VISITATORI

martedì 29 maggio 2012

SILENT SOULS di Aleksei Fedorchenko



La zona centro occidentale della Russia vicino al Lago Nero era un tempo abitata dai Merya, una popolazione Ugro-Finnica che fu assorbita attorno al XVII Secolo dagli Slavi.

Ma un'etnia non muore finchè ricorda la propria lingua e le proprie tradizioni.

Aist acconsente di buon grado ad accompagnare il suo datore di lavoro Miron per aiutarlo a trasportare il corpo di sua moglie Tanya, appena defunta, fino a dove la terra incontra il mare: è là che cremeranno il suo corpo e ricongiungeranno le sue ceneri e la sua anima ai flutti, che le restituiranno una “nuova dimensione”.

Silent souls” di Aleksei Fedorchenko, in originale “Ovsyanki”, dal nome dei piccoli uccelli – in italiano “Zigoli” - che accompagneranno nel lungo viaggio i due protagonisti e ne segneranno il destino, è un'immersione garbata in un mondo distante del nostro tempo presente.

Tradizioni e tenerezze sopravvivono alla loro sconfitta rispetto alla storia ed alla modernità: i Merya, ultimi testimoni di un mondo, uomini dalle facce inespressive e dalla memoria lunga, che non si lasciano travolgere dalla passione e nemmeno sedurre dagli enormi ed imponenti scaffali pieni di merci del “nuovo mondo”.

Provengono da culture lontane e se non sapranno combattere o resistere chi vuole cancellarne l'esistenza sanno già di poter assaporare il futuro rifugio della morte o meglio dell'incontro con “l'acqua”, che a tempo debito farà la sua scelta e fornirà il suo giudizio superiore.

Durante il viaggio tramutano il dolore in “fumo” - così usano chiamare le esternazioni fatte agli amici sulla vita coniugale e sessuale riguardante il consorte defunto – ed in qualche modo perpetuano l'esistenza di chi non c'è più, trasmettendo ricordi che possano farlo sopravvivere anche attraverso gli altri.

Fedorchenko ci porta in viaggio seguendo con il suo obiettivo le lunghe strade che si snodano tra boschi e mare e regalandoci istantanee arcaiche e seducenti, che sanno irradiare tanto la nitidezza come l'opacità, grazie ad una fotografia sincera e bellissima (Premio Osella a Venezia nel 2010).

Aleggiano tristezza e nostalgia - la stessa “Nostalghia” che il cinema ha già incontrato grazie ad Andrej Tarkovskij - però non la disperazione che sembra esser ricacciata indietro da fortissime ed invidiabili consapevolezze identitarie, dai ricordi poetici e struggenti che uniscono e cementano e se un giorno sarà inevitabile soccombere, allora ci si tufferà nelle cristalline liquidità dell'universo che apre le sue porte in terra giusto sulla superficie delle acque chiare.

E' un viaggio intimista ma vitale, di un cinema che vuole testimoniare di esser presente e con la sua specifica ed irrinunciabile lentezza porgere a fruitori lontani e diversi l'insieme delle sue delicatezze e dei suoi costumi.

Risuonano lontani echi e riflessioni sull'immortalità; più vicini ed intensi quelli sullo struggimento del distacco e riguardo l'ipotesi benevola ma incerta del ricongiungimento.

In “Silent souls” anche la figura della donna, prostitute comprese, nonostante in un primo momento sembri venir considerata solo nella sua subalternità rispetto al maschio, viene omaggiata, descritta come “un fiume che può portare via il dolore: peccato che non ci si possa annegare dentro”.

Affogare suicida per un Merya è impossibile, inimmaginabile, come voler correre al paradiso prima degli altri: è sempre il fiume, semmai, che deve decidere quando e come.

Il film di Fedorchenko è romantico e poetico, di una ricercatezza semplice, denso di immagini e parole in grado di imprimersi nella nostra memoria e che torneranno a trovarci a posteriori, regalandoci un retrogusto capace di esaltare il palato con sapori tenui ed inconsueti e che non desiderano prevaricare con i loro aromi.

Un “viaggio primario”, da intraprendere anche solo per visitare le terre della nostra curiosità: così distante dai nostri confini e dalle nostre abitudini eppure così vicino a tutti i dubbi ed il sentire della nostra anima.

domenica 27 maggio 2012

COSMOPOLIS di David Cronenberg



La città è un incendio permanente ma in realtà è il mondo che sta andando a fuoco e ad ogni secondo che passa brucia soldi ed arde fino alla distruzione l'essenza stessa dell'essere umano: è New York ma potrebbe essere ovunque.

Limousine bianche e lunghe, simboli dell'opulenza, si muovono come claustrofobiche case semoventi ingombrando le strade accanto alle auto dei taxisti che provengono da svariati universi di orrore e disperazione.

Insonorizzate ed asettiche, lontane da ogni rumore e da qualunque realtà, trasportano lentamente da un capo all'altro della città giovani rampanti della finanza allevati dai lupi: ma questi rampolli sono belve alle quali si stanno alterando persino gli istinti del sesso e della fame.

E' un mondo dove si emerge con una parola e si precipita dopo aver pronunciato una sillaba!

Calcolo e controllo, numeri e statistica, informazione e matematica: il cuore si affaccia ancora timidamente ma solo sul monitor di un check-up.

L'acquario è fuori o dentro il vetro? Difficile stabilirlo.

Uomini che possono comperare una cappella con i dipinti di Rothko e trasferirla dentro i loro appartamenti (“E gli altri? Che se la comprino!”) o far costruire poligoni di tiro accanto agli ascensori che salgono al ritmo di Erik Satie e del rap-sufi cercano inconsapevolmente antidoti alla disillusione, controveleni ad una vita/non vita, ricca di lusso, denaro e potere ma dall'abbondanza che non scintilla ed odora anzi di putrescenza.

Però attenzione, perchè chi non è indifferente è vulnerabile e quindi puo' esser vittima del dolore!

Da un libro del 2003 - percettivo e profetico - ad opera del grandissimo scrittore Americano Don De Lillo (vincitore in Italia del “premio Bacchelli” nel 2000 con “Underworld”), il maestro canadese David Cronenberg dipinge una tela cinematografica “totale” ed epocale, emanante una luce scura che tutto investe ed ogni cosa attanaglia.

Nell'arco di una sola lunga giornata Robert Pattinson/Erick Packer segue le orme che furono di “Ulisse” e di Joyce ma stavolta è lo Yuan (nel romanzo era lo “Yen”) ad imprimere la svolta al destino: nella landa delle passioni perdute e dell'assenza di rimorso la smisurata ambizione spezza le vite ed amplifica il senso di smarrimento.

Cosmopolis” anziché premonitore come il romanzo dal quale è tratto risulta oggi contemporaneo, inquieta e disorienta, investe lo spettatore mostrandogli la pacata e montante follia che lo circonda, provocandogli un insostenibile e glaciale straniamento. Non vuole fornire soluzioni, non può provvederci di risposte, lo scenario d'altro canto è sterminato e immenso, omnicomprensivo.

E' una analisi immaginifica a tutto campo dove il tetro del nostro presente incombe come un cielo nero gonfio di tempesta che precipita rovelli e concetti, un diluvio di parole e filosofia, rivoli di verbo forse in quantità superiore a quanta il cinema ne possa o ne debba contenere ma che la pennellata sicura dell'artista che riesce ad immaginare ed a “tenere assieme” il quadro, in qualche modo fa convivere ed armonizza, giusto al confine della sopportazione.

Anche stavolta il regista Canadese lascia che “i corpi e la carne” cedano il primo piano e questo è per lui decisamente inusuale ma, a differenza del precedente “A dangerous method”, i protagonisti di questo nuovo lavoro nella loro freddezza sono tutt'altro che sicuri o alla ricerca di certezze ed avvertiamo forte il loro disagio, il turbamento e l'astrazione, la lontananza da ciò che li circonda e da loro stessi.

Ci trasmettono ansie assassine, scosse elettriche e vertigini mortifere che le sole parole non potrebbero darci e difatti in qualche misura queste rimangono sorprendentemente sottomesse all'atmosfera ed all'immagine, nonostante i dialoghi siano traboccanti: in altre parole il film è forte di una sua “autonomia visionaria” sufficientemente indipendente dalla parola, ovvero ha compiuto per intero il passaggio dal testo scritto alla forma cinema.

Tutti verremo assorbiti da flussi di informazione”: è evidente che Cronenberg sta semplicemente indagando, come suo solito, l'ennesima mutazione umana, forse l'ultima!

Il mondo fuori impazza nelle imponenti e continue proteste globali che l'attimo dopo sono già dimenticate; tutto attorno respira, ansima, ribolle, si sgretola e poi crolla: i fuochi del presente che brucia sono bagliori di futuro.

In “Cosmopolis” c'è abbastanza dolore ed inquietudine da far deflagrare il pianeta in un istante ma proposto in una forma che tende a farci forzatamente osservare l'apatica normalizzazione delle cose e dei fatti, quella che ci impedisce di considerarli nella loro essenza e di reagirvi contro.

L'uomo affascinato dalle armonie parallele tra la natura ed i dati ha messo in un cantuccio l'importanza dell'asimmetria ed ora, sotto il tranquillizzante aspetto dei lati uguali ecco che riemergono i tic, il capriccio, l'imperfezione, l'inalienabile pericolo dell'anomalia.

La rasoiata finale ci aspetta nell'incontro tra Robert Pattinson e Paul Giamatti – un duello verbale e cerebrale - dove si assiste alla caduta di Icaro, giungono al termine del percorso illusioni ed ossessioni e l'ambizioso affresco globale mette sul tavolo alcuni dei fragili inneschi ed elementi che governano la rivolta ed il potere, la debolezza e la forza, la beffa, il dolore e l' apparenza.

Cosmopolis” è una meravigliosa e lugubre decodificazione del nostro tempo, del finale di secolo appena trascorso e di quello che è appena cominciato, un apologo sul capitalismo che si sta inabissando sulla strada del non ritorno ma continua a dibattersi generando mostri e destabilizzazione.

Il lavoro di Cronenberg è una vertigine difficile da introiettare e può fortemente respingere coloro che non sanno interpretare il presente che prelude al futuro e tutti quelli che non desiderano riconoscersi o riconoscere la realtà: è sempre uno sgradito ospite quello che viene a raccontarci chi siamo ed i fatti nostri entrando senza nemmeno bussare alla porta di casa.

mercoledì 23 maggio 2012

POLVERE di Niccolò Bruna e Andrea Prandstraller


Amianto e mesotelioma, in pratica sinonimo di  “Eternit”: parole simbolo di una tra le molte ferite dell’Italia industriale ma anche priva di senso della responsabilità che va dal Nord alla diossina dell’ICMESA di Seveso all’abbraccio mortale dell’ILVA nel Sud di Taranto.

Sono vocaboli  ingombranti con i quali noi Italiani abbiamo dovuto gioco forza sviluppare una  non desiderata confidenza e dimestichezza da almeno mezzo secolo, corredo ineludibile  di vicende cha hanno visto in prima linea alcuni comuni del nostro paese, primo fra tutti Casale Monferrato.

Ne troviamo traccia già nelle testimonianze del repertorio in bianco e nero dell’Istituto Luce degli anni ’50 e ’60, come se si trattasse delle guerre o del grande boom; inizialmente  un  racconto che comincia  festoso nel solco del progresso economico e del benessere ma che procedendo rivela un volto aggressivo e maledetto: l’amianto provoca il cancro che in questo caso significa anche “malattia o morte sul lavoro” e, di colpo, siamo costretti a prendere atto delle malefiche relazioni tra industria ed asbestosi.

Dopo che irrompono sulla scena accadimenti dolorosi come questo ci aspetteremmo espulsi per sempre dalla scena mondiale alcuni giri di affari ed invece arriva questa pellicola ad inquietare le nostre fragili tranquillità sulla materia mostrandoci, con una panoramica a tutto tondo, situazioni ed   informazioni alle quali ben prima avremmo forse dovuto approcciarci.

Qualora non ne fossimo stati capaci, ecco che  ora si rivelano e scopriamo  (sorpresi?)  che quella dell'amianto, a tutt’oggi,  è addirittura una industria florida ed in diversi angoli del mondo! 

“Polvere”, il film-documento di Niccolò Bruna ed Andrea Prandstraller,  è un “compendio di indagine” prezioso ed importante che prende le mosse dalle aule del tribunale di Torino, dove si è celebrato il più grande processo del mondo in materia di rapporti tra fabbrica ed amianto e dove è stato raggiunto, nel febbraio scorso, il primo grado di giudizio.

Dopo due anni di dibattito e con alle spalle una mole di lavoro davvero ragguardevole da parte del P.M. Raffaele Guariniello, si è approdati ad una sentenza di condanna che infligge 16 anni ciascuno ai  patron di “Eternit”, il magnate svizzero Ernest Schmidheiny ed il barone Belga Jean Louis deCartier de Marchienne, mettendo nel contempo assieme un sommario di  numeri davvero eclatanti:  645 udienze, oltre 2100 morti ed 800 persone malate, 80 milioni di euro di indennizzi per oltre 5000 parti civili.

La pellicola però dopo un po’ si allontana  dal suolo nazionale e con vivacità indagatrice inizia a risvegliare il nostro stupore, raccontandoci  di come ad oggi  “solo” 53 paesi nel mondo abbiano messo al bando l'amianto, questo nonostante sia ancora in grado di mietere 100.000 vittime ogni anno come fosse una “silenziosa Hiroshima”.

Seguendo le orme delle fabbriche di Eternit  dismesse nei paesi che le hanno dichiarate fuorilegge scopriamo  rinascite sorprendenti: dopo la messa al bando degli anni novanta, alcuni impianti chiusi hanno traslocato altrove e ad esempio dall’ Italia sono rinati a nuova vita in altri luoghi: è il caso di Haiderabad, in India.

Due tonnellate di milioni l'anno: questa la stima relativa al volume della produzione di “cemento misto ad amianto” che si produce soprattutto in paesi quali l'Ucraina, la Russia, L'India, l'Egitto, la Thailandia, la Cina ed il Brasile.

E proprio in Brasile si sofferma parte della pellicola di Bruna e Prandstraller, il terzo o quarto produttore e tra i più grandi consumatori, nonostante quattro dei suoi Stati abbiano paradossalmente anch’essi bandito l’uso l'amianto, ma non la vendita.

Invece  nello Stato del Gola (e siamo sempre in Brasile), dove la miniera gestita dall'impresa “Sama” è attiva dal 1966, ci si trincera  dietro leggi  compiacenti e facendosi scudo delle ridicole affermazioni dei quadri dirigenti che parlano di “uso controllato del materiale”.

Nel mentre lobby potenti “sedano” ministeri ed amministrazioni locali oltre ad aver risarcito a tutt'oggi oltre 3000 lavoratori,  facendo ben attenzione che questi però dichiarino, con fortissimi dubbi sulla veridicità dei fatti,  di aver subito il danno quando ancora non erano noti i rischi.

Anche in India le cose non vanno meglio e chi rilascia l'intervista è stavolta un medico che ha poi intrapreso anche una carriera politica ed ora parla di “utilizzo responsabile del prodotto”, discorrendo di  una sicurezza di fatto inesistente  ma al tempo stesso affermando una realtà in parte aberrante ma  pure comprensibile quando afferma che: “finchè la gente guadagnerà 2/3 dollari al giorno, il business dell'amianto esisterà in questi luoghi”.

Oggi altri investitori (Cinesi) stanno già stimolando gli appetiti Canadesi che difatti preparano i finanziamenti per la riapertura di una grande miniera nazionale.

“Polvere” torna infine inevitabilmente a darci conto delle famiglie dei nostri connazionali, quelli che hanno visto tanti colleghi perdere la vita solamente per lavorare e che hanno vissuto in prima persona i tempi in cui venivano negate e ridicolizzate le loro istanze verso i vertici dell'industria.

Solo con l’avvento dello  “Statuto dei lavoratori” negli anni '70 si sarebbero cominciate a  mettere in discussione le condizioni di lavoro ma non  ancora la dannosità della tipologia di certo materiale, protraendo così per altri anni ancora il contagio mortale, finanche ad estenderne il rischio ai familiari.

Toccante il racconto di chi preoccupato ricorda quando tornava  a casa dopo una giornata di lavoro ed abbracciava sua figlia che poi, per gioco, si divertiva a spolverare dai suoi capelli i resti di alcuni granelli rimasti sparsi come forfora: dalla capigliatura del babbo le cadeva addosso solo  “polvere”.

Nessuno potrà dare scongiurato per anni il pericolo di nuovi casi di malattia perché il mesotelioma, che aggredisce grazie alle fibre aerodisperse dall’amianto, è capace di attendere anche  decenni prima di mostrare il suo tratto cattivo ed implacabile.

Chiude l'immagine di una fiaccolata la cui lunghezza rende una minima idea di quanta angoscia e tristezza rechi con se: una fila di persone copre le strade di silenzio, dignità, rabbia e sete di giustizia,  pone rose bianche in fila per ricordare, non dimenticare e senza voce urlare la propria afflizione per una strage “dilazionata nel tempo” che rischia di passare presto nel dimenticatoio e che nello stesso momento in cui ne stiamo piangendo le vittime sta già continuando, “carsica e spietata”, a diffondere il suo contagio di morte altrove.

martedì 22 maggio 2012

TUTTI I NOSTRI DESIDERI di Philippe Lioret



Claire (Marie Gillian) e Philippe (Vincent Lindon) sono due magistrati che ancora credono nella giustizia e che “un caso”, del Tribunale di Lione e non solo del destino, mette in relazione.

Nascerà tra loro una sorta di amore inconfessato e platonico, bello ed intenso ma funestato ed al tempo stesso arricchito dalla realtà che preme ai suoi confini.

Irrompe subito una malattia fulminante (un blastoma al cervello) che di colpo sconvolge l’esistenza e muta ogni prospettiva mentre funge da collante la lotta appassionata e professionale contro i contratti capestro degli istituti di credito che applicano agli sprovveduti clienti tassi da usura.

Minacciosi inganni sperduti nel testo si nascondono nei caratteri a “corpo cinque”, raggiri ignobili dei quali però il credito al consumo Francese (e di qualunque altra nazione) non può fare a meno per consentire al proprio “Pil” di respirare indispensabili boccate d’ossigeno, non sapremmo quanto davvero salutari e soprattutto per chi.

Di queste “trappole legali” fa le spese in prima persona Cèline (Amandine Dewasmes) la cui piccola bambina frequenta le scuole assieme alla figlia di Claire e che, inseguita dai creditori che prima le avevano concesso “facile accesso alle riserve di denaro” oltre che da uno sfratto, prima intimato e poi reso esecutivo, finirà per diventarne amica e poi addirittura una particolare “sostituta o erede”.

Nel suo “Tutti i nostri desideri” Philippe Lioret mette in campo “elementi densi e di grande rilevanza umana”, che possano dar fuoco alle polveri della sua pellicola la quale, con tutta evidenza , vuole offrirci in egual misura una storia sentimentale, predestinata fin da principio alle lacrime, intersecandola con tematiche sociali di più ampio raggio.

Per buona parte del film questo cammino parallelo sembra marciare in maniera sufficientemente credibile e spedita e riuscire a soddisfare la condivisione dei suoi comuni intenti, dando vita ad un racconto commovente quanto interessante per la sfera delle riflessioni che si propone di esplorare in ambito di giustizia, diritti e vita della collettività.

Scartabellando tra le carte della legge e frapponendosi al potere soverchiante dei codici e dei cavilli i protagonisti del film individueranno persino una sorprendente via che possa ottener salvezza per le vittime, fingendo di chieder alle istituzioni tutela a riguardo della concorrenza sleale tra i carnefici.

Anzi, per dire il vero, questa brillante idea diverrà una sorta di regalo di addio, il dono generoso di chi, tra i protagonisti della vicenda, è chiamato a reggere in solitaria tutto il peso scompensante del dolore unito al silenzio, costretto ad una marginalità forzata quanto insopportabile da un ruolo non scelto è che, suo malgrado, è chiamato a recitare.

Nel frattempo aleggiano attorno al racconto riflessioni sul superfluo e su come solo quando la fine ci sembra più vicina comprendiamo di aver fatto solo la metà delle cose che avremmo voluto realizzare nella vita; piccoli quanto grandi lancinanti segnali di sconforto arrivano mentre passivamente osserviamo i nostri figli dedicare troppo tempo alla televisione, ora che siamo dolorosamente in grado di meglio constatare il tempo vitale che a quell'inutile altare stanno sacrificando.

Tutti questi pensieri vorrebbero ed in verità dovrebbero mischiarsi, anzi addirittura coagularsi, con il quadro d’insieme, che sarebbe un gradino più ambizioso della sfera intimista e si proporrebbe di mostrare, con ampiezza di veduta, gli orizzonti dell’amore e della sofferenza così come quelli della rettitudine e dell’equità sociale.

Ma, specie nell’ultimo segmento, dopo che un incauto bagno al lago nell’acqua gelida costringerà a prender atto di spiacevoli certezze su presente e futuro ed a condividere forzatamente segreti indicibili, ecco che il film di Lioret sembra incanalarsi, quasi troppo presto pacificato e stanco, a rimorchio di coordinate scontate e calcando con fin troppa insistenza su alcuni particolari di “facile taglio” (la canzone di Rickie Lee Jones, il profumo alla violetta), che finiscono per screditare un po’ il racconto che nel mentre comincia ad annaspare tra buonismo ed atmosfera melò.

Tutto questo finisce per spingere parzialmente nell’ombra lo spessore complessivo del soggetto, facendone evaporare realismo e credibilità ed a causa di una troppo forte saturazione delle tinte il film subisce un negativo effetto di contrasto che, in parte, ne “scolora” la sua propensione realista.

Alcuni momenti della storia “vicina e distante” tra Claire e Philippe sembrano essere la parte più riuscita: due persone folgorate sul percorso della vita e che quasi senza rendersene conto camminano fianco a fianco un lungo pezzo di strada assieme, mentre gli avvenimenti solcano in profondità il presente ed ipotecano il loro futuro più prossimo, distribuendo carichi di peso tremendi e differenti da sopportare.

Rimane il rammarico, dopo aver ipotizzato altri orizzonti, nel vedere un film dagli intenti pregevoli, a tratti in grado di suscitare passione e coinvolgimento, ripiegare le ali e convergere nella parte finale su uno schema molto convenzionale che, inevitabilmente, finisce per inquinare molto del fresco fino a quel momento respirato tramutandolo in un odore che sa un po’ stantio.

ROMAN POLANSKI - A FILM MEMOIR di Laurent Bouzereau



Nel 2009 Roman Polanski si reca in Svizzera per ritirare un premio al Festival di Zurigo ma una volta atterrato in aeroporto viene tratto in arresto per un capo d’accusa Americano di oltre trent'anni prima.

Dopo aver trascorso una decina di settimane in carcere gli vengono concessi gli arresti domiciliari che trascorrerà tra i boschi in una casa a Gstaad.

E' qui che si reca a trovarlo l'amico e produttore Andrew Braunsberg, suo conoscente da oltre 50 anni, per fare “un po' di conversazione” e con il comune intento di trarne materiale dal quale sia possibile montare una pellicola che possa fornire la “versione di Polanski” riguardo la sua vita, buona per sconfessare molti particolari e falsità raccontati negli anni, in maniera controversa e confusa, dai mass media e da personaggi d’ogni sorta.

Si tratta di una una biografia talmente ricca e complessa che se la si volesse proporre ad un produttore come materiale da sceneggiare per il cinema stimolerebbe quanto incuterebbe preoccupazione: da prender con le pinze ed alla debita distanza!

A film memoir” è il resoconto/intervista, corredato di amorevole cura e dolcezza, di questo incontro.

Polanski comincia a raccontare esattamente dall'inizio: nato a Parigi da una famiglia di origine Polacca si trova a Cracovia giusto poco prima dell'invasione Nazista del 1939; quando i tedeschi bombardano ha sei anni.

Si commuove, quando narra della madre prelevata dai nazisti per esser condotta ad Auschwitz dove morirà presto gasata, notizia che i familiari conosceranno però parecchio tempo più tardi; anche la sorella verrà presa dai tedeschi così come il padre, che finirà a Mauthausen: entrambi sopravvivranno.

Conosce il ghetto e vede costruire il muro che delimiterà i confini della sua libertà; in quel periodo conoscerà anche il primo vero dolore quando il nemico che ha invaso la sua nazione gli porterà via l'amico Mietek, colui che per primo gli fece conoscere lo schermo di un cinema.

Polanski racconta questa fase della sua vita con molta franchezza e lucidità, a tratti prostrato dai ricordi piu' che sconvolto, non senza rischiare di esser travolto dall'emozione: anni dopo fisserà nel suo cinema molti personali frammenti di questo periodo, come ad esempio l'apparizione nella neve di un uomo che sperava potesse essere suo padre di ritorno a casa “Mammals” del 1962 e poi, in maniera molto più ampia e con maggior ricchezza di connotati autobiografici, nel premiatissimo “Il Pianista”, vincitore a Cannes 2002 e miglior regia ed attore protagonista agli Oscar dell’anno successivo.

Poi un giorno, il ronzio degli insetti del bosco cresce fino a tramutarsi nel rumore degli aerei alleati che arrivano a sbaragliare le truppe tedesche: è la liberazione e subito dopo la fame ed il regime comunista.

Quindi con grande ritardo la scuola (arte, pittura e grafica a Cracovia), dove per incominciare si porterà come scarno bagaglio di base un alfabeto imparato dalla tastiera della macchina da scrivere e dai sottotitoli del cinema.

Esperienza fondamentale quella con gli “Scout”, dove Polanski prenderà confidenza con il suo talento e sperimenterà la sua attitudine ad essere al centro dell’attenzione, cosa che gli tornerà utile poi per approcciare con la radio.

Tramite una serie di combinazioni anche fortuite giungerà in sequenza prima al teatro e nel volgere di poco tempo ad un miracoloso esordio persino nel cinema, con il grande regista Andrzej Wajda.

Frequenterà poi la scuola di cinematografia di Lodz negli anni '50 e dopo qualche prima fortunata esperienza (medaglia d’oro al Festival del Cinema Sperimentale di Bruxelles con “Due uomini e un armadio” – Anno 1958) girerà nel 1962 il suo primo lungometraggio “Il coltello nell'acqua” che, proprio mentre la sua vita sta attraversando una fase negativa e depressiva, comincerà a mieter successo a sua stessa insaputa, prima in Baviera, poi a Londra e al Festival di Venezia, finendo addirittura per esser candidato all'Oscar come miglior film straniero.

Si apre una fase nuova: è arrivata la notorietà!

Girerà subito dopo “Repulsion”, un film che non amerà mai particolarmente (lo definisce lui stesso come “l’unica marchetta della sua carriera”) ma che vincendo l’Orso d’Argento a Berlino consoliderà il suo successo e gli consentirà di realizzare “Cul de Sac” (Orso d’Oro 1966), progetto precedente e pensato assieme con Gerard Brach; poi “The fearless vampire killers” (conosciuto anche come “Il ballo dei vampiri” e da noi tradotto con “Per favore non mordermi sul collo”) durante le lavorazioni del quale, su un set delle nostre dolomiti (Ortisei), conoscerà Sharon Tate, che in breve tempo diverrà sua moglie.

Rosemary's Baby” gli spalanca le porte di Hollywood che si chiuderanno però presto dopo i tragici episodi di “Cielo Drive – California” (“la casa sbagliata al momento sbagliato”), dove la sua consorte verrà assassinata, incinta, in un episodio drammatico quanto ancora una volta dolorosamente decisivo per la vita di Polanski.
Il regista ricorda ancora, relativamente alla strage che vide tra le vittime l'amata Sharon, di quando subito dopo, in casa sua, si trovò di fronte alla sofferenza e contemporaneamente a doversi difendere da giornalisti ed inquirenti che addirittura lo ipotizzavano tra i colpevoli, tra tanti indizi e nessuna verità.

Verrà poi il momento di un altro episodio chiave nel 1977, con la carcerazione e le accuse di violenza e pedofilia per aver fatto sesso con la tredicenne Samantha Geiger: dopo 42 giorni sarà costretto a lasciare definitivamente l'America; nel periodo immediatamente successivo sarà braccato in Europa dai giornalisti assetati di “scoop”, capaci di assediarlo bivaccando persino sull’impalcatura del palazzo di fronte al suo.

Per questo stesso episodio verrà poi arrestato in Svizzera in giorni più recenti, ed è a questo punto che torniamo esattamente al momento dove è cominciato il racconto di questa pellicola.

Oggi Polanski è libero e vive finalmente un periodo più tranquillo e felice della sua vita, forse con sua stessa incredulità. E’ sposato da quasi trent'anni con l'attrice Emmanuel Seigner dalla quale ha avuto due figli.

A film memoir” è una corposa ed amichevole intrusione a cuore aperto nella vita di un grande protagonista del cinema mondiale, in grado di sottolinearne le sua capacità catartiche rispetto ad un destino spesso contrario: ad esempio la sua sorprendente attitudine a trasformare in un “ritiro monastico” i lunghi giorni di detenzione carceraria (come ricorda dalle sue memorie l’amico Braunsberg) o quella di reagire sempre con ottimismo alle tante avversità della vita grazie ad una accettazione pacifica ma mai passiva del corso degli eventi.

Alcuni paralleli tra racconto ed immagini, uniti alle musiche di Alexander Desplat, mostrano ancora una volta come la realtà non sia certo il cinema ma, nonostante questo, le distanze talvolta si affievoliscano notevolmente e mondi virtuali e reali spesso finiscano per incontrarsi ed in una sorta di (im)prevedibile osmosi si compenetrino.

giovedì 17 maggio 2012

SISTER di Ursula Meier



Simon (Kacey Mottet Klein) abita con sua sorella Louise (Lèa Seydoux) nelle case popolari dell'inferno a valle ma, comperando uno skipass, può accedere al mondo soprastante ed arrivare in paradiso.

E' lì che si arrabatta con furbizia rubando sci e giacchetti, frugando negli zainetti e procacciandosi panini per mangiare; ed ancora occhiali, guanti e tutto quello che potrà poi rivendere per procurarsi cibo o acquistare un piccolo forno per la sua cucina.

Louise invece ha serie difficoltà tanto a mantenere un posto di lavoro che un fidanzato e quando a casa se ne porta uno,  che magari la accompagna con il suo sportivo BMW rosso, Simon le sigarette deve mettersele nelle orecchie anziché fumarle.

E' una vita complicata la loro, vincolata tra povertà ed emozioni difficili da liberare, che si fatica non poco a comprendere da un agiato e rilassato punto di vista esterno.

Il cielo sorveglia ogni cosa e visto dal basso sembra rigato dai fili delle teleferiche che, per quanto salgano verso l'alto, non arriveranno mai a toccarlo.

“Sister” (in originale “L'enfant d'en Haut”),  secondo lungometraggio per il cinema di Ursula Meier  ed Orso d'Argento a Berlino, è una pellicola che per una buona metà  sposa  molti dei tratti descrittivi e stilistici dei F.lli Dardenne, giusto per rimanere nell'ambito della filmografia più recente.

Lo schema di raffigurazione del sociale è molto ben delineato al punto da poter sembrare  quasi programmatico, con i reietti alle pendici della montagna e lontani dal mondo in “alta quota”, dove il lusso e l'opulenza brillano in fondo assai meno della neve bianca ma non per questo risultano meno desiderabili.

La Meier però a metà racconto, grazie anche all'ausilio dei suoi ottimi sceneggiatori (oltre alla sua firma figurano quelle di  Antoine Jaquod e Gilles Taurand) opera una  sterzata repentina ed inaspettata e sconvolge tutto il piano dei rapporti e delle responsabilità tra i suoi protagonisti.

Solo allora ci si accorge di quanto siano deviati i confronti e le considerazioni che abbiamo rimuginato riguardo agli avvenimenti, incisivi gli errori di ieri e di oggi, fragili e crudeli oltremisura le situazioni osservate fino a quel momento.

“Sister” riesce a dare il meglio nel rendere il senso di smarrimento e di impotenza, il dolore dato dall'assenza di orizzonti, le debolezze, le solitudini e le false borie o le sicurezze presunte.

Tutte queste sono sensazioni difficili a rappresentarsi solo con le poche parole di un commento in maniera tale da poterne far percepire l'intensità, cosa che  invece l'estensione visiva e temporale della “forma cinema”, specie in questa occasione, riescono a dipingere con un vigore ed una forza davvero degne di nota,  imprimendogli un grande “senso di realtà”.

Una regia essenziale e misurata, unita alle prove superlative dei due protagonisti, fa di “Sister” un film notevole sul fronte dei sentimenti e delle emozioni ma molto incisivo anche sul piano sociale, con tutto il suo piccolo sottobosco di indifferenze ed egoismi messo in campo dai personaggi di seconda linea che rendono ben chiara ed in qualche misura persino agghiacciante la cifra della frattura, umana e sociale, di un mondo sempre più spaccato in due: il ragazzo britannico complice nel ricettare merce rubata, la signora anglosassone conosciuta per caso ed il fugace incontro con un altro signore al quale Simon proverà a sottrarre un paio di guanti e poco altro, finendo picchiato nell'apatia generale.

Dodici anni come se ne fossero stati vissuti già almeno il doppio vacillano nel disperato tentativo di comprare una notte d'affetto da dividere in un letto con qualcuno che, dal canto suo, prende lentamente consapevolezza del fatto che alcuni debiti contratti con la vita possono estinguersi col denaro mentre altri dureranno per sempre.

Crudele è talvolta anche portare  avanti la propria semplice quotidianità e la giustizia spesso dimentica di occuparsi di qualcuno; la neve candida annega tra lo sporco nero di una esistenza ricca di tinte grigie e senza la possibilità di un vero definitivo rimedio:  “la spazzatura porta con se altra spazzatura” e “lassù, sotto il sole, gli altri se ne fregano”!

Qualcosa di “caldo” però la Meier e la sua storia ce la regalano, per quanto non capace di rischiarare ogni cosa: ne abbiamo chiaro sentore quando osserviamo dietro il vetro due vite toccarsi con gli occhi e sfiorarsi impalpabilmente nel fugace spazio di un attimo essenziale; procedono veloci in direzione opposta ma comprendiamo che subito dopo potranno nuovamente incontrarsi e camminare fianco a fianco dalla stessa parte.

mercoledì 16 maggio 2012

CHRONICLE di Josh Trank



Matt (Alex Russel), Andrew (Dane DeHaan) e Steve (Michael B.Jordan) vagano alticci dopo una festa per il bosco e scoprono una misteriosa voragine nel terreno.

Una volta entratici dentro verranno investiti da misteriose radiazioni ed in seguito a questo avvenimento cominceranno lentamente a sviluppare poteri paranormali.

Inizialmente li useranno per sperimentare e giocare, facendo levitare palline da baseball e mattoncini delle costruzioni, spostando le macchine nei parcheggi o i carrelli ai supermercati, alzando le gonne delle ragazze; poi cominceranno quasi involontariamente a provocare guai seri e la situazione prenderà pieghe piu' gravi.

Presentato da alcuni come “l'anti-Marvel”, in realtà “Chronicle” parte esattamente da uno spunto del tutto analogo a quello che fu alla genesi di famosi “Super-Eroi” come i Fantastici Quattro o Hulk, divenuti anch'essi uomini mutanti per esser stati esposti a raggi radioattivi.

Forse l'intento sarebbe quello di riproporre lo stesso avvenimento contestualizzandolo in una normalità del vivere quotidiano e la pellicola di Josh Trank prova in effetti a giocare questa carta di contrasto.

L'intuizione sarebbe felice ma la costruzione del racconto più che altro si limita a tener fede a quanto recita il titolo, ovvero a registrare gli avvenimenti e “fare la cronaca” di quanto accade, senza supportare in altro modo sostanziale o davvero introspettivo, cercando solo in superficie di esaminare le problematiche dei suoi protagonisti e quelle connesse al succedersi dei fatti.

Un certo senso di noia unito a qualcosa che sa di furberia ed opportunismo diventa presto preponderante rispetto al racconto che prova a differenziarsi dai “Thor” o “The Avengers” anche utilizzando un montaggio “sporco” e molta camera a mano, peraltro assai invasiva e giustificata a malapena dalla strana ossessione di alcuni dei protagonisti nel voler filmare ogni cosa.

I tre ragazzi sono introversi, problematici, diversi già in origine ed alcuni dialoghi con vaghissimi accenni filosofici tentano di rendere questo aspetto senza riuscire però a raggiungere lo scopo in maniera soddisfacente: in poche parole un impianto generale troppo superficiale del racconto getta al vento l'occasione offerta da un soggetto stimolante ed inusuale.

Più che di “grandi poteri che richiedono grandi responsabilità” qui con nitidezza possiamo constatare come la potenza sia nulla senza controllo e soprattutto non serva per risolvere i problemi ma rischi semmai di amplificarli se non di aggravarli seriamente.

Non si vince certo la solitudine né si conquista l'autostima con un talento fuori dal comune ma al massimo si può vincere un “Talent-Show”; questo però lo si poteva intendere tranquillamente anche al netto delle “radiazioni magiche” e tanto il cinema quanto la letteratura hanno già ampiamente indagato il campo, discettando generosamente sul tema in vari modi, forme e diversi livelli di analisi.

Camminare su una montagna può esser assai meglio che volarci sopra e forse registi e sceneggiatori meglio avrebbero fatto a respirare la brezza in quota prima di metter mano al loro lavoro: una mente fresca e polmoni ben ossigenati spesso sortiscono effetti dirompenti e molto più concreti di un uso disordinato della telecinesi o del cinema.

DARK SHADOWS di Tim Burton



Dopo l'omologante “spersonalizzazione” patita tra le spire alle quali lui stesso si era consegnato con l'algido “Alice” Hollywoodiano Tim Burton si ritrova e, con leggerezza, si concede un gotico alla sua maniera, innestandolo di simpatiche trovate umoristiche e piccole imprudenze fantasiose.

Dark Shadows” fin dal prologo si presenta con tutta la sua dotazione di mostri ed elementi caratterizzanti, in sostanza una allegra “Dynasty” dove a contendersi il dominio di una piccola baia del Maine saranno vampiri, streghe ed altri mostri sparsi in controluce.

Barnabas Collins (Johnny Depp), abbandonata la “scatola” (bara) nella quale è stato rinchiuso per 200 anni (per la precisione 198!...) si ritrova tra le scosse di assestamento della rivoluzione “hippies” nel 1972; la gigantesca “M Gialla” di “McDonalds” lo accoglie come fosse il nuovo vessillo di Mefistofele, una allusione fugace che forse porta con se una piccola venatura di anti-capitalismo.

Conosce subito dopo i suoi parenti per così dire, “alla lontana”, che vivono ancora nel vecchio maniero di famiglia (per l'appunto quello dei Collins) e scopre in un sol colpo il “menzognero diavolo televisione” che trasmette “opere” dal gusto insipido come “Scooby-do” ed a seguire il gioco de “L'allegro chirurgo” assieme ad altre amenità.

Per dormire al riparo dalla luce del sole deve risolversi a dormire appeso alle tende come un pipistrello oppure dentro l'armadio tra la biancheria mentre il fissare una lampada che dentro il suo vetro fa fluttuare macchie rosso sangue lo ossessiona a tal punto da farlo finire sul lettino della psichiatra di famiglia, Julia Hoffman.

In questo ruolo troviamo la moglie di Burton, Helena Bonham Carter, ancora una volta nel cast selezionato dal marito e qui all'ennesimo travestimento con indosso una parrucca dal rosso tendente all'arancione, rosa da una pericolosa brama di conquistare l'eterna giovinezza, certo comune a molte altre donne del nostro tempo.

Per riportare in auge l'azienda ittica di famiglia, cacciata “agli inferi” dalla strega che secoli addietro uccise i suoi genitori (Angelique/Eva Green), Barnabas darà sfoggio delle sue “capacità imprenditoriali”, a dire il vero aiutandosi con trucchetti (poteri) poco ortodossi come ad esempio una “magica ipnosi” con la quale costringerà i pescatori della concorrenza a riportare le sue flotte a veleggiare sul mercato.

Il suo competitore è per l'appunto la “strega fatale” di cui abbiamo detto poc'anzi la quale, rifiutata in amore, lo costrinse secoli addietro al tormento della vita eterna tramutandolo in vampiro (“uccidere è semplice mentre una maledizione richiede assoluta devozione”), per di più crudelmente inducendo la sua amata donna a tuffarsi giù da una scogliera.

Adesso, sinuosa e felina, lo tallona in tacchi alti e vestiti seducenti: provoca, circuisce, inganna, tanto per annientarlo che per soggiogarlo a se stessa, al punto che Barnabas scoprirà presto che persino nella “morte” ha ancora un debole per la “carne viva”, scivolando facilmente in una travolgente notte di sesso tutta unghie e passione al ritmo di Barry Withe!

Ma il primo amore “non muore mai” e se non si chiama piu' Josette oggi si fa chiamare Vicky (o Victoria), prendendo a prestito il nome da una pubblicità dei treni, ma a dire il vero si tratterebbe di Maggie e... nel mezzo c'è di sicuro dell'altro che non vorrete certo vi riveli ora, fino ad arrivare alla conclusione dove, neanche a dirlo, si scontreranno (fino alla morte?...) le eterne forze del male in un diluvio di fuoco, malefici, pugni e sonori ceffoni.

Ancora una volta fianco a fianco con il compagno di tante scorribande Johnny Depp, Burton si concede con “Dark Shadows” una escursione giocosa piu' del solito, molto meno compiuta e poetica di altre volte.

C'è poca elaborazione sul piano della sceneggiatura e di certo son lontane le vette sublimi e visionarie di altri più fortunati episodi con i quali ci ha viziato fino ad innalzare le nostre aspettative ogni volta verso qualcosa di migliore ma, nonostante queste considerazioni, la storia per quanto strampalata può regalare allo spettatore che voglia assoggettarsi al gioco il giusto divertimento e non poche deliziose ispirazioni.

Valga per tutte il ridicolo trastullo durante il quale il regista Californiano lascia che Barnabas esterni il suo dolore sdraiato sopra i tasti di un organo che nel mentre ticchetta ritmi elettronici e note stonate.

Non mancano, anche se molto alla lontana, i soliti riguardi verso i diversi: i bambini maltrattati e disadattati e le adolescenze problematiche ed inquiete plagiate da un mondo adulto ed a loro poco attento, creature ancora indifese e che magari mentre dormivano nella culla sono state preda del morso cattivo di un lupo mannaro.

Tutto è molto svagato e leggero ma non necessariamente questo deve costituire un difetto se a supporto c'è tanta fantasia e voglia di stupire, creare e ricreare.

Nel “cocktail” non sono poche le sorprese esilaranti e sorprendenti come un gran ballo con cubiste in gabbia ed “Il vero Alice Cooper” (la “femmina” più brutta che Barnabas abbia mai visto!); strani rivoli rossi scivolano dalle labbra ma non si tratta di sangue e “le streghe aizzano deliberatamente ...la caccia alle streghe”!

Forse il finale è un po' troppo ricco, roboante e precipitoso e possiamo trovar sparsa qualche dissennata scelleratezza di troppo: piccole cadute di gusto ed eccessi che però si possono ben perdonare a voler considerare tutto il contesto.

Dark Shadows” è ispirato ad una serie televisiva Statunitense degli anni '60 ad opera di Dan Curtis (al quale il film è dedicato), “resuscitata” per l'occasione e che non è affatto indispensabile conoscere, arricchita dalle tipiche ambientazioni ed atmosfere “Burtoniane”.

Ma in fondo, prestate attenzione, la vera maledizione è “non saper amare”, cosa che invece Barnabas desidera a tutti i costi e difatti perseguirà tenacemente lo scopo, ora proponendosi con un look antiquato da “swinging London”, in altre occasioni indossando abiti più probabili assieme ad un paio di occhiali per proteggersi dal “nemico sole” che, sul suo viso bianco slavato, “riesumano” il ricordo di Michael Jackson, dando luogo ad un altro forse involontario sberleffo.

Questo atipico vampiro ossessionato dalla figura di donna con i “fianchi da fattrice” non lascerà nulla di intentato e finirà addirittura per prendere le necessarie lezioni di corteggiamento da una adolescente di famiglia.

E così, mentre il pericolo inaspettatamente giace ancora sul fondo, anzi, sul “fondale”, ecco che due corpi abbracciati stanno già precipitando nel vuoto travolti da un incontenibile sentimento: l'amore è “un morso, si sa, e bisogna coglierlo “al volo”!