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lunedì 27 maggio 2013

BELLAS MARIPOSAS di Salvatore Mereu


Cate (Sara Podda) è una bambina di nemmeno tredici anni che vive nella periferia di Cagliari.
A casa sua nemmeno dormire è facile  perché già dalle tre di notte la signora Sias, al piano di sopra, rumoreggia nella vasca facendo il bagno ed “altre cose”; poi è il turno dei suoi tanti fratelli, che cominciano a rientrare in ordine sparso e con i quali condivide  la stessa camera per dormire.
Ad esempio Alex, di poco piu’ grande, si è fatto di eroina ed ora, prima di chiudere gli occhi sopra il materasso, si spara l’ultima “pera”; Mandarina invece si prostituisce da quando aveva la sua stessa età  e come ogni giorno  rientra alle prime  luci dell’alba per riposare un po’ e poi provare a badare ai suoi figli.
Fortuna che c’è la sua amica Luna (Maya Mulas), con la quale condividere il resto della giornata, magari andando al mare alla spiaggia “dei ricchi” e stendendo l’asciugamano vicino all’ombrellone di qualche signora gentile.
Lei e Luna pensano le stesse cose nel medesimo istante, sono come sorelle…anzi forse lo sono davvero perché il babbo di Caterina – un vecchio sporcaccione scansafatiche che, alle cinque del mattino, si chiude in bagno col televisore per farsi le seghe con gli spogliarelli delle signorine e l’autobus lo prende solamente per strusciarsi addosso alle femmine - qualche tempo fa ha avuto una storia con la madre di Luna e si sa che a pensar male molto spesso ci si indovina.
Tutte queste cose Cate le racconta a noi spettatori guardando dritto in camera e conferendogli una inconsueta leggiadria, grazie al sorriso tranquillo  con il quale ci porge ogni parola.
Ma nel sorprendente film di Salvatore Mereu tutto viene liberato del suo fardello e si vola alto sul degrado e sulle disgrazie quotidiane, grazie a toni da poesia e soluzioni narrative che strizzano l’occhio ad una dimensione che, a tratti, pare volger quasi ad un “assurdo fiabesco”.
Tratto dal romanzo omonimo di Sergio Atzeni (Edizioni Sellerio), “Bellas Mariposas” è la cronistoria di una giornata nei sobborghi assolati della Sardegna, dove gli adolescenti ed i grandi sfrecciano sui motorini come angeli ma sono bastardi come diavoli mentre i piu’ piccoli - come Maya e Luna - vagano di gelato in gelato (se hanno il denaro per comprarli) e  di autobus in autobus, districandosi tra laidi adescatori ed altri pericoli.
Poi indossano il loro costume olimpionico, che per loro è come una corazza – anche se i maschi vorrebbero vederle in due pezzi a mostrare le tette che ancora debbono crescere – e  nuotano nel mare, dimenticando ogni cosa.
Sott’acqua sentono il loro respiro, poi riaffiorano in superficie a farsi baciare il viso dal sole: forse dovevano nascer pesci, anche se talvolta  sentono di somigliarci ma a quelli rossi, presi per la coda e tirati fuori dalla loro vaschetta trasparente, tale e quale a quella che sta nel bagno di casa di Cate.
“Bellas Mariposas - spiega Mereu - è stato girato in progressione cronologica: anche se questo ha comportato costi piu’ onerosi è stato essenziale per far meglio affiatare le due protagoniste tra loro, facendole  crescere in complicità assieme al film.”
I piccoli episodi della giornata, raccontati con estrema grazia dalle immagini di Mereu - che li ha rielaborati per noi partendo dal libro di Atzeni -  ricompongono sullo schermo un quadro di degrado estremamente credibile, fatto più di lupi che di agnelli, dove i sogni e le atmosfere  -  diventare una rockstar (come Marco Carta o Valerio Scanu!...), la gioia della tavola quando c’è un sugo alla menta all’ora di cena o la risolutiva apparizione magica della  “coga” (il cameo della strega Micaela Ramazzotti) -  riescono a smorzare lo squallore e la pesantezza di una realtà “modernamente Pasoliniana”, descritta in modo altrettanto penetrante e verosimile.
Gigi, Tonino, Fisino, Ricciotto…Samantha: ahi, quella passeggiata sul tetto!
Tanti i personaggi ed i destini che si toccano vicini e stretti l’uno all’altro: poi in un attimo c’è chi scappa via furtivo con una valigetta piena di soldi e chi torna a guardare dal basso l’infinito della tromba delle scale che lo sovrasta.
Maya e Luna però sanno bene come vivere giù nella “mischia del mondo”, facendo sopravvivere il loro buon umore e, quando arriva sera, si stendono nello stesso letto, una a fianco dell’altra, dandosi giusto  un bacio innocente sulle labbra: leggere, come due farfalle, prima di dormire.

NO - I GIORNI DELL'ARCOBALENO di Pablo Larrain


1988: dopo 15 anni di feroce dittatura e torture, repressioni  e di  un  liberismo al quale seguirono per la nazione significativi successi economici -  anche se il quaranta per cento della popolazione rimase ad affondare nella palude melmosa dell’indigenza - il Generale Pinochet, messo sotto pressione dall’opinione pubblica internazionale, fu costretto ad indire un referendum attraverso il quale i cittadini furono chiamati a votare il loro “Si” oppure il “No” al  prolungamento del suo governo per altri otto anni.
Nelle sue intenzioni doveva esser niente di più che una commedia tesa a legittimarlo definitivamente ed a rinsaldarlo in sella; comunque, per ulteriore sicurezza e rischiare il meno possibile, concesse alle opposizioni  – frazionate e divise -  appena quindici minuti di televisione in tarda serata come spazio per esprimere le loro ragioni.
Grande sfiducia aleggiava dunque nelle file dei partiti allineati contro la destra al governo e non senza qualche ragione –  mettendo però in risalto anche  una incapacità degli schieramenti di sinistra di andare oltre  un “vittimismo preventivo”, evidentemente  comune ad ogni latitudine del mondo – e si riteneva di dover puntare soltanto ad una onorevole sconfitta, sfruttando nel contempo l’occasione per informare il popolo dei tanti soprusi subiti.
Ma la storia ci dice che le cose andarono in maniera sorprendentemente diversa da quanto ci si potesse aspettare, soprattutto per l’apporto di una campagna pubblicitaria effervescente, molto poco ideologica e  politica, che vide tra i suoi principali ideatori il creativo Renè Saavedra (Gabriel Garcia Benal).
Basandosi anche sulla piece di Antonio Skármeta (quello de “Il postino di Neruda”) dal titolo   “Los dias del arcoiris”   -  pubblicata anche in Italia per  Einaudi - Pablo Larrain chiude la sua trilogia Cilena con un'altra variazione di stile e l’ennesimo  film da non perdere.
Girato in 4/3 e con immagini sgranate per poter meglio amalgamare il materiale di oggi con il repertorio di ieri, “No – I giorni dell’arcobaleno”, sembra davvero un viaggio attualissimo in quella sfida campale che si giocò giorno per giorno - e poi nella sua fase finale per un mese, tutte le sere alla televisione - e che pose “pacificamente” fine al regime di Pinochet.
Proprio sul come questo avvenne è incentrata la pellicola “militante e disincantata” di Larrain (incredibile: è figlio di due esponenti politici dell “ UDI”, partito conservatore di destra!) che coglie in pieno, sottolineandoli con la sua sceneggiatura e messa in scena, i motivi del successo di una campagna di opposizione a base di “spot stile Coca Cola e formato famiglia”, di “jingle” accattivanti (“Cile, la alegria ya viene” - “Cile, l’allegria sta arrivando”, questo lo slogan!) che relegarono in secondo piano la prospettiva del dolore, della sofferenza e degli abusi, trasformando la democrazia da concetto profondo a proposta accattivante da vendere come qualsiasi altra merce, con buona pace della memoria dei desaparecidos e dei pestaggi, degli esili e delle mille denunce perse per anni nel vuoto.
Il linguaggio schietto ed ottimista risultò evidentemente attraente ancor più di quello  pomposo, affidato allo slogan “Pais Ganador”, utilizzato dal governo - che in corso d’opera di affidò anch’esso ad un esperto del settore pubblicitario ovvero Lucho Guzman, il capo ufficio di Renè (ancora una volta il bravissimo Alfredo Castro come attore: è lui il “filo rosso” della trilogia cominciata con “Tony Manero” e proseguita con “Post mortem”).  
Saavedra riuscì ad attirare i giovani scettici a digiuno di cultura da “bandiere rosse” ed a catalizzare l’attenzione delle signore avanti con gli anni, facendogli accantonare la paura (ingiustificata)  di tornare nuovamente a fare terribili code per mangiare e procacciarsi altri beni materiali, anche se in favore della promessa di una maggiore libertà ed uguaglianza.
Oltre all’accurata e credibilissima ricostruzione con la quale Larrain ci riporta al clima dell’epoca - mostrando anche le intimidazioni ai “nemici del golpe”, fatte di minacce velate e talvolta anche più esplicite - il vero pregio di “No” è proprio quello di evidenziare l’ambiguità  derivante del successo di una campagna pubblicitaria in sostituzione di una “campagna politica” e che difatti molti esponenti ortodossi di partito rifiutarono a prescindere, bollandola come una pagliacciata.
Pinochet  venne “deposto” ed abbandonato dai suoi generali – complice anche  una crisi economica che lo aveva cominciato a delegittimare anni prima -  ma al suo posto non venne certo ad insediarsi “una nuova ideologia”: uscire da una “dittatura di fatto” sicuramente mutò radicalmente molte situazioni ed alleggerì in misura notevole il carico di violenza, repressione e censura, ma “la sostanza politica e concettuale” delle cose cambiò  davvero?
Poco dopo il “compagno pubblicitario” Saavedra riprese il suo mestiere senza colpo ferire, presentando al pubblico - anziché al popolo - la nuova telenovela in arrivo dall’America!

mercoledì 22 maggio 2013

LA GRANDE BELLEZZA di Paolo Sorrentino


Jep Gambardella (Toni Servillo), da ventisei anni vive a Roma e da sempre desiderava finire nel vortice della mondanità – esattamente là dove si trova adesso -  anzi, esserne il principe.
In gioventù fu un promettente scrittore capace di aggiudicarsi il premio “Bancarella” con il libro “L'apparato umano”, scritto che gli aprì le porte della “società bene”; ma ora che compie sessantacinque anni fa una scoperta forse sconvolgente: non puo' più perder tempo a fare quel che non gli va di fare!
Nonostante questa “estemporanea” presa di coscienza le sue giornate continuano a terminare con il sorgere nel nuovo sole -  proprio quando il resto delle città si sveglia – ed i suoi ospiti ad affollare l’ampio terrazzo di casa con vista sul Colosseo, uno spazio che talvolta somiglia al quadrato di un ring dove volano parole taglienti, cattiverie ed aspre scorrettezze anziché cazzotti.
Molti i drink ed i bicchieri tintinnanti lungo le notti svogliate che si trascinano fino all’alba, mai però così tanti da render le persone moleste: ed in fondo nemmeno avrebbero la forza di esserlo i “prototipi moderno-borghesi” che Sorrentino mette in primo piano nel suo ultimo film, controfigure di loro stessi che affondano con lenta consapevolezza nella mediocrità cafona,  mentre danzano sul pallore della loro vita a passo stanco, circondati da un cattivo gusto debordante ed a ben guardarlo persino imbarazzante.
Una Roma pelandrona e senza nerbo, oziosa ed odiosa, è il set ideale per metter in scena l'apatica ed annoiata lascivia del nostro tempo e Sorrentino aggiorna ad oggi “La Dolcevita” di Felliniana memoria con una sequenza di cartoline amare e cupe, talvolta forti delle sue visioni surreali,  confezionate con chirurgica precisione tecnica.
Ogni cosa sembra soffocare e cristallizzarsi senza rimedio: i suoi vitelloni stanchi, scrittori da romanzetto o millantatori di false sofferenze e vocazioni civili che furono, masticano amaro rimpianti ed insoddisfazioni, ostentano sorrisi e false serenità.
Si nutrono ancora delle loro vanterie seriose, di artifici pedanti e vuoti, vacuità necessarie per evitare il confronto con la loro meschinità.
Affogano nella tristezza appoggiando le labbra al bicchiere, tallonati dagli anni non trovano più nemmeno la forza per aver nostalgia dell'odore dei fiori o dei loro vent'anni: hanno perso l'attitudine alle belle cose!
Jep ed i suoi “simili” si muovono come fossero stanchi “morti viventi” nella notte, in mezzo alle bellezze antiche ed inerti della Capitale ed i monumenti attorno a loro sembrano divenire un antico e  gigantesco sepolcro che li avvolge; nella penombra – bella la grana fotografica di Luca Bigazzi -  i volti di marmo delle statue paiono osservarli con severa commiserazione, o  forse si tratta di  pietà! Poi, con benignità, volgono lo sguardo altrove.
Sorrentino usa il suo talento per disegnare ritratti impietosi e volgari che, partendo dall'indolenza di una romanità borghese che ha dissipato ogni illusione e concretezza, alludono forse anche ad un panorama ben piu' ampio, che è quello di un generale declino italiano.
Le sue visioni, forti al solito anche di “percezioni” che contaminano il reale di tratti survoltati, aprono squarci dolorosi sulla verità vana del nostro tempo: “Guru del Botox” con la siringa tra le dita vendono iniezioni di finta bellezza a settecento  euro a puntura (milleduecento se “hai tradito o deragliato dal percorso”); la “Santa” è una comparizione quasi onirica ed il suo “soffio divino” fa volar via i fenicotteri dal terrazzo, regalando ai nostri occhi una piccola suggestione fantastica.
I Principi veri si annoiano al tavolo da gioco mentre altri  nobili a noleggio, costretti a vivere nello scantinato delle proprie case, noleggiano se stessi per duecentocinquanta euro a “comparsa”, auto esclusa;  artisti concettuali e provocatori non sanno nemmeno di cosa parlano e rilasciano affermazioni ridicole,  convinti d’avere un radar personale per intercettare il mondo.
Intanto, sotto tutto il chiacchiericcio ed il rumore, sedimenta “la vita che non è stata”, il silenzio ed il sentimento, la bellezza e la paura.
Lasciandosi prevaricare di tanto in tanto dal troppo luccicante design degli appartamenti di lusso scelti per i suoi set, concedendo forse un pochino troppo la sua attenzione alla cura maniacale del dettaglio e ad una propensione per una immagina pulita e perfetta (che in alcuni casi rischia di sconfinare in un'algida freddezza), Sorrentino trova comunque il passo giusto per portare in luce l’insostenibile volgarità cafona dei salotti “d’alto bordo”, le baracconate travestite da eleganza per le quali un confronto di pochi secondi con la bella Fanny Ardant che illumina la notte in strada sono un abbagliante contraltare.
Tranne Servillo - che è il “trait d’union” del racconto - i suoi protagonisti (Verdone, Ferilli, Buccirosso e molti altri volti noti che compaiono anche solo per pochi minuti) rimangono in secondo piano rispetto al quadro generale: è l’insieme di una società decadente,  irrimediabilmente distante dai sogni, dall'innocenza e da qualsiasi consistenza, quello che si vuole descrivere, privilegiando soprattutto la costruzione per immagini, usate al meglio e con  grande efficacia; a supporto considerazioni sparse dal sapore letterario e filosofico, talvolta incisive ma non sempre organicamente inserite nei dialoghi.
Sceneggiato con Umberto Contarello “La grande bellezza” magari non varrà un trionfo a Cannes ma è abbastanza impietoso per farci  male e lasciare un segno indelebile, estetico e di sostanza, a futura memoria.
Il mondo degli esseri umani è seducente e feroce: della sua vera bellezza Sorrentino nulla ci mostra, totalmente sbilanciato ad osservare il  “versante nero”  con grande crudeltà cinematografica.
Una festa amara per gli occhi, uno stillicidio devastante per la speranza e per l'anima.

lunedì 13 maggio 2013

QUIJOTE di Mimmo Paladino


Quale il messaggio delle nuvole? Quali i segreti dietro il colpo dali del falco? Queste le domande ed i pensieri di un pazzo che volle farsicavaliere erranteper liberare il mondo dalle ingiustizie e dai soprusi, spazzar via i vizi e riportare in terra la virtù, i valori della fedeltà e della lealtà, del coraggio e dellonestà, andando a cercare il regno diunisola meravigliosa”, lontana dal mondo e da tutti i suoi guai.
Don Chisciotte segue la sua urgenza diraccontare agli occhi tutto ciò che nasconde il ventre della terracosìcome Mimmo Paladino - esponente dellatransavanguardia italiana”- asseconda la necessità di sovrapporre e transitare il suo messaggio artistico verso un approdo cinematografico.
Il suoQuijote (presentato nel 2006 al Festival del Cinema di Venezia) è unopera anchessa errante, tra cinema e arte, un dialogare di linguaggi differenti che segue logiche oniriche e fantastiche molto piuche quelle dellomologazione stilistica, meno che mai dei suggerimenti del mercato.
Paladino persegue il suo obiettivo, tira dritto senza badare a molto altro che al suo ideale estetico e propone una sequela di visioni darte moderna dove incastona i suoiattori serventi - tra gli altri Peppe Servillo nel ruolo di Don Chisciotte e il suo fido scudiero Sancho Panza affidato invece ad uno stralunato Lucio Dallausando lo schermo come fosse una tela o lo spazio buono per una installazione.
Vengono proposte un insieme di suggestioni che vanno dagli attraenti panorami del Beneventano - terra di nascita del regista nato a Paduli – fino agli echi letterari di Joyce, passando per la citazione cinematografica di Ingmar Bergman e del suo “Il settimo sigillo”, con la morte (che è “solo puntale e non certo spietata”) impersonata da Remo Girone.
Quijoteeun lavoro fatto di figure, ombre e paesaggi, di una staticità che forse alberga impropriamente il territorio cinematografico e sceglie di rinunciare quasi del tutto alle sue possibilità dinamiche, regalando in cambio allo spettatore parole auliche o popolari, quadri visionari ed estetici dal forte gusto pittorico.
Il respiro dinsieme è teatrale ed assieme astratto ma, una inquadratura dopo laltra, conquista lo spettatore che abbia il gusto ed il piacere di abitare quel territorio di immagini, rimandi e citazioni che scavano e ci penetrano con ferma ed inarrestabile convinzione.
Quijoteècinema dartista”, una ibridazione di illusioni pittoriche e composizioni raffinate, dove trovano posto lo sbigottimento delluomo che guarda alle cose attraverso gli occhi di un gigante o di un pazzo - fino a scorgerne la vera natura - assieme allostupore e la meraviglia del mondo”, che rimandano al personaggio di Federico II (“Stupor mundi”).
Don Chisciotte ed il suo universo sono trasportati in una nuova dimensione, in un gioco di contaminazione che corteggia occhi, mente ed anima del cinefilo e dell’esteta.

Paladino asserve il mezzo cinematografico al suo scopo con sufficiente bravura ed una dose invidiabile di spericolato coraggio, cogliendo un risultato dal sapore straniante e pure coinvolgente, capace di rileggere una figura senza tempo utilizzando nuove coordinate artistiche di indubbio valore.