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giovedì 27 giugno 2013

TO BE OR NOT TO BE di Ernst Lubitsch


A Varsavia, nel 1939, Hitler osserva la vetrina di un negozio di ghiottonerie: forse questo vegetariano che talvolta si ingoia intere nazioni è anche  goloso di dolci? Niente affatto: si tratta solo del Sig.Bronsky (Tom Dugan), una attore della compagnia polacca di Josef (Jack Benny) e Maria Tura (Carole Lombard) , che mentre portano in scena  Shakespeare stanno mettendo a punto un nuovo lavoro dal titolo “Gestapo”.
Purtroppo, di li a poco i tedeschi metteranno in piedi uno “spettacolo” molto piu’ grosso del loro ed occuperanno Varsavia,  senza darne alcun preavviso: comincerà una tragedia senza speranza di sollievo e nessuna censura  potrà  impedirlo!
In teatro, come nella vita, bisogna scegliere con cura la parte giusta da interpretare – ascoltando, quando necessario, anche la voce della propria coscienza – e così ecco che i valenti attori si troveranno a svolgere il loro lavoro per il bene della  Patria, ovvero a dover recitare per salvare se stessi e gli altri connazionali.
Restaurato da “StudioCanal” e coraggiosamente distribuito – in lingua originale e con sottotitoli – da Vieri Razzini e Theodora Film, torna in sala il film di Ernst Lubitsch datato 1942 “To be or not to be” (all’epoca uscì con il titolo di “Vogliamo vivere!”), un esempio strabiliante di come si possa fare un cinema misurato ed al tempo stesso sorprendente.
Non tragga in inganno l’apparente semplicità finale del risultato: dietro vi si cela un  minuzioso ed elaborato lavoro a monte e la forza di una sceneggiatura disseminata di rimandi e piccoli indizi, capace di legare ogni scena o battuta ad un’altra successiva, fino ad intessere  un prezioso testo unico fatto di dialoghi cadenzati con il metronomo  che risulterebbero perfetti per qualsiasi adattamento teatrale.
Totale l’assenza di tempi morti e cose inutili; c’è un’aria di perfezione che persino un profano del  cinema potrebbe sensibilmente avvertire durante la visione. Nessuna ridondanza: solo ricami infiniti da ammirare che compongono un lavoro impeccabile.
Tutto funziona, non ultimo il divertimento ed il tempo comico (il film è una satira sul Nazismo), a partire dalle ridicole ed imbarazzanti situazioni in cui si trova il protagonista Josef Tura.
Egli dapprima si cruccia a causa di uno spettatore che abbandona la platea ogni volta che lui comincia a recitare (basta che lui pronunci le parole “To be or not to be….” dall’Amleto), gettandolo nello sconforto ed in preda alla profonda  frustrazione dell’attore che sente di esser snobbato: in realtà la frase è un codice per lo spasimante della moglie che lo attende in camerino.
Tura è’ ancora più colpito nel suo ego di artista ogni qualvolta si rende conto  che nessuno dei suoi interlocutori conosce la fama del suo nome, tranne uno:  il colonnello nazista Ehrhardt (Sig Ruman) detto “Campo di concentramento” (…!...), che lo ha visto recitare a teatro e col quale si ritroverà faccia a faccia sotto mentite spoglie. Ehrhardt gli confesserà personalmente – senza però minimamente sospettare chi ha davvero di fronte -  di ritenere  che “quello che fanno i nazisti alla Polonia lo fa Tura a Shakespeare!”.
A dire il vero anche Mr.Dobosh (Charles Halton), il produttore della compagnia, era piuttosto scettico e preoccupato nel dover affidare le sorti della Polonia “nelle mani di un attore gigione” e, con questo, rimane poco altro da aggiungere sulle presunte qualità artistiche di Josef Tura.
“To be or not to be” è un film senza sbavature,  sempre ligio a seguire impeccabilmente la linea del buon gusto, sagace, dallo humour asciutto e soppesato (sceneggiatura inappuntabile di Edwin Justus Mayer), strepitosamente elegante nel porre in ridicolo i nazisti: inevitabile forse cogliere una similitudine cinematografica con  Chaplin ed “Il grande dittatore”, ma li era soprattutto il singolo a far breccia mentre qui c’è una orchestra intera che suona uno spartito senza stonare una nota!
Alfine, per chi ha sempre sognato di esser un protagonista ed era costretto a portare in scena solo una alabarda nel muto anonimato arriva  il momento di recitare la parte della vita ed ecco Greenberg (Felix Bressart) che ruba le parole dal  “Mercante di Venezia” “Se ci pungete non sanguiniamo, se ci avvelenate non  moriamo?”
Piange come Shylock il popolo Polacco e mai come in certi casi risulta  evidente che la finzione dell’arte e la vita viaggino sempre su binari vicini, che ogni tanto si incrociano, per continuare poi per proprio conto, solo fino alla prossima stazione dove, probabilmente, si incroceranno di nuovo!

mercoledì 26 giugno 2013

HOLY MOTORS di Leos Carax


Che il cinema sia qualcosa che appartiene a noi tutti, questo  film che resuscita Leos Carax nel suo ruolo attivo di regista lo dimostra ampiamente e seguendo ispirazioni sorprendenti.
Forse è “Holy Motors” a non essere un film facile  “per” tutti anche se, nonostante questa considerazione, va “necessariamente consigliato” ad ogni appassionato delle settima arte e classificato indubbiamente tra gli “imperdibili”.
Innegabilmente ostico e perso nei meandri della sua idea con la quale intende magnificare tutto quel che il cinema può darci, ogni sensazione ed elargizione di bellezza, Leos Carax  (il suo nome d'arte è un anagramma cinematograficamente sognante di Oscar e Alex Dupont, il nome di battesimo del regista) ci invita a seguirlo e soprattutto ad assecondarlo senza  porci troppe domande e sorvolando su alcune mancanze o conseguenze logiche.
La libertà è totale, nulla è vero ma tutto provoca emozione, riflessione e scuotimento: le immagini sono dolci e mai oltre il limite (anche se danno talvolta l’impressione di superarlo), quando cadono petali di fiore o indugiano su un membro in erezione.
Il suo protagonista (Denis Lavant) ha nove appuntamenti ai quali non puo' mancare e naviga la città con la sua limousine: è un attore che non presta solo la sua recitazione ai personaggi ma tutta la sua carne ed ogni particella di emozione, si sfibra e si rigenera “con noi e per noi”.
Ora è una vecchia mendicante, poi inscena una danza avvolgente, a tratti elegante ed a tratti erotica che la “motion capture” restituisce in una nuova forma, generata però dallo sforzo dell'uomo, anzi dell'artista che profonde tutto il suo impegno e dona tutto se stesso.
Nel mezzo della pellicola, per chi avesse smarrito la strada, un dialogo illuminante con un “ospite” che entra nella limousine/camerino: “Ti piace il lavoro che fai? Sai che alcuni non credono a quello che vedono? Cosa ti fa andare avanti?” “Continuo per il motivo per il quale ho cominciato: per la bellezza del gesto!”
L'autista (una donna/Edith Scob), che una volta era una ballerina, continua a portarlo in giro per la città, tra i palazzi e le ombre della notte che avvolgono pian piano tutto tranne le gioie, gli struggimenti e le sofferenze che continuano (o vengono interpretate e “restituite”) sul tetto dei vecchi magazzini “Samaritane” (dove troviamo Kilye Minogue” che puo' esser Eva oppure Jean, hostess oppure donna) oppure in misteriosi anfratti nascosti.
Fuma, beve, si consuma per tutto il giorno il protagonista del film di Carax, segue la sua vocazione senza poter deviare mai dal percorso, a capofitto compie la sua missione, fino al termine del giorno e della notte, quando riposeranno anche le tante autovetture che convoglieranno nel garage “Holy motors”, pronte ad “addormentarsi”, non prima di aver scambiato le loro impressioni sulla giornata (un ennesimo omaggio cinematografico al “Cars” della Pixar?).
Venti minuti si possono recuperare in vent'anni, le due ore di questo film scorrere in un attimo o esser estenuanti per tutta la durata del loro tempo: puo' accadere solo nel cinema, probabilmente!
Una visione non basta, forse nemmeno due per poter scovare i cento omaggi e le moltissime imbeccate poetiche e del pensiero: è una sfida, un viaggio che scava oltre ogni strato del trucco e della pelle.
Ci vuole forse un po' di coraggio per mettersi in viaggio ma è un film che ad ogni minuto che passa si insinua sotto la nostra pelle e che solo i più innamorati possono “amorevolmente infliggersi” e non smetter mai di vedere sospirando.

IL FONDAMENTALISTA RILUTTANTE di Mira Nair


Undici Settembre 2001: a New York, a causa di un epocale attentato terroristico, si sbriciolano davanti alla popolazione inerme le torri gemelle; subito dopo cresceranno infiniti campanilismi per difendere identità non sempre ben indentificate, istigati da interessi vari, da un patriottismo esasperato e dal lavoro dei professionisti della paura.

In un contesto sociale Americano che, dodici anni dopo, non ha ancora sufficientemente stemperato il clima di tensione – Obama, giunto al suo quinto anno, non ha ancora mantenuto la  promessa di chiudere Guantanamo perché passare dalle promesse ai fatti sulle questioni della sicurezza costa evidentemente ancora molto in termini di consenso -  la scelta di Mira Nair di proporre un film che si nutre da queste radici avvelenate ed ha per protagonista un musulmano di origine Pakistana certo risulta assai rischiosa per il botteghino, soprattutto negli U.S.A. ma anche nel resto del mondo, ovunque alligni una cieca partigianeria.

Partendo da un libro di Mohsin Hamid (che ha collaborato anche alla realizzazione del film) la regista indiana ci mostra le varie tappe che scandiscono la vita di Changez Khan (Riz Hamed), dalla sua completa identificazione con il  sogno americano, che lo vedrà in giovane età arruolarsi nelle “forze speciali della finanza” - e per qualche tempo sarà un ottimo soldato dell’esercito economico - fino all’epilogo, anni dopo l’attentato di New York ed il suo avvenuto  ritorno in Pakistan.

La Nair  a dire il vero comincia da qui e va a ritroso, incastrando il presente con numerosi flashback e riuscendo a comporre più di due ore di pellicola dove suspense ed interesse rimangono ben vivi fino al termine.

Molta la carne messa al fuoco, dal conflitto mondiale tra occidente ed oriente - sempre sull’orlo di una nuova accelerazione – alla lotta sociale planetaria (e tutto quel che ne consegue), sottolineando come un solo tratto di penna possa cancellare aziende e dipendenti se questi non sono considerati niente altro che numeri legati ad un fattore di produttività  e non – come invece sono - lavoratori (o poeti!).

Molti gli accenni ai vari temi e contrasti come l’opposizione tra chi crede nella violenza o nella trattativa, la distanza tra i valori e le tradizioni, la debolezza delle democrazie, il sentimento della vendetta e l’appoggio nemmeno troppo nascosto ai dittatori degli stati compiacenti.

Tutto questo imponente bagaglio di argomentazioni porta forse a trascurare  alcune piste interessanti che meriterebbero maggior attenzione e potrebbero esser meglio sviluppate dalla sceneggiatura, come ad esempio il  rapporto – centrale nella storia - tra Erica (Kate Hudson) e Changez.  

Inseguendo l’obiettivo di spiegare tutto comprimendo in poco tempo alcune verità che avrebbero avuto bisogno di affiorare con maggior lentezza, il rischio occorso è stato  quello di  semplificare in maniera esagerata. Così in effetti accade in alcuni passaggi, come quando  vengono accostati a paragone i fondamentalisti religiosi ed i manager di azienda che, in pochi istanti e senza riflettere sulle differenti singole peculiarità, decidono di vite e destini arbitrariamente, oppure quando, per spiegare il presente, un editore di libri Turco si lascia andare ad un  breve – ma interessante -  riassunto  sulla figura dei Giannizzeri.   

Changez, seduto al tavolo con il giornalista Bobby Lincoln (Liev Schreiber), ripercorre tutti gli anni del suo duemila, rivisitandoli attraverso una lente personale ed accompagnando la sua analisi a ritroso ad una visione più generale, così facendo dandoci conto di tutto un blocco della nostra storia più recente.

Sarebbe facile rimanere impantanati in un tripudio di luoghi comuni ma la Nair sembra evitare la trappola, sia  riuscendo a non far scadere ogni  cosa nella banalità ma anche  – pur mettendo assieme forse troppi pensieri e materiali – senza cedere mai al superfluo e non omettendo nulla di quel che potrebbe risultare utile a ricomporre il complicatissimo  quadro d’insieme.

Accattivante quanto basta il ritmo del suo film – ed i suoi stratagemmi d’azione -  nascondono a malapena l’intento principale, ovvero spiegare con semplicità ed il massimo dell’equidistanza possibile l’esplosione del conflitto culturale – e non solo - più importante degli ultimi anni. Il tentativo sarebbe di dare voci alle ragioni di tutti, provando, senza eccedere,  a smorzare i toni.

Dunque arriva dall’India una voce di pace e distensione indirizzata al vicino Pakistan, all’America ed a noi tutti. Se alle anime più calde dovesse sembrare come una lezioncina inutile e persino un po’ spocchiosa si consiglia di rimembrare il vecchio adagio: “L’apparenza inganna e spesso porta a conclusioni sbagliate!”.

lunedì 24 giugno 2013

STOKER di Park Chan Wook


Richard Stoker muore carbonizzato nella sua auto il giorno del diciottesimo compleanno della figlia India (Mia Wasikowska).

La giovane ragazza e la madre Evelyn (Nicole Kidman) non hanno ancora terminato di versare lacrime per il dramma occorsogli  che dentro casa loro si stabilisce il misterioso fratello del defunto: lo zio Charlie (Matthew Goode).

Da dove viene quest’uomo, come mai prima nessuno ne aveva nemmeno sentito parlare e cosa nascondono le misteriose ombre del suo passato?

Mentre la vedova sperimenta il potere di seduzione del nuovo inquilino e India si dibatte tra il dolore e le respingenti domande che fanno vacillare le sue sicurezze ecco che il rapporto tra i soggetti in campo tende già ad un mutamento repentino: un bicchiere di vino color “rosso sangue” cerca di  far breccia con entrambe e di carpirne la benevolenza o, meglio ancora, la loro amicizia. Ma in fondo, non sono già parenti?

Portando con se le tematiche a lui care – violenza e vendetta – ed incastonandole in atmosfere che richiamano il vecchio stile di alcune pellicole di Hollywood tra gli anni ’40 e ‘60, Park Chan Wook da Seul si trasferisce in America: la produzione gli da quaranta giorni di tempo per portare a termine il suo compito e lui la accontenta offrendogli un lavoro raffinato ma decisamente più glamour ed emotivamente inerte rispetto ai precedenti, con i quali ci aveva fin troppo viziato.

La costruzione è ordinata, la compostezza di ogni immagine impeccabile: i candidi fiori bianchi si schizzano di rosso, le matite disposte a misura scompaiono nell’attimo di un click nell’astuccio che le contiene ed ogni stato di agitazione viene ingoiato dagli occhi vitrei dei protagonisti; la partitura di pianoforte a quattro mani è picchiettata da dita che sbattono sui tasti suonando note morbose  mentre esalano in superficie sensazioni languide ed affiorano  le paure.

Lo zio Charlie viene trasposto da “L’ombra del dubbio” del maestro Hitchcock e la doccia nella quale India lava via le angosce, concedendo refrigerio ai suoi frementi ardori, è una evidente citazione da “Psycho”: nessun plagio o presunzione, semmai devozione ammirata che inchioda però il lavoro di Park Chan Wook  ad esser letto alla stregua di un notevole esercizio di stile e ricerca certosina del dettaglio, facendolo inevitabilmente arretrare sul fronte della personalità, accusando anche una certa staticità ed afasia ed una quasi totale assenza  di vere tensioni e colpi di scena.  

E’ un triangolo freddo - nei colori e nella recitazione - quello tra la madre, la figlia ed il  destabilizzante ospite a sorpresa, dove affiorano gli irrisolti rapporti ed i crimini, le follie represse o  nascoste ed attorno al quale giungono infine per formularsi  gli interrogativi cari al regista Coreano come a molti altri della sua schiera: siamo responsabili di cio’ che siamo diventati? E’ l’ambiente e la vicinanza degli altri a renderci violenti oppure è già tutto scritto, addirittura ereditario ed al di fuori del nostro controllo tanto che ci è concesso solamente di poter al massimo deviare o placare gli istinti?

Molte le visioni  d’autore ma non troppo inquiete, sostanzialmente senza la forza necessaria a scuoterci, incapaci di generare troppe domande o soddisfare risposte. Più simile ad un omaggio in guisa da grande appuntamento o ad una citazione possente e prolungata,  “Stoker” è  materia per cinefili di buon gusto  ma rimane ondivaga e fatica a costruirsi una identità propria: si racconterà della sua bellezza innegabile e persino invidiabile – soprattutto rispetto allo scialbo panorama d’attorno – sempre però portando altro a pietra di paragone, come si fa quando tutto è estremamente piacevole ma sa  di già visto e di già accaduto.

IL CASO KERENES di Calin Peter Netzer


Un incidente, un figlio e una madre: Cornelia Kerenes (Luminita Gheorghiu).

Una donna non abituata a chiedere ma ad ottenere: benestante, appartenente alla nuova piccola borghesia Romena ed amica di personaggi facoltosi, con  denari sufficienti a ricacciare lontano ogni spiacevole inconveniente la possa tirar giù nel fango.

Nella notte il suo unico figlio Barbu (Bogdan Dumitrache) ha investito – uccidendolo – un bambino ed ora Cornelia deve tirarlo fuori dai guai: quando  in commissariato, avvolte nelle loro pellicce, appaiono lei e sua sorella Olga (Natasa Raab), i poliziotti capiscono subito la bega che si trovano di fronte.

Proprio per il piglio deciso ed autoritario della madre, Barbu accetta da sempre malvolentieri l’ingerenza di questa nella sua esistenza e vive per proprio conto con la sua  fidanzata Carmen (Llinca Goia).

Cornelia dal canto suo ha uno strano modo di dimostrargli l’affetto materno: quasi sempre in lei finisce per prevalere la volontà di riaffermare la sua influenza e raramente riesce a fare a meno di interferire su questioni che non la riguardano; così, per avere notizie di Barbu, è costretta a mendicarle dalla comune domestica di entrambi, che spolvera il comodino del figlio e le racconta quali libri legge.

Il tragico episodio, inizialmente, sembra esser per Cornelia quasi una questione esclusivamente personale e la donna, attraverso scorrettezze e favori,  si ingegna per piegare   anche questa situazione drammatica in suo favore  e ribadire i ruoli di comando e subalternità, disinteressandosi peraltro totalmente alle ragioni della vittima ed al dolore dei suoi familiari.

Le circostanze però porteranno altrove e forse porranno  le basi  per un cambiamento dei protagonisti  che, tra prese di coscienza ed inevitabili assunzioni di responsabilità, si troveranno costretti a guardare anche oltre i confini dei propri egoismi ed in generale a valutare le cose in maniera  più adulta e razionale.

Orso d’Oro a Berlino 2013, il film di Calin Peter Netzer ruota attorno al rapporto sofferto ed irrisolto tra madre e flglio e “Pozitia copilului”,  il suo titolo originale che fa riferimento alla posizione del feto nell’utero materno, meglio della traduzione italiana ne sottolinea la centralità.

“Il caso Kerenes” mostra anche  la corruzione e la povertà cha fanno da sfondo alla vicenda, alcune vigliacche meschinità delle persone ed i loro caratteri rapaci oltre a rimarcare  ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno,  che la superiorità economica e sociale pone su piani differenti gli esseri umani.

Calin Peter Netzer filma ondeggiando nervosamente con la camera da un lato all’altro del campo e cingendo spesso in ravvicinati primi piani i volti dei  protagonisti.

Il suo racconto si muove tra l’irritante  arroganza di chi si crede superiore e l’ineludibilità del destino e dei fatti che ridisegnano a proprio piacimento le cose; il maggior pregio della  pellicola è quello di riuscire a tenere a fuoco la storia principale tra madre e figlio senza perder d’occhio lo sfondo della Romania Post Comunista, offrendoci  un dimensione a tutto tondo di verità e realismo, toccante e senza fronzoli.  

domenica 23 giugno 2013

LA LEGGENDA DI KASPAR HAUSER di Davide Manuli


Riappare, stavolta dalle acque, l’enigmatico mito romantico di Kaspar Hauser, l’adolescente che leggenda vuole si fosse materializzato all’improvviso in una piazza di Norimberga nel 1828 e che di sé conosceva poco altro che il suo nome,  incapace di confrontarsi con la realtà circostante che non aveva mai veduto prima.

Stavolta non c’è tempo e non c’è luogo – anche se è la Sardegna – ed il protagonista ha assunto le sembianze di un giovanissimo biondo androgino (Silvia Calderoni, una donna!) che ascolta senza riposo la musica vertiginosa di Vitalic, le orecchie imprigionate nelle vistose cuffie.

Ad accoglierlo uno sceriffo dall’improbabile slang yankee ed un pusher con casco  o cappello bianco,  (a seconda dell’occorrenza interpretati da Vincent Gallo), una marchesa in nero (Claudia Gerini), una ragazza sinuosa (Elisa Sednaoui), un “drago” (Marco Lampis) ed un prete dall’accento pugliese (Fabrizio Gifuni).

Che sia ieri o domani per chi è “diverso” in ogni tempo c’è pronta una condanna, in ogni luogo una croce o una gabbia se questi non si riduce prontamente all’accettazione di uno schema che lo possa omologare e render riconoscibile (e quindi controllabile).

A Werner Herzog ed al suo precedente cinematografico “L’enigma di Kaspar Hauser” Manuli nemmeno ci guarda, impegnato com’è a scrivere sulla sabbia il suo cinema fatto di un bianco e nero assolato, che lascia impronte un pochino ovunque e numerose e fiorenti tracce da seguire: ad ogni sguardo corrisponde una nuova imbeccata, un piccolo mistero da scoprire.

Il suo è un lavoro surreale, misterioso e libero, pregno di senso e di non senso, che sparge dubbi, pensieri ed immagini a piene mani.

Accogliere un alieno o un nuovo messia, un uomo delle stelle o del cielo: l’umanità non è pronta ma il cinema si e Manuli è ancora più avanti che ci attende ma, niente paura se ci confondiamo mentre tentiamo di raggiungerlo perché per nessuno la strada è segnata ed ogni svolta procede in direzione ignota anche per lui.

“La leggenda di Kaspar Hauser” alle volte ha delle coordinate indecifrabili, in altri momenti procede solo con il suo “linguaggio musicale”, ossessivo o liberatorio, orienta il verbale scarno dei suoi protagonisti verso orizzonti indefiniti dei quali ci attrae il mistero ed avvertiamo l’importanza.

Trabocca come bava dalla bocca tutto quel che non sta “né dentro né fuori”, come una scossa epilettica smuove il corpo e l’anima.

Kaspar Hauser sogna di esser un Disc Jockey. Qualcuno lo odia, qualcuna forse lo ammira ed un altro lo aiuta a realizzare il suo sogno: comunque arriverà in paradiso.

Del film di Manuli è ingenuo e forse anche delittuoso pretendere che tutto sia comprensibile: chi lo ama lo segua, ma non lo consigliamo agli ansiosi ad ai desiderosi del tutto chiaro e subito.

Cinema per occhi robusti e menti impavide pronte a perdersi ed a pagare piu’ di uno scotto sull’altare del tentennamento e della ragione, ma la visione stuzzica la curiosità ed ingolosisce ad ogni passo, tanto che alla fine più di qualcuno potrebbe ritenere che ne sia valsa la pena.