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martedì 30 ottobre 2012

AMOUR di Michael Haneke


Georges (Jean-Louis Trintignant) ed Anne (Emmanuelle Riva): una vita passata assieme tra concerti, libri e irrinunciabili tenerezze.
Il giorno che rientrando a casa scoprono che qualcuno ha provato a forzare la serratura del loro appartamento nessuno dei due se ne preoccupa più di tanto, né il loro pensiero va immediato a riscontare cosa potrebbe esser stato rubato dopo l’effrazione: gli oggetti ed il denaro forse non sono qualcosa di indispensabile per loro; sicuramente un ausilio necessario a rendere ancora più belle e confortevoli le giornate trascorse assieme ma nulla se confrontate alla luce che gli  rischiara il volto quando i loro sguardi si incontrano.  
Lo stesso probabilmente non si potrebbe dire per la figlia Eva (Isabelle Huppert), che pare assai  preoccupata dal fluttuare dei tassi di interesse e da come investire il proprio denaro e quello di suo marito in beni immobili.
Georges ed Anne stanno camminando felici il loro ultimo tratto di vita, accompagnati da una pacata serenità interiore: ma la loro tranquillità sarà interrotta di lì a poco da un ictus che costringerà Anne a non poter più accompagnare i passi  del marito, obbligandola all’immobilità su una sedia o sdraiata in un letto.
Cosa può succedere ad una coppia di anziani signori sinceramente innamorati l’uno dell’altro quando sotto lo stesso tetto si continua a respirare in due ma ad ogni giorno che passa vive veramente soltanto uno? Con “Amour”, film che con incontestabile merito ha vinto l’ultima edizione del Festival di Cannes,  Michael Haneke non si perde in complesse elucubrazioni verbali ma facendosi forte di due protagonisti straordinariamente calati nel ruolo mostra semplicemente ogni cosa dal lato dei piccoli gesti e dei comportamenti, mette in primo piano l’amore, che è infinito, ma comunque costretto ad un doloroso confronto con i confini della dimora del corpo e l’inesorabile limite temporale della vita.
La ricchezza dei dettagli, talvolta quasi infinitesimali, che il regista austriaco riesce a mettere sul tavolo è straordinaria, così come si rimane affascinati da quel suo stile che  pare così ordinato da sembrare algido e  che invece mai come  in questa occasione  riesce a portare all’incontro con l’alchimia della sua cinematografia le più profonde vibrazioni che  sentimento ed emozioni impongono alla carne.
Il suo tocco da “Re Mida” funziona altrettanto con la violenza o altre complicate pulsioni agli antipodi dell’amore – ed in passato ce ne ha dato  prova – ma stavolta è un”miracolo” differente dalle altre volte: mentre seguiamo il lento e compassato calvario di Anne e Georges, più che sconfortati dalla  tristezza, che inevitabilmente conquista spazio, rimaniamo piuttosto meravigliati dalla naturalezza cristallina  con la quale emerge ogni sensazione, dall’inappuntabile giustezza di ogni atto, di ogni azione.
Di una separazione annunciata, dell’imminente arrivo di un disperato addio sappiamo pressappoco tutto fin da principio; la formidabile bravura di raccontarcelo con uno struggimento per nulla esasperato  ed una autenticità seconda solo alla vita vissuta la scopriamo però ad ogni fotogramma che ci mostra ora il dolore ed una consunzione inarrestabile che cerca una impossibile via di fuga, tra sguardi perduti e parole  sempre meno comprensibili, ora il tremendo vacillare di chi vorrebbe aver a disposizione poteri taumaturgici e divini ed invece è costretto a fare i conti con la propria umana impotenza.
In “Amour” ogni cosa sembra avere il dono dell’equilibrio assoluto ed un distacco dalla finzione, che pure la partorisce, che ha il dono della perfezione.
Osserviamo come la vita può trasfigurare i nostri corpi ed i nostri volti e come a fianco i sentimenti non seguano invece un destino parallelo, costretti ad un passo differente sempre a rischio di uscire fuori strada.
Lo sguardo di Haneke coglie con nettezza come potrebbe essere l’impareggiabile armonia di coppia nella normalità del trascorrere delle ore e dei giorni, poi ne mostra le inevitabili dissonanze quando tutto è perduto e nemmeno il migliore accudimento che possiamo immaginare può tornare a donarci la voglia di vivere, che difatti progressivamente abbandona il campo e si stacca dalla volontà, affogando tra le fotografie, i ricordi ed un passato oramai impossibile da ricreare nel presente.
Passando per situazioni niente affatto straordinarie ed anzi tra le più comuni da immaginare, divagando persino qualche secondo tra splendidi dipinti che parlano di spazi sconfinati e paesaggi perduti per sempre, Haneke non inciampa mai, non sbaglia né un tono o un accento, non una sola mossa.

sabato 20 ottobre 2012

IL COMANDANTE E LA CICOGNA di Silvio Soldini


“Il comandante e la cicogna”: il ritratto di un presente Italiano poco brillante ed un pochino depresso in chiave di commedia.
Curiosi ed azzeccati gli abbinamenti tra gli attori e le parti loro assegnate: Leo (Valerio Mastandrea con accento del sud e sopracciglio sbaffato di bianco) è un vedovo che di mestiere fa l'idraulico; i suoi due figli si danno da fare per creargli qualche problema supplementare che prontamente verrà verbalizzato (..!..) in una riunione familiare.
A notte fonda sua moglie Teresa (Claudia Gerini) spesso fa capolino dall'oltretomba e viene a fare due chiacchiere e ad annusare caffè, l'unica cosa che davvero le manca della terra.
Diana (Alba Rohrwacher con capelli neri a caschetto) invece è una pittrice squattrinata ma capace di riconoscere il bello anche in due scarpe appese ad un filo per l'aria o in una moneta caduta in terra (occhio alle spalle, però!). Basta che qualcuno si presenti con dieci minuti di ritardo ad un appuntamento e lei già ha viaggiato lontano con la fantasia, magari è “volata via sopra la città” come in un quadro di Chagall.
Il suo padrone di casa è Amanzio (Giuseppe Battiston, barba incolta, sandali ed occhiali a goccia), una specie di strano moralizzatore ed esortatore all'impegno civile che gira per i supermercati “bonificando” gli scaffali dai prodotti scaduti. Piuttosto burbero ha lasciato il lavoro da nove anni ed ora vive dei soldi dovutigli per la pigione: peccato che Diana - come Van Gogh del resto -  sia una buona artista ma una pessima inquilina in quanto a puntualità nei pagamenti.
E dunque se si presenta l'occasione di poter lavorare c'è poco da andare per il sottile, e quando le viene commissionato un affresco dall'avvocato Malaffano (Luca Zingaretti con un inguardabile parrucchino) non potrà rifiutare, anche se questi la obbligherà a ritrarlo come un leopardato Tarzan appeso alla liana con tanto di bandiera del Milan, assieme alla sua fidanzata che cavalca una zebra!
Aggiungete al cast le statue di Verdi, Garibaldi e Leopardi che osservano, pensano e addirittura parlano (doppiate da Pierfrancesco Favino, Gigio Alberti e Neri Marcorè) ed avrete il quadro completo di dove questo film vuole andare a parare.
Precisamente ad osservare, non senza un velo di tristezza, la nostra “Italietta” ridotta ad un covo del malaffare, ferita ogni giorno da piccoli gesti indicatori di un ribasso del nostro senso etico  e del vivere assieme, presa d'assalto da imbroglioni d’ogni risma e millantatori senza vergogna.
L'unità d'Italia, che tante vite e fatica è costata, sembra inutile e lontana, addirittura poco desiderata. La gente è divisa e litigiosa e le bandiere tricolore oramai si vedono solo alle partite di calcio eppure, come da sempre, “la luna sorge ancora sulle nostre lordure” (lo dice Leopardi, mica uno qualsiasi).
Tra le molte citazioni e le divertenti osservazioni però forse si rimane troppo tempo a zonzo senza una vera meta assieme ai protagonisti, raccogliendo qua e là segnali di verità e di sconforto oltre a molte indicazioni che giungono  dal passato fino al nostro presente, divenuto nel mentre molto  piu' amorale e squallido del tempo che fu.
Di carne ce ne sarebbe molta da mettere sul braciere ma forse non la si cucina a dovere e del  nostro paese meschino c'è si il ritratto ma non sempre gli elementi sono a fuoco e spesso sembrano riottosi a convivere sulla stessa tela.
I protagonisti, piuttosto che intrecciarsi tra loro ed evolvere per davvero le loro storie, sembrano inseguiti dalla   morale di fondo piuttosto che pronti a convincerci di questa con l’autorità e la forza della loro recitazione;  perlopiù si sfiorano soltanto, così come le statue che parlano tra loro  paiono esser voci  solenni e senza meno nel giusto ma a ben vedere accusano una scollatura con il resto della sceneggiatura.
La cicogna Agostina vola solitaria e forse dal cielo ha una prospettiva migliore della nostra, come del resto  quella dei morti che però, udite udite,  vengono a raccontarci che nemmeno “lassù” saremo tutti uguali, perché talvolta ancora si sciopera ed addirittura si è  divisi per “giurisdizioni religiose”: ed ecco che potrebbe venirci da pensare davvero che al peggio non c'è mai fine.

venerdì 19 ottobre 2012

KILLER JOE di William Friedkin


Chris (Emile Hirsch) è un piccolo spacciatore che si è cacciato nei guai ed ha urgente bisogno di soldi per saldare un “debito pericoloso”, così per tirarsi fuori dall’impaccio decide di coinvolgere in un problema di dimensioni ancora più grandi suo padre Ansel (Thomas Haden Church), ovvero gli propone di far uccidere la sua ex-moglie per intascare i soldi dell’assicurazione sulla vita.

A beneficiarne sarebbe la sua sorellina Dottie (Juno Temple) che vive in casa con loro assieme alla nuova compagna del padre, la procace Sharla (Gina Gershon), una donna avvenente che certo non si fa scrupoli nel concedersi qualche lussuriosa avventura fuori dal letto abituale.

Viene chiamato a risolvere la faccenda uno sceriffo della polizia di Dallas, tale Joe Cooper (Matthew McConaughey), che per arrotondare uccide su commissione e pretende 25.000 dollari sull’unghia; ma stavolta, vista la difficoltà ad esser pagato in anticipo, farà un’eccezione, perchè folgorato in pochi minuti dal fascino intrigante e misterioso della piccola Dottie, della quale otterrà di poter disporre come “caparra” fino a che non verrà liquidato per intero.

Dall’omonima pièce teatrale di Tracey Letts, scrittore e sceneggiatore che può fregiarsi anche di un premio Pulitzer, la regia sempreverde del settantasettenne William Friedkin – quello de “L’esorcista” e “Vivere e morire a Los Angeles” – ci regala un film da metter davvero in cima alla lista di quelli da non perdere.

Cast al diapason, cucito a pelle sulla sceneggiatura e che interpreta alla perfezione personaggi singolari e solleticanti, che disegnano il volto d’insieme di un’America sordida, stracciona e costretta a vivere di espedienti; una “latrina” di disperati senza scrupoli e pronti a tutto, che “Killer Joe” ci mostra appena sotto la patina sottile di una costante ironia ed un alone di leggera surrealtà.

Friedkin punta forte soprattutto sulle sue due “punte di diamante” e sarebbe a dire lo spietato e signorile assassino su commissione Joe e la piccola Dottie, deliziosa ragazzina con la testa fra le nuvole ma assai veloce e perspicace quando deve (e saprà dimostrarlo all’occorrenza).

Ansel è un tontolone eccezionale e la sua faccia ad ogni passo piu’ rassegnata e presa da sconcerto è davvero memorabile.

Gli eventi, nemmeno a dirlo, non si incastreranno come dovrebbero: chi si credeva più furbo di tutti scoprirà di non esserlo stato a sufficienza; nessuno riuscirà a farsi beffe degli altri per intero ed ognuno avrà da risolvere grossi grattacapi.

Gran finale tra cosce di pollo fritto e pallottole vacanti; sul finire arriverà persino un annuncio davvero inaspettato e chi apprenderà la notizia in qualità di diretto interessato forse non avrà ben chiaro se esserne davvero felice o farsene un cruccio.

Ed a dire il vero questo, in particolare, non lo sapremo mai nemmeno noi spettatori, come del resto nessun altro; quel che al contrario riusciamo a percepire con grande nitidezza sono invece il senso di angoscia degli sconfitti e l’impossibilità della redenzione quando la vita marca di un nero indelebile la strada da percorrere, oltre al senso di latente tristezza che insistentemente si affaccia ed è difficile ignorare, nonostante sia stemperato ad arte da un efficacissimo humor.

WOODY di Robert B.Weide


Nasce a New York il 10 dicembre 1935, per la precisione a Brooklyn, e da bambino usava nascondere i soldatini nei grossi vasi di geranio sotto casa.

I genitori avrebbero voluto che facesse il farmacista ma, forse per colpa delle innumerevoli proiezioni di classici viste al “Midwood Theatre”, entrerà molto presto a far parte del mondo del cinema.

Si chiama(va) Allen Stewart Könisberg ma tutti lo conosciamo oggi come Woody Allen (pseudonimo scelto in onore al clarinettista jazz Woody Herman), uno che prima della maggiore età guadagnava già più di mamma e papà e che da allora mai più è rimasto senza lavoro.

Robert B.Weide ci guida in un lungo viaggio, che dall’infanzia arriverà a raccontare di questo straordinario personaggio fino ai giorni nostri in sole due ore, rovesciandoci addosso una miriade di informazioni, stuzzicandoci con mille curiosità e svelando innumerevoli vezzi e stranezze di uno dei più famosi e prolifici registi del mondo del cinema, con oltre quaranta film all’attivo, sfornati con una cadenza annuale ed un flusso regolare come quello di uno stantuffo inesauribile.

Gli albori della sua carriera, che possiamo collocare all’inizio degli anni ’50, arrivano quando giovanissimo Allen comincia a scrivere battute per i grandi giornali americani finchè un giorno, spinto sul palco dagli agenti Jack Rollins e Charles H.Hoffe che saranno in seguito produttori dei suoi film, pur essendo con la sua timidezza l’antitesi del performer fa il suo esordio nel 1959 al Blue Angel, uno dei locali piu’ chic di New York.

Ma sarà su quello del “Bitter End” che, dopo 6 settimane di cartellone, otterrà finalmente una grande recensione sul “New York Times” ed a seguire quindi incredibili file al botteghino, con giornalisti e proprietari di locali assiepati tra il pubblico ad osservarlo.

Diventa abituale frequentatore della T.V. al “Dick Cavett Show” e di lì a poco gli offriranno addirittura 20.000 dollari per scrivere un copione per il cinema: si tratta di “What’s new Pussycat” di Clive Donner, dove Allen si ritaglierà anche una piccola particina; ma sul resto del film non potrà proferir parola ed obiezione alcuna e, purtroppo per lui, le sue parole in bocca ad altri non funzioneranno affatto bene come si sperava.

Decide che questo non dovrà succedere ancora e la prossima volta tutto dovrà esser sotto il suo controllo, ovvero che farà il regista. Sarà così (per sempre!) e subito passerà a scrivere, con l’amico Mickey Rose, il suo primo piccolo/grande successo: “Prendi i soldi e scappa”.

Negli anni ’70 è famoso: ancora non ha conquistato tutto il paese – l'America - ma ha certo soggiogato invece il cuore di Diane Keaton, con la quale girerà una commedia che cambierà il modo stesso di concepire il genere: “Io e Annie”, film della grande e non pienamente consapevole maturazione.

Il direttore della fotografia ingaggiato da Allen è Gordon Willis, il “principe del buio”, il quale ha appena girato “Il Padrino” e che, nonostante lo scetticismo generale, si rivelerà incredibilmente adatto a soddisfare le esigenze di una “lucente” commedia; sua, tra l'altro, la felice intuizione di una parete divisoria sul set che ricrea uno “split screen” reale anziché virtuale.

Inaspettata pioggia di Oscar (miglior film, miglior regia, miglior attrice e miglior sceneggiatura originale): è la consacrazione ufficiale, ma alla cerimonia il buon Woody non va perché quel giorno suona con la sua “Jazz Band”! (La sua casa ancora oggi è piena di ance di clarinetto sparse in giro !...)

A breve arriverà “Manhattan”, film che tutti ricordano per l'inquadratura con la panchina sotto il ponte di Brooklyn la quale è, ancora oggi, un’icona dell’amore; ma il regista americano dopo averlo visionato parla con i vertici della United Artists per cercare di non farlo uscire e si offre di girare il prossimo film gratis: di diverso avviso i dirigenti, così come il pubblico che lo premia numeroso al botteghino.

Stardust Memories” invece, debitore di forti influenze Felliniane (da “8 e 1/2”) subirà sorte diversa: la gente poco apprezzerà la trasposizione cinematografica dei crucci e dei tormenti di un regista e uomo di fronte all’imponente mistero della vita.

Dopo “Brodway Danny Rose” arriva “Zelig”, capolavoro stupefacente e geniale nella sua intuizione di voler somigliare ad un autentico quanto surreale documentario ed al quale la pellicola di Robert.B.Weide dedica, forse correndo troppo, meno di un minuto.

Ne “La rosa Purpurea del Cairo”, dove l’attore protagonista lascia lo schermo guadagnando la platea, ci vengono regalati altri spiccioli di genio: la sorella Letty Aronson commenta di come il fratello abbia moltissime idee e ci metta davvero poco per tradurle in qualcosa di concreto, mentre Martin Scorsese congela il pensiero in parole meglio di tutti, definendo “elettrizzante” l’evoluzione continua di Woody Allen.

Arriverà poi il rapporto artistico e sentimentale con Mia Farrow, che dopo un lungo ed intenso periodo deflagrerà nel noto scandalo che vedrà Woody Allen scoperto a flirtare con la figlia adottiva Soon-Y Previn (oggi sua moglie): sul set si sta girando un film dal titolo emblematico e forse addirittura profetico, “Mariti e mogli”, con protagonisti gli stessi Allen e Farrow i quali, con estrema professionalità, finiranno il lavoro per poi separarsi per sempre.

Dopo esser stato spolpato dalle riviste di gossip, neanche fosse il diavolo in persona, comincerà a girare “Pallottole su Broadway” che regalerà un oscar a Dianne Wiest, nonostante un ruolo per lei insolito; stessa buona sorte toccherà successivamente a Mira Sorvino ne “La Dea dell’Amore”.

Dopo “Harry a pezzi” la sorprendente svolta di “Match Point”, che ammalierà il pubblico nonostante lo sbigottimento dovuto al cambio di genere del regista. Quindi si passa per Barcellona (assieme a Vicky, Cristina, Bardem, Scarlett Johannson e Penelope Cruz) e si arriva a “Midnight in Paris”, campione d’incasso mondiale da oltre 100 milioni di dollari; sul filo di lana qualche accenno anche all’ultima fatica italiana “To Rome With love”.

Un ritratto, per quanto sintetico, davvero completo oltre ogni aspettativa quello di Robert B.Weide, niente affatto noioso ed in questo certo facilitato dalla grande vastità che abbraccia l’universo artistico di Woody Allen.

Un personaggio davvero singolare, che non si esalta per i troppi complimenti in serie perché saggiamente intuisce che non hanno alcun valore, trova surreale la passerella a Cannes e non ha un gran piacere di promuovere i suoi film anche se ben si presta al suo dovere ed alla sua parte, quando necessario.

Ogni attore vorrebbe recitare in un suo film - e piacergli - e lui sul set tranquillizza tutti indistintamente con adulatrici frasi o parole interlocutorie come: “sei stato grande, naturale”, “tranquillo” “va bene così”.

Quel che pare emergere senza dubbi è la capacità che Woody Allen ha - come pochi altri - di cogliere alcuni aspetti intimi dell’essere umano, i suoi tic e le sue nevrosi come le sue più significanti e particolari gentilezze e sa avvicinarvisi ed addentrarcisi come pochi altri saprebbero fare, avvalendosi di quella che lui stesso definisce “la maledizione dell’approccio del clown”.

Ogni volta finisce per introdurre tematiche serie nei suoi lavori perchè preferisce, come lui stesso ammette alla solita disarmante maniera, trattarle al cinema piuttosto che doverci pensare e riflettere nella vita reale.

Per svolgere il suo mestiere ha sposato la “teoria della quantità” asserendo, tra il serio ed il faceto, che tra tante pellicole una prima o poi verrà bene, così come è ben conscio di essere forse proprio egli stesso il primo ostacolo alla sua grandezza, di aver poca pazienza ed accontentarsi talvolta di un ciak appena ben riuscito – se ha ottenuto cio’ che voleva - per fuggire presto via a godersi la partita alla televisione piuttosto che farne un altro migliore.

Non ha la pazienza del perfezionista: forse un giorno la cercherà piuttosto che continuare a coltivare quel latente rimpianto che gli fa asserire di non esser ancora riuscito a fare un grande film; e sarà anche vero, a ben guardare, che nel grande mare dei suoi lavori manca forse la gemma che possa definirsi come un capolavoro immortale, mentre spiccano piuttosto, senza dubbio alcuno, numerosi “piccoli capolavori di genere”.

Così come è altrettanto vero che ad esaminare la sua filmografia, scorrendola tutta per intero ed in un solo fiato come in questa occasione, si resta basiti di fronte ad una carriera variegata ed esaltante come poche altre: ad osservarla nella sua pacifica interezza niente di meno che strabiliante.

mercoledì 10 ottobre 2012

MAGIC MIKE di Steven Soderbergh


Donne, soldi, divertimento: quale uomo potrebbe dirsi veramente libero da queste tentazioni?.
A Tampa, in Florida, si dimenano sul palco un gruppo di spogliarellisti nel locale “Xquisite”,  agitandosi davanti a piccole folle urlanti di donne e ragazzine: flirtano a distanza con loro, roteano il bacino portandole ad un passo dalle loro fantasie più selvagge; incarnano il sesso sfrenato e il principe azzurro, sono la loro visione e liberazione, il serpente a sonagli che si agita nelle loro viscere.
Le banconote infilate negli slip sono denaro stropicciato da lisciare dopo lo spettacolo per farne mazzi fruscianti che però in banca non basteranno per ottenere il prestito che ti occorre a cambiar vita, né a consegnarti il rispetto e la dignità che si dovrebbe a chi svolge onestamente il suo lavoro: c’è sempre un momento in cui repentinamente verrai etichettarto come “merdoso spogliarellista”, nonostante tu non sia il tuo stile di vita, non quel che fai bensì quel che sei.
Cavalcando vicinissimo al calore infuocato dell’immagine e sempre stretto alla spettacolarità dell’esibizione ma esplorando sul fianco le comunissime problematiche di ogni giorno, Steven Soderbergh rilegge liberamente la vita di Channing Tatum (Mike), che ha davvero intrapreso la carriera di spogliarellista fin da giovanissimo e proprio a Tampa con il nome di “Chan Crawford” (anche se in realtà presto ha voltato pagina verso altri orizzonti e tra l'altro già lavora da qualche tempo nel cinema).
Osservando con disincanto un universo turbinante e psichedelico, che la maturità e la fermezza potrebbero consentirti di gestire ma,  in caso contrario, trascinarti sul fondo tra spinte troppo adrenaliniche e “stupefacenti” tentazioni, Soderbergh realizza un film fresco e divertente senza scadere nella superficialità.
Asseconda i movimenti e tutte le luci di un mondo dai colori urlanti, ne sottolinea con grande proprietà tecnica le coreografie e gli eccessi e ne immortala le luci; non demonizza ma nemmeno enfatizza, anzi mischia e confronta con il quotidiano che ogni giorno incessantemente insiste nel ricordarci tutto quello che non si può comprare ed è irraggiungibile dal denaro.
Su tutti, un Matthew Mc Conaughey (Dallas) in gran forma e senza scrupoli fornisce, oltre alla irrinunciabile - e notevole - esibizione, una formidabile lezione di cattivo gusto ed ambizioso arrivismo mentre si agita circondato da quadri celebrativi e ridicoli mezzi busti bianchi che celebrano un passato incerto, mentre lui spera e punta tutte le sue fiches su un futuro grandioso.
“Magic Mike” è uno che si alza al mattino e nel letto ci trova un paio di donne ma di una nemmeno ricorda (conosce?) il nome: monta sul suo pick-up nero fiammante con gli interni ancora foderati di plastica e cerca lavoro in  cantiere; ma  prima o poi con le donne finirà per volerci anche parlare scoprendo però suo malgrado che queste, da un professionista "agita passere", si aspetteranno sempre qualcosa d'altro: e non è facile dargli torto!
Fino a che qualcuna non deciderà di trascorrere tutta la notte con lui solo per far passare  le sei o sette ore che  separano la mezzanotte dal mattino: a quell'ora si potrà giusto andare a mangiare qualcosa per colazione e parlare del futuroo forse, finalmente, non si tratta di niente altro che di un  semplice appuntamento.