto più vicino alle bislacche peripezie del professore di fisica Larry Gopnik, protagonista del loro lavoro precedente.

Anche stavolta aleggiano instancabilmente messaggi che paiono essere inafferrabili e la storia è pervasa da un fascino misterioso. Ogni mestizia e sfortuna lasciano decantare una successiva indicazione, ogni cosa, dopo un lungo girovagare, sembrerà trovare quiete e collocarsi al suo giusto posto.


Parrà nulla di significante o roba già vista, raccontata e sentita in altre forme centinaia di volte: esattamente come una canzone folk che “che non è mai stata nuova ma nemmeno invecchia” oppure - come più di una volta capita – l'ennesimo splendido lungometraggio di Ethan e Joel Coen.

sabato 1 febbraio 2014

THE WOLF OF WALL STREET di Martin Scorsese


Martin Scorsese e Leonardo di Caprio tornano a far coppia al cinema con una commedia dai toni “survoltati” e dal retrogusto velenoso sugli eccessi attorno al mondo della finanza, ponendo l'attenzione su “alcuni” dei suoi incontrollabili effetti collaterali.

La pellicola si ispira alla vicenda reale di Jordan Belfort, uno spregiudicato uomo d’affari la cui ascesa e rovina fu tra gli anni ’80 e ’90 ed autore del romanzo “The wolf of Wall Street”, da cui il film prende il titolo.

Di Caprio presta il volto a Belfort e passa una buona parte del film spiegando cosa si deve fare per sopravvivere in un mondo di squali e diventare veri cantori del “Vangelo del denaro”, guardando qualche volta anche in camera e così rivolgendosi direttamente a noi spettatori.

Sembrerebbero esservi ricette e soprattutto ingredienti imprescindibili: anzitutto droghe, niente affatto in modica quantità ma al contrario assunte con costante abbondanza e varietà. Nulla parrebbe però in grado di aumentare a dismisura il tasso di adrenalina come l’accumulazione forsennata ed ininterrotta di mazzette di dollari fruscianti.

Il processo è “circolare” (ed a suo modo virtuoso!), ovvero ci si droga per spacciare subito dopo “altra droga” ai clienti. Per questi però niente eroina, cocaina o altre sostanze simili bensì letali “Penny Stock”, al cinquanta per cento di provvigione ma solo per chi vende! Bisogna sbolognare in fretta migliaia di titoli senza garanzia - o “immondizia pura” - al fine di portare a casa cospicue commissioni.

Un “mare di banconote” – scontato dirlo - è l’elemento naturale dove amano nuotare donne discinte, appariscenti e disponibili e ben presto nella pellicola di Scorsese si moltiplicano le situazioni bollenti. In breve tutto diviene straripante e sconfina nel grottesco, con facilità si oltrepassa ogni limite. “Sodoma e Gomorra” oppure gli States? Impossibile distinguere!

The wolf of Wall Street” per lunghissimi tratti è uno scatenato festival degli eccessi: gli avvenimenti si susseguono come i kilometri in una folle gara automobilistica, dove il percorso è ricco di curve iperboliche e ad ogni passaggio si rischia seriamente di finire fuori strada. Però, una volta superato l’ostacolo, ecco che la spasmodica corsa riprende ancor più all’impazzata, con gran rombo di motori e mai nessuno che si sogni di pigiare sul freno.

La degenerazione diviene abitudine e la ricchezza ipertrofica il minimo da pretendere: week-end da due milioni di dollari, avvocati da settecento bigliettoni l’ora, pacchetti quotidiani di incassi da cinquantamila per ogni prestanome e, per foraggiare tutto questo, c'è bisogno di infinite telefonate per vendere azioni su azioni, da ficcare giù per la gola ai clienti, finchè non si strozzano!

Intanto Belfort verrà colto dalla moglie Teresa “con le mani dentro la marmellata” o sarebbe meglio dire tra i biondi capelli di una donna! Sul momento, annichilito, non fiaterà nemmeno una parola: il cervello invaso da un ronzare di pensieri del tipo “Cosa ho fatto, mi dispiace, sono un verme!” Nemmeno tre giorni dopo arriverà il divorzio ed a seguire un nuovo matrimonio con la procace Naomi (Margot Robbie): uno scafo lungo cinquantadue metri con il suo nome a prua sarà lo spropositato regalo di nozze!

Guasterà la festa il solito “pedante” agente dell’ F.B.I. (Kyle Chandler), che una mattina si presenterà a bordo dell'enorme natante – simile a quello del “cattivo di 007” - con ogni probabilità ancora sudaticcio per aver viaggiato nella metropolitana affollata e magari con indosso lo stesso vestito dei tre giorni precedenti!

Un mondo di perdizione, dissennatezza e con bassissimo tasso di scrupoli: questo è quello che Scorsese e Di Caprio provano a mettere a nudo con frenetica ironia. Nessuna parvenza di onestà e di morale sembrano avere residenza.

The wolf of Wall Street” non è una pellicola che voglia perdersi in tecnicismi e profondi ragionamenti: lo scopo principale sembra esser quello di spiattellarci addosso un quadro debordante di elementi, una bulimia di continue follie di fronte alla quale esultare ingolositi oppure arrivare a provare un ripugnante ribrezzo.

Gli “Strattoniani” - da “Stratton Oakmont”, il nome della società di brokeraggio fondata da Belfort - sono una setta, forse una “razza a parte”, che vede il mondo esclusivamente dal versante del guadagno infinito; tutta gente che ripudia la sobrietà (in ogni senso!....) e la considera come qualcosa di estremamente noioso.

Tutto sembra assurdo e distante rispetto alle nostre piccole ed ordinarie abitudini: ma c’è davvero qualcuno che vorrebbe vivere per sempre in un mondo normale?

La regia navigata di Scorsese descrive una sorta di incontenibile “babele” dando ampio sfogo ad un plateale gusto del divertimento. Molte le situazioni esilaranti: su tutte quella con Di Caprio che striscia verso la sua Lamborghini bianca sopraffatto da un “Quaalud d’annata” (Un “Lemmon 714”); poi, una volta a casa, per soccorrere il suo collega d’affari (Donnie Azoff/Jonah Hill) – che “strafatto” rischia di strozzarsi - si verserà copiosamente cocaina direttamente nella narice, convinto forse di ottenere il medesimo effetto energizzante di Braccio di Ferro che, dallo schermo della televisione, sembra osservarlo attonito, ingurgitando spinaci.

Belfort/Di Caprio per tre ore freme e si agita come posseduto da un demoniaco bisogno di guadagnare: esorta, arringa, digrigna i denti e svezza il branco di lupi che ha accolto nella sua tana e alla fine sarà l’istinto che li farà mangiare l’un con l’altro.

The wolf of Wall Street” evita per scelta “la trappola” di render conto del più ampio quadro generale degli eventi: decontestualizza, tralascia di entrare nel dettaglio dei devastanti effetti economici a catena, sia negli Stati Uniti che nel mondo. Non è della “crisi” di ieri né di quella di oggi che si vuole parlare, nessuna notizia ci viene fornita sugli investitori truffati e sulle loro disgrazie, nessun particolare sulle leggi o sulle situazioni auspicabili per porre un argine reale ad un disastroso modo di agire e fare affari, sulla pelle di migliaia di malcapitati.

Il regista NewYorkese ha in mente di fare principalmente “divertimento d’autore” ma anche di andare “visivamente dritto al sodo”, sferrandoci un “diretto” nello stomaco, portando oltre la nostra già fervida immaginazione, più verosimilmente cercando di provocare sconcerto e (forse) disgusto mentre - beninteso! – ci “depista” facendoci sbellicare dal ridere.


Quel che “dipinge” è niente altro che l’inferno eppure sembra proprio il paradiso! Se dovesse piacervi, lanciatevi pure alla sua conquista: basta “prendere e truffare”!