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venerdì 28 dicembre 2012

LO HOBBIT - UN VIAGGIO INASPETTATO di Peter Jackson


Come ben sanno i “devoti ed appassionati” di J.R.R. Tolkien il libro fondante de “La saga dell'anello” - e dove in principio viene rivelato lo sconfinato e fascinoso teatro de “la terra di mezzo” - è un libricino di appena poco più di trecento pagine: “Lo Hobbit”.

All'inizio della storia, in un buco della terra de “la contea” viveva Bilbo Baggins, tranquillo e spensierato; nel mentre, senza che questi ne avesse il benchè minimo sentore, la città fortezza di Ereborn, colma d'oro e di diamanti, veniva colpita da distruzione e fuoco per opera di Smaug, il terribile drago sputafiamme.

I nani, ovvero gli abitanti di Ereborn, sono così cacciati dalla loro stessa casa. Alcuni di loro si riuniranno però tempo dopo, chiamati a raccolta da Gandalf  “il Grigio”, per organizzare la riconquista del loro regno: luogo di ritrovo, prima di partire per la grande avventura piena di difficoltà e pericoli, la casa del pacifico Hobbit Bilbo Baggins: ad ora di cena ed a sua completa insaputa!

Era inevitabile che Peter Jackson mettesse mano al “libro origine” della terra di mezzo, vuoi per il successo miliardario e planetario dei primi tre episodi cinematografici da lui diretti, vuoi perchè proprio questo era all'inizio il suo maggior desiderio, prima ancora di girare la trilogia de “Il Signore degli Anelli”.

Stesse location, stessi sceneggiatori (Philippa Boyens, Fran Walsh e lo stesso Jackson) più Guillermo Del Toro - che a dire la verità nel progetto iniziale avrebbe dovuto trovarsi in cabina di regia – e grande dispendio di mezzi e di tecnologia, se possibile ancora più che in precedenza, con fotogrammi sparati sullo schermo alla velocità di 48 al secondo!

Ma la scelta di suddividere in tre parti anche questa storia, avendo a disposizione molte meno pagine che nella precedente occasione alle quali attingere – anche se si è provveduto a rinvenire appunti e compendi vari - sembra essere solo la prima delle difficoltà tra le quali Jackson e soci hanno dovuto districarsi e ne abbiamo una chiara percezione soprattutto nella prima ora della pellicola, che trascorre quasi per intero  passando in rassegna tutti i nani ed i vari “ospiti” che si presentano al desco dell’inebetito Bilbo.

Per farci trascorrere questo lungo frangente mangereccio senza darci troppo tedio, mentre si gozzoviglia della grossa svuotando una nutritissima dispensa, vola qualche battuta da osteria fuori testo e Gandalf all'occorrenza “infioretta” futili amenità sull'origine del golf.

Poi, all'indomani, i vecchi guerrieri (o quella che si appresta a divenire la compagnia della leggenda) saranno pronti a partire verso la “terra promessa” sotto la guida di Thorin Scudodiquercia (interpretato dal nuovo arrivo Richard Armitage) ed assieme a loro, ovviamente,  un titubante “mezzo uomo” avvezzo più al tiro alle castagne che a battersi con ascia o spada.

Il viaggio verso le “terre selvaggie” viene proposto da Jackson con un uso ridondante di maestose riprese aeree che, a dire il vero, più che condurre il suo lavoro a guadagnarsi definitivamente la patente di epico e leggendario stancano un po’  l'occhio dello spettatore mentre rimbalza freneticamente tra cielo e terra spossandosi nel vorticoso sali-scendi.

Anche la prima trilogia non era certo avara nel proporre imponenti scenari ed un massiccio uso di vertiginose riprese dall’alto ma riusciva probabilmente a bilanciarle con momenti piu’ intimi e “realistici”, grazie ai quali virtuosismo e concretezza giungevano alla  loro posizione di equilibrio.

Chiaramente non si risparmiano incontri con Orchi e Troll “repellenti e citrulli”, questi ultimi alle prese con le loro “pericolose e vomitevoli” ricette; nel lungo peregrinare nel  bosco faremo la conoscenza anche di uno strano personaggio che si fa trainare da una slitta di conigli, coglie funghi allucinogeni e fa l'aerosol ai porcospini: è lo stregone Radagast “il Bruno”, sulla cui trasposizione in carne ed ossa Jackson sembra un pochino calcare la mano in quanto a facezie, fino a farcelo sembrare quasi un fumato hippie con stracci da barbone piuttosto che un misterioso tipo dai poteri magici.

A dire il vero in questo “Lo Hobbit” si mantiene un passo davvero adeguato solo quando ci si immerge nei combattimenti, al solito frenetici, caotici e visionari come nei precedenti episodi e, soprattutto, quando entrano in scena i personaggi di “Azok il profanatore”, un orco pallido e cattivissimo che cavalca un bianco mannaro ed infine quando (ri)compare l'attesa primadonna “Gollum” (fantastica animazione digitale che parte dalle movenze dell’attore Andy Serkis), che sfiderà agli indovinelli lo scaltro Bilbo nello stesso frangente in cui questi si approprierà di “sua maestà l'anello” e ne scoprirà alcuni dei suoi magici poteri.

Il resto è già storia cinematografica alla quale sinceramente questo “nuovo primo episodio” per il momento poco aggiunge, a parte nuovi paesaggi incredibili  ed un turbinare di nomi fantasiosi di strani personaggi che,  sciorinati tutti assieme, rischiano di disorientare i neofiti del tutto a digiuno della saga, costretti magari ad annaspare tra diverse incomprensioni, rimandi e persino un po' di noia.

Mentre è lontano da venire il momento topico – rimandato ai prossimi episodi - quando l'ultima luna d'autunno cederà il passo al primo sole d'inverno così che la porta della montagna potrà mostrare come accedere oltre il suo valico, la lotta tra bene e male fa soltanto capolino tra gli scintillanti avvenimenti e Gandalf intanto ritaglia per noi qualche parola intensa giusto dal cuore filosofico e  morale del racconto, quando allude alle piccole cose come la gentilezza o i gesti quotidiani che tengono a bada l'oscurità, ovvero una metafora fantasy dell'umana solidarietà e della irrinunciabile nobiltà d'animo senza le quali la vita sarebbe un insostenibile esercizio di puro egoismo fine a se stesso.

Poi sono ancora ragni giganti, orde ruggenti di orchi contro la “feccia nanica”, ponti sospesi nel vuoto ed enormi pietre rotolanti che sbaragliano corpi d'ogni forma per l'aria, come fossero inanimati birilli.

Mentre Gandalf dedica più volte il suo tempo (e quello dei 164 minuti del film) a contare  i nani  (sono in tredici, non v’è dubbio!...) “Lo Hobbit” pare dimenarsi sullo schermo in una specie di “agitato stallo”, indeciso se il tempo di partir per l'avventura sia già scoccato o facendoci sperare di aver solo rimandato l'appuntamento al prossimo Natale.

giovedì 27 dicembre 2012

TUTTO TUTTO, NIENTE NIENTE di Giulio Manfredonia


Cetto La Qualunque, politico di lungo corso, è sempre lui: “il lupo perde il pelo ma non il pilu”, anche se stavolta per rinfrancare la sua virilità avrà bisogno di sdraiarsi sul lettino dello psicanalista. A dieci avvisi di garanzia si regalerà una mountain bike mentre si prepara serafico per un – breve – soggiorno nelle patrie galere.

All’eventualità di finire in prigione invece – anche se le cose andranno diversamente - nemmeno ci pensa il secondo dei tre personaggi interpretati da Antonio Albanese nel nuovo film girato ancora una volta con Giulio Manfredonia dal titolo “Tutto tutto, Niente niente”; trattasi dello sconvoltissimo Frengo Stoppato (vecchia conoscenza televisiva), candidato anch'esso - “in contumacia” - da una madre (Lunetta Savino) che per tenerselo vicino anziché farlo tornare nel lontano Sud-America farebbe letteralmente di tutto: anche farlo carcerare!

Un'altra buona strada per ottenere lo scopo potrebbe essere quella di riuscire a farlo beatificare in vita: la religione de “l'amore cosmico” cerca proseliti anche se vacilla di fronte al mistero della morte, senza poter sapere se nell'aldilà ci sarà un centro commerciale e, soprattutto, qualcuno che avrà da accendere!

Chiude la terna Rodolfo “Olfo” Favaretto, politicante e scafista per cui l'Italiano è una lingua superata: sbarca direttamente in laguna sotto il Ponte di Rialto barche piene di extra-comunitari pronti a prestare la loro manodopera in un campo di lavoro a basso costo e senza pause.

Ossessionato dalla secessione e da una bretella che possa collegare “Brachetto di sopra” con “Brachetto di sotto”, conoscerà il disagio del carcere per colpa del primo negro in grado di galleggiare sull'acqua: la “nemesi carceraria” sta nel nome dell'istituto ovvero il “Martin Luther King”.

In un rutilante tripudio di pacchiano e grottesco dai colori accesissimi – dal viola al rosa e fino al giallo canarino – i tre protagonisti abitano un mondo dove i ministri hanno acconciature improbabili (vedi Fabrizio Bentivoglio) e colletti d’altri tempi; svolgono le loro sedute in un parlamento dove si sventolano bandiere da stadio ed in terra  ci sono tappeti rossi da palasport, giocano in cortile con il pallone come bambini mentre un attimo dopo sembrano  ora degli sprovveduti massoni, ora senatori dell'antica Roma vestiti da Armani o Calvin Klein.

Ci sarebbe di che ridere e lo si vorrebbe anche molto mentre si  assiste alla proiezione, salvo rendersi conto che dopo un'ora comincia ad affacciarsi qualche sbadiglio e pare di esser ancora sul punto di partire.

Questo l'effetto dell’accatastarsi, una dietro l'altra, di gags tronche e senza nemmeno un briciolo di legame tra loro, meno che mai di aiuto all'evoluzione  ed alle dinamiche della storia nel suo insieme: puro sprizzare di fantasia senza meta, coraggiosa sfrontatezza senza alcuna direzione!

E dire che Frengo col suo personaggio fuori dalle righe ha persino licenza di sparare bordate pesanti su temi come la famiglia tradizionale e la fecondazione artificiale ma il meglio che riesce ad offrirci è poco più del suo vestito sgargiante che pare uscito da una foto di “LaChappelle”: come “delfino del Papa” propone abbellimenti per le encicliche e di aumentare dall'otto per mille all'otto per cento l'apporto dei contribuenti italiani alla chiesa.

L'acme potrebbe essere un dementissimo incubo al ritmo del “Tuca Tuca” della Carrà ma anche questa divertente intuizione ripiega presto le ali e non lascia particolare ricordo di se.

In un montaggio dove i personaggi si alternano per tutta la durata del film si spera che noia e delusione mutino almeno in simpatia ed affetto verso le tre impossibili ed esilaranti creazioni di Albanese ma la bravura del comico concede solo un pochino di accademia attorno alle caratteristiche dei suoi personaggi, senza mai azzeccare peraltro la battuta al fulmicotone da passare ai posteri.

Nessun soggetto solido ed interessante supporta i “soggetti allo sbando” che finiscono inevitabilmente per affogare nella ridondanza di stravaganze che li contornano, mentre probabilmente gran parte del pubblico nemmeno se ne accorge ma certo si domanda perchè non rida a crepapelle come sperato mentre acquistava il biglietto d'ingresso.

Occasione sprecata: un baule pieno di idee buone per un film che qualcuno ha dimenticato di costruire - dalla Maria Assunta Maddalena sorella di Frengo al campo militare dove si prepara un esercito cinese a secedere il Nord dal Sud - “Tutto tutto, Niente niente” è abbondanza comica allo sbando, ricchezza di proposte che delude, rimandando ad ogni istante alla prossima occasione; una promessa rinnovata e mancata di continuo ad ogni fotogramma, capace di regalare solo poche sporadiche e raffazzonate situazioni comiche, risate soffocate ed in controluce qualche sinistro bagliore di divertita amarezza.

Forse il meglio era già stato dato con il molto ben costruito “battage” pubblicitario delle “vere primarie” e che, ripensandolo a posteriori, fa rimpiangere che si sia proseguito oltre con il tentativo di questo sedicente lavoro  cinematografico.

RALPH SPACCATUTTO di Rich Moore


Trent'anni a fare il cattivo in un videogioco (“Felix Aggiustatutto”) possono logorarti, specie se i tuoi “colleghi di lavoro” decidono di festeggiare l'anniversario del terzo decennale e nemmeno pensano di invitarti.

Così, quando la sala giochi chiude per la pausa e gli schermi sono spenti, a Ralph non rimane che condividere le sue frustrazioni nelle riunioni dei “cattivi anonimi” e trovare un po’ di solidarietà in compagnia di qualche zombie o dei fantasmi del “Pac-man”, confessando la sua invidia nei confronti del buono “Felix”,  che da sempre lo tiene in ombra ed è adorato da tutti, mentre lui è relegato a vivere in una discarica.

Ma solo una cosa in realtà potrebbe risolvere i suoi problemi: essere un buono, anzi un eroe almeno per un giorno e conquistare una medaglia che ne certifichi le gesta.

Ed allora Ralph decide di evadere dal suo gioco: si nasconde in una armatura e si trasferisce dentro “Hero's Duty”, pronto a combattere disgustosi scarrafoidi per procacciarsi la patente di intrepido coraggioso. Le cose sembrerebbero marciare per il verso giusto e l'ambito premio arrivare, ma il destino dirotterà fortuitamente il nostro protagonista in un altro videogioco ancora,  tra kart caramellati e laghi di Nesquik. 

Rich Moore - con la supervisione di Lasseter e soci -  strizza l'occhio ai quarantenni d'oggi che si baloccavano in sala negli anni '80 con i videogiochi ad “8 bit” (per l'appunto “Fix it Felix” è ispirato a “Donkey Kong”) cercando un ponte con i piccoli d'oggi alle prese con i più sofisticati Nintendo e Play Station (ed ecco allora  una concezione grafica più moderna come quella di “Hero's Duty”): il divertimento che ne scaturisce non è da poco e le buone idee davvero non mancano.

Come in “Toy Story” i protagonisti dei giochi hanno una vita autonoma e stavolta, tramite i fili elettrici che alimentano i videogames, nei momenti di “pausa lavoro” si spostano da una macchina ad un’altra per confluire nell'ampio ed affascinante scenario di smistamento della “Game Central Station”.

Gran parte della storia è ambientata  nei paesaggi coloratissimi di un gioco chiamato  “Sugar Rush”, un mondo di  lacci gommosi, stalattiti di Mentos e laghi di Diet Cola, che però si rivelerà esser uno “zuccheroso antro di tenebra” governato dall'ambiguo “Re Candito” –  qui tutto l’immaginario visivo sembra essere in verità alquanto debitore  di “Alice nel paese delle meraviglie” - e dove Ralph conoscerà la piccola Vanellope, una deliziosa ragazzina-pilota con qualche “pixel ribelle”,  per la precisione un “glitch” (un errore di programmazione digitale), anche lei alla ricerca della sua giornata di gloria e di riscatto, ovvero qualcuno che nutre i suoi stessi desideri e che la “vita” (…) ha obbligato ad un analogo  modo di sentire.

Difatti “Ralph spaccatutto”, tra momenti di riuscita elaborazione grafica della fantasia e piccole battute memorabili tra “scambiogiochisti”, di certo non difetta in quanto ad elargire morale e buoni sentimenti e mentre i protagonisti fuggono inseguiti dai cani biscottati ecco che ci viene suggerito che di certo non servono  medaglie per esser importanti ma che forse basta un pochino di gentilezza per risolvere ogni problema, che tutti nella vita, come nei giochi, hanno un ruolo ed ognuno ha bisogno vicendevolmente degli altri – difatti nel momento in cui Ralph abbandona il campo il suo gioco va in tilt e viene messo fuori servizio, facendo rischiare a tutti i suoi protagonisti di finire… all'ospizio – e che ogni lavoro è utile e mai bisogna desiderare di esser qualcun altro.

Insomma, ancora una volta la Pixar ci offre il film giusto per avvicinare i più piccoli, con spensieratezza e navigando tra buon gusto e graziose invenzioni visive, a quelle che sono  le cose che davvero contano nella vita e sicuramente  non inadatto a ricordarlo altrettanto a noi adulti, perchè “Ralph spaccatutto” di certo non è vietato a chi è ancora giovane nell'animo.

Imperdibile, in abbinamento al film, il delizioso corto animato  “Paperman” di John Kahrs, sette poetici  minuti  che con grazia sopraffina portano in volo i nostri sogni d’amore sopra aerei di carta.

Così, tra una sfrenata corsa di automobili con gli  alettoni fatti di merendina e mentre Felix/Mario Bros fa gli occhi dolci al Sergente Calhoun, sterminatore di scarafaggi spaziali con un passato  tormentato, Ralph capirà che la vita si affronta con pazienza ed amorevole  dedizione giorno per giorno, anzi: una partita alla volta!

mercoledì 26 dicembre 2012

LA BOTTEGA DEI SUICIDI di Patrice Leconte


La crisi ti opprime ed angustia la tua vita? In fondo al viale c’è la bottega della Famiglia Touvache che ti aiuterà  a risolvere “definitivamente” il problema: perché una volta morti non ci sarà più di che lamentarsi!

Nel loro “Magazines des suicides” potrai trovare certo  una soluzione per abbandonare le tue sofferenze: dalla classica corda in canapa con nodo scorsoio già pronto (o in un sintetico più economico)  ad una pistola fornita di una sola pallottola (a cosa dovrebbe mai servire la seconda?); se gradite una dipartita indimenticabile e di grande levatura a soli ottocento euro (..!..) ecco  un “seppuku” in stile giapponese altrimenti vi conviene accettare l’offerta di un sorso di “Veleno Nr.5” oppure, se siete in coppia, c’è pronta per voi l’offerta di San Valentino: “Death for two”.

Insomma, suicidi per tutti i gusti ed in confezione regalo (che fa piu’, ehm, allegria…) e se la vostra vita è stata un fallimento, beh, fate almeno che la vostra morte sia  un successo!

Per i Touvache - papà, mamma e due bambini perennemente con il broncio, che quando soffiano sulle candeline per il loro compleanno festeggiano un anno in meno che gli resta da vivere -  il macabro business continua a gonfie vele e mentre i clienti riempiono le casse da morto loro riempiono di fruscianti bigliettoni la cassa del negozio.

Fino a che un giorno nasce il terzogenito Alan, un bambino “incomprensibilmente” allegro e dal sorriso insopprimibile…

“La bottega dei suicidi” (tratto da un romanzo di Jean Tulè) vorrebbe esser una godibile commediola nera e magari strizzare pure un pochino l’occhio a Tim Burton e le sue atmosfere cupe - ma sempre prodighe di invenzioni poetiche, fantasiose e magiche - e per il tratto del disegno al connazionale Sylvain Chomet.

Ma non basta qualche battuta azzeccata e nemmeno uno straccio di “invenzione vera” per ottenere un buon  risultato e difatti il film di Leconte tira i remi in barca fin da principio, rassegnandosi prima a mostrarci in sequenza un piccolo campionario di aspiranti suicidi, accogliendo poi l’arrivo dell’elemento destabilizzante – e salvifico - ovvero il neonato ostile alla tristezza ed ai musi lunghi e dirigendosi poi tra musica, odor di crepes e bolle di sapone verso un  finale di certo non sorprendente.

Sembra in verità di transitare dall’inizio verso la fine saltando a piè pari un qualunque ipotetico sviluppo nel mezzo, porzione di tempo abbandonata dalla sceneggiatura dove si accenna solo alla rinfusa e con vaghezza al rimorso, alla gioia di vivere che è contagiosa e, manco a dirlo, all’amore che tutto risolve.

Inoltre Leconte sceglie di intervallare la sua animazione a tempo di “musical”, affidando ad Etienne Perruchon il compito di riempire il pentagramma e tenendo per se stesso quello di scriver le parole, ma entrambi volano troppo basso per poter lasciare il segno ed anzi, tediandoci persino con composizioni e vocaboli ordinari di nessun impatto emozionale.

Resta inspiegabile l’abbaglio della censura Italiana che aveva inizialmente imposto un divieto addirittura ai diciotto anni provocando il ritiro della distribuzione del film.

La motivazione recitava incredibilmente così: “…la leggerezza con cui è trattato il tema dei suicidi e la facilità d’esecuzione, con forti rischi di emulazione da parte di un pubblico piu’ giovane, quali gli adolescenti (…?!...) che attraversano un’età critica. Per di piu’ la rappresentazione sotto forma di cartone animato costituisce un veicolo che agevola nel pubblico piu’ giovane la penetrazione di tale messaggio pericoloso.”

A conti fatti e dopo aver visionato una pellicola che con fin troppa cautela e nessuna inventiva o ispirazione poetica tenta di ergersi al di  fuori delle convenzioni, occhieggiando con distrazione al politicamente scorretto,  le grottesche ed insensate parole dei nostri “padri controllori” sono di gran lunga l’argomento più interessante del quale dibattere attorno a questo film.

lunedì 3 dicembre 2012

E SE VIVESSIMO TUTTI INSIEME? di Stephane Robelin


Dalla Francia arriva una piccola e piacevole sorpresa ad opera di Stephane Robelin che con il suo “E se vivessimo tutti insieme?” porta sullo schermo una situazione accattivante ed inconsueta: cinque  amici di vecchia data sul viale del tramonto e della pensione (due coppie ed un inguaribile single) si ritrovano, quasi per caso ma niente affatto fortuitamente,  a vivere tutti  sotto lo stesso tetto.
Mentre affiatamento ed amicizia vengono messi alla prova dalla nuova circostanza di conviventi “inseparabili”, dai  bauli portati dai vecchi appartamenti riemergono antiche lettere rivelatrici di  tradimenti databili quarant’anni orsono che però  oramai, spogli del potenziale necessario ad innescare un forte risentimento,  risultano esser alla stregua, se non proprio di dolci ricordi, quantomeno di perdonabili errori.
Nonostante questo,  durante i  confronti e le richieste di chiarimento che, per urgenza o necessità, si manifesteranno all’improvviso -  attorno ad una tavola e “dentro la piscina” (…) -   con il vino versato nei bicchieri non si brinderà affatto ed anzi le bottiglie voleranno per l’aria.  
Robelin affronta con i toni della commedia ma senza superficialità un tema spesso al margine della narrazione cinematografica come quello della terza età e di tutte le sue implicazioni, come  ad esempio la solitudine o l’autosufficienza,  senza tralasciare nemmeno (o soprattutto) quel che riguarda la sfera sessuale ed i suoi desideri (al riguardo di questi ultimi, qualche anno fa si cimentò con l’erotismo senile,  avendo nella circostanza una  mano piuttosto felice, il regista Andreas Dresen con il suo “Settimo cielo”).
Gli anziani non sono angeli asessuati ed ancora di meno “vecchi arnesi” da depositare in infelici discariche umane quali risultano spesso essere le cliniche ed i pensionati;  proprio da una -  esilarante - “fuga dalla casa di riposo” ecco che subito dopo muterà in realtà il progetto di convivenza fino ad allora solo spensieratamente ipotizzato dal gruppo di amici protagonisti della pellicola.
Nel cast, oltre a Jane Fonda (Jeanne) e la padrona di casa Geraldine Chaplin (Annie) ci sono anche i mariti di queste, rispettivamente Albert (Pierre Richard) e Jean (Guy Bedos), assieme allo scapolo impenitente Claude (Claude Rich); in ultimo il giovane etnologo Dirk (Daniel Brühl), che li affianca durante la giornata per raccogliere elementi utili alla sua tesi di laurea.
Quel che senza dubbio accomuna gli esuberanti protagonisti è, con comportamenti differenti,  un approccio alla terza età niente affatto arreso al declino anticipato e definitivo della propria esistenza dal momento che ognuno di loro, con vera consapevolezza o meno, rigetta risolutamente l’ipotesi di doversi risolvere solamente ad essere il meno fastidioso possibile agli altri  per via dell’età avanzata o degli acciacchi ad ogni giorno più preoccupanti.
Non ci si negano quindi appuntamenti - a rischio cardiopatico - con le “allegre signorine” che praticano il mestiere più antico del mondo e, nonostante la memoria cominci ad esser labile ed il passo claudicante, si porta a spasso il cane rischiando di perder la strada di casa o di inciampare sul marciapiede; si fa “shopping” dentro negozi “sui generis” - non senza lasciar emergere una “inusuale nota di colore”-  allo scopo di avere una panoramica sugli impegnativi e “particolari” acquisti di domani (con data rigorosamente da destinarsi!).
Il tempo è prezioso ma la gente non ne ha più nemmeno per cucinare, così come ci si preoccupa di assicurare l’automobile e persino la vita ma nessuno pare davvero impensierito da quello che lo aspetterà negli ultimi anni di questa, tranne forse rendersene angosciosamente conto nel momento in cui l’appuntamento con la verità non risulterà piu’ rimandabile.
Quello che il regista Francese riesce a mettere a fuoco con il suo film sono alcune piccole sfumature di questa fine di percorso, scegliendo per farlo il set di una anomala situazione di convivenza capace di mettere in risalto tanto gli aspetti della piccola spontanea solidarietà come quelli del mutuo soccorso, tracciando magari una strada che nel futuro prossimo, chissà,  sarà più battuta che oggi per risolvere alcune “inderogabili questioni”.
Il suo racconto è leggero senza però la volontà di evitare gli accenti gravi, sui quali non ci si ferma a rimuginare o a scavar troppo in profondità,   rendendo comunque ben chiare le sensazioni e le conseguenze che ne derivano.
Non abdicate alla vita: rimanete vicini a chi vi è caro e davvero ha nel cuore le vostre sorti ed assieme troverete una soluzione. Sembra questo in fondo il messaggio che potremmo cogliere dal lavoro di Robelin e dal modo di affrontare l’esistenza dei suoi protagonisti, ben consci che alle volte anche gli eventi più tristi possono comunque “colorarsi di rosa” e che ogni brindisi deve rafforzare la voglia di restare uniti, anche se una volta poggiati i calici ci si dovesse accorgere che qualcuno mancava alla bevuta:  e allora non resterebbe altro da fare  che andare tutti assieme a cercarlo! 

martedì 27 novembre 2012

ALI' HA GLI OCCHI AZZURRI di Claudio Giovannesi


Dal suo documentario “Fratelli d'Italia” Claudio Giovannesi stacca una costola e crea un film di finzione dove però ogni protagonista , le situazioni descritte ed i rapporti fra le persone corrispondono a realtà, ovvero gli attori interpretano la loro stessa vita.
Così ecco Nader (Nader Sarhan), l'Egiziano dell’Istituto “Toscanelli” di Ostia -  oramai  cresciuto - andare in giro con il suo compagno Stefano (Stefano Rabatti), il suo “Lucignolo”, a buttar via le giornate rapinando incassi a negozi e prostitute oppure disertando la scuola e la casa per amore della sua Brigitte (Brigitte Apruzzesi) - che la religione di famiglia imporrebbe di tenere alla larga da un giovane come lui - durante una settimana scandita dai nomi dei giorni sovrimpressi a sinistra dello schermo in Italiano ed a destra in arabo.
Molto ci verrà raccontato di quel che non siamo abituati a vedere in quanto poco roboante da far notizia e troppo distante da noi per poterlo considerare.
Perchè oltre la monotonia dei centri commerciali e delle nostre vite garantite si muove e si dibatte il nuovo popolo degli stranieri nati in patria, le cosiddette seconde generazioni, e Giovannesi è il regista italiano che più di tutti sembra a suo agio nel muoversi attraverso questa frontiera che in un batter di ciglia abbiamo scoperto esser un “nuovo mondo” proprio nel cuore delle nostre città.
Pasolini aveva previsto tutto mezzo secolo fa (“...arriverà Alì ed avrà gli occhi azzurri”...”, leggete pure il resto della sua splendida e poetica profezia) ma al cinema pochi  avevano ancora pensato di raccontarlo o lo avevano saputo fare (ed al “Festival del Cinema di Roma” forse hanno pensato che questo andasse doppiamente premiato).
L'occhio cinematografico di Giovannesi è distante da quello del grande intellettuale Friulano ma comunque acuto e capace, sincero e molto appassionato.
La sceneggiatura di “Alì ha gli occhi azzurri” è agile, densa di avvenimenti concitati e che sottintendono a un mondo difficile e talvolta anche violento ma in fondo non serve a null'altro che a metter in luce le contraddizioni, i cortocircuiti tra retaggi culturali e nuovo presente, ostacoli insormontabili che dovranno esser valicati!
Dal furore di Nader che difende sua sorella da “vero Egiziano” all'imbarazzo di quest'ultima quando viene corteggiata dal suo coetaneo, dal triangolo di amici “Romeno-Romano-Egiziano” mischiato tra i tanti volti della moltitudine scolastica fino alla scena esemplare tra la prostituta ed il suo cliente nella pineta, dove i “forzati esuli della necessità” si scoprono persino compatrioti un attimo prima di mordersi tra loro per bisogno (entrambi Rumeni, vengono uno da Lasi e l'altro da Costanza), il film di Giovannesi fornisce un quadro generale, autentico e credibile, di tutti i fuochi che divampano a margine o covano sotto le ceneri ed a breve illumineranno la scena centrale, muovendo dalla periferia dritto al cuore della nostra tranquilla e colpevolmente ignara società, ipocrita e disattenta.
Mentre a casa,  attorno al tavolo, la sua famiglia lascia che la televisione sovrasti un silenzio che sa di smarrimento, “Romeo” venuto dall'Africa riga con una lacrima il suo volto  rivolto al balcone della sua Giulietta: e forse solo l'amore potrebbe, ancora una volta, salvarci dal conflitto inevitabile e saldare quella “materia umana” che non sembra poter stare assieme.
Non sperarlo nemmeno sarebbe come uccidere in embrione gli evidenti segnali di un futuro multiculturale che ha tutte le carte in regola per poter divenire ricco e differente: quello di una umanità finalmente “totale” e non solo globale.

IL SOSPETTO di Thomas Vinterberg


Lucas (Mads Mikkelsen, la cui interpretazione qui gli è valsa il premio quale miglior attore all’ultimo Festival di Cannes) è una persona tranquilla, con alle spalle ha un matrimonio finito in burrasca; ora sua moglie non vuole più parlargli nemmeno al telefono - e  lui non puo’ chiamarla - così  il suo più grande desiderio,  quello di provare a riprender a casa  suo figlio Marcus, è una speranza che viene ogni giorno soffocata da un nuovo rifiuto.
Lucas vive in un piccolo paesino della Danimarca e lavora in un asilo, adorato dai bambini che lo frequentano ed in particolar modo dalla figlia del suo migliore amico Theo (Thomas Bo Larsen); la piccola Klara è un fiorellino che, forse mancando delle necessarie attenzioni da parte dei suoi genitori, cerca affetto con infantile ostinazione  dal suo amico adulto – lo stesso Lucas - con cui condivide quotidianamente il suo tempo e dal quale non è disposta ad accettare nessun tipo di rifiuto.
Quando si tende il filo dell’insicurezza basta però un semplice gesto o una parola fuori posto a scatenare piccole ed innocentemente livorose gelosie, che troveranno   sfogo di li a poco in affermazioni per nulla chiare, divenendo frasi figlie di fantasie confusamente prese a prestito da altri o di strane situazioni carpite fugacemente dal mondo dei piu’ grandi, pur senza averle affatto comprese per intero.
Senza troppo capire nè domandarsi, dallo sgomento e dalle  inesatte e facili congetture, si arriverà in un lampo alle  tremende accuse di abuso sessuale che metteranno in discussione a tutto campo il  presente ed il  futuro di Lucas, facendo traballare paurosamente ogni sua sicurezza e mettendo a repentaglio, assieme alla sua dignità,  anche semplicemente il diritto a proseguire la sua vita sugli ordinari binari percorsi fino a ieri (verrà addirittura picchiato e cacciato, quale cliente non gradito, dal supermercato dove abitualmente faceva la spesa).
I bambini non mentono: questo l’assunto principale dal quale discendono tutte le disgrazie a venire. Certo non raccontano menzogne nello stesso modo al quale sono avvezzi gli adulti: sono angeli innocenti,  ma dell’innocenza sanno quel poco o niente che la loro troppo giovane età gli consente di conoscere.
Sono i grandi invece che “sanno bene” come concatenare in fretta domande e risposte, arrivando velocemente  alla risultante di assurdi teoremi precostituiti: in un attimo  coagulano assieme le maldicenze e subito dopo ecco una strisciante e delirante psicosi collettiva che caccia all’angolo il “colpevole prescelto”.
Le falsità e le ipotesi irragionevoli sono come un gas informe che aggredisce la realtà fino ad asfissiarla e  di  li a poco cristallizzeranno una nuova e difficilmente contestabile verità – non più di una costruzione virtuale che si regge su claudicanti teoremi -  resa ancora più terribile da sguardi acuminati e crudeli che puntano dritto addosso sul nemico, occhi che sono gli stessi che sorvegliano i confini dell’incubo che hanno contribuito a creare e che rendono vano ogni tentativo di fuga da una accusa di pedofilia che pesa quanto un macigno.
“Il sospetto” di Thomas Vinterberg e una pellicola cucita addosso al suo protagonista come fosse un vestito che ad ogni minuto che passa  stringe piu’ forte in vita, fino quasi a volerne provocare l’arresto respiratorio.
Della piccola comunità di “piccoli uomini, delle ipocrisie e delle fragili amicizie che diventano presto polvere nel momento della verità, coglie molte sfumature e dettagli rilevanti il film  del regista Danese ex “Dogme 95”, il manifesto “estetico-cinematografico” che anni addietro catturò l’interesse di molti cineasti ed addetti ai lavori: la Zentropa del suo ispiratore/fondatore  Lars Von Trier oggi è ancora protagonista ma solo alla voce produzione.
Mentre il Natale si avvicina e la neve che copre i campanili delle chiese rivela il suo finto candore, una puerile ed involontariamente crudele fantasia ,  lavorata di bocca in bocca da uomini troppo egoisti (o cattivi...) - esageratamente concentrati sulle loro ragioni o le loro paure per poter maneggiare con destrezza le verità adulterate dei bambini - sarà la scintilla che metterà ad ardere tizzoni d’ inferno: divampa il fuoco che brucerà inesorabilmente un dannato soltanto! 
Vinterberg descrive questo breve ma lunghissimo pezzo di strada che volge agli inferi, simile ad un limbo maledetto dove tutto può essere anche se non è mai stato - e dove alla fine ci si può ritrovare ad esser niente altro che nessuno - e lo fa cogliendo l’evolversi dei fatti direttamente dal fronte   del “sospettato”, un uomo che scivola in  rapida progressione verso il  totale abbandono da parte degli altri, per interminabili giorni, trovando qualche conforto  solo grazie alla carne della sua carne (il figlio Marcus).
La sparuta società civile del paese nello spazio di un istante apre “la caccia” all’uomo (“Jagten” ovvero “The Hunt” sono rispettivamente il titolo originale e quello per il mercato internazionale); Lucas è braccato come un cervo che fugge, senza speranza alcuna,  mentre i colpi di fucile  echeggiano nel bosco.
Per un tempo difficile anche solo a  trascorrersi e senza una fine certa di questa condizione di “preda o capro espiatorio”, l’unico rifugio possibile potrebbe essere allora, in astratto, un seminterrato che non esiste, lo stesso luogo immaginario che, ennesimo parto di una fervida quanto davvero poco colpevole fantasticheria, ha fatto si che il presunto responsabile finisse inchiodato alla gogna prima ancora che sul banco degli imputati.
Un locale angusto e senza aria sufficiente a “respirare la vita” alla quale però   prima o poi ci si dovrà azzardare a tornare, abbandonando ogni inefficace rifugio e tentando di riallacciare i fili con quanto lasciato in sospeso in precedenza, o almeno tentando di dare un nuovo inizio all’esistenza.
Cosa troveremo allora ad aspettarci la fuori?
Il finale di partita, nella sceneggiatura scritta da Vinterberg assieme a Tobias Lindholm, rimane aperto… e nessuno potrà dirci davvero quando  verrà abbassato in  terra il mirino dell’ultimo fucile che ci è stato puntato contro.

lunedì 12 novembre 2012

LA NAVE DOLCE di Daniele Vicari


In Albania, al porto di Durazzo, la grande nave da trasporto “Vlora” è appena tornata dal suo peregrinare per il pianeta: Cuba, Olanda, Francia.
Ora è carica di 10.000 tonnellate di zucchero e pronta a ripartire ma una folla la prende d’assalto, va al suo arrembaggio salendo dalle cime di ormeggio, la raggiunge dalle barchette che le galleggiano intorno; le  forze militari che dovrebbero difenderla da questa orda che le si avventa addosso buttano i fucili, montano a bordo anch’essi e si uniscono alla  moltitudine umana che affronterà un incredibile viaggio!
Destinazione Italia: da adesso la sete, il sonno e la paura sono esigenze vitali “rimandate” a quando sarà nuovamente il  tempo.
La costa brilla di luci davanti “all’umano carico” e dal porto di Brindisi viene ordinato l’impossibile: tornare indietro fino a Durazzo. Lambendo la terra da vicino senza poterla toccare ma potendola ancora solo sognare si arriva  a Bari, dove avverrà uno sbarco destinato a segnare una pagina indelebile nella grande cronaca del nostro Paese e del nostro tempo e ad imprimere il suo segno anche sulla storia dell’Europa e forse del mondo. E' l'otto di agosto del 1991.
“La nave dolce” è il ritorno – felice e riuscito - di Daniele Vicari al documentario, tipologia di cinema che molto gli si confà; nel 2007 vinse il David di Donatello con “Il mio paese” ed anche stavolta il suo lavoro sembra premiare gli sforzi profusi.
Le immagini della “Vlora” in alto mare, con la gente ammassata letteralmente a grappoli e le sovrastrutture della nave ricoperte da una massa di esseri umani sono evocative come poche altre e valgono da sole la visione della pellicola.
Vicari usa con grande misura il vasto materiale a sua disposizione, dai filmati in bianco e nero provenienti dall’Albania fino a tutto il repertorio visto e non visto, lo accompagna alle testimonianze di alcuni di coloro che fecero il “grande ed incredibile viaggio” ed ora hanno scolorato il loro esser stranieri in una lingua Italiana che, quasi alla perfezione, ne maschera le origini.
Non lesina uno schiaffo alla politica e rimette davanti ai nostri occhi l’aspro confronto e l’inattesa distanza tra le istituzioni centrali e locali (l’allora presidente della Repubblica Cossiga apostrofò con parole durissime  il Sindaco di Bari Delfino); ripropone da vari punti di vista le enormi difficoltà tecniche e pure l’impreparazione di fronte ad uno sbarco dai numeri impressionanti, che nessuno ha mai contato o potuto davvero verificare anche se si parla ci circa ventimila persone!
Dal porto della speranza alla trappola dello stadio “Delle Vittorie”, la salvezza e la libertà affogano nell’incubo: quel che non ha potuto il mare lo materializza infine la legge degli uomini.
La solidarietà tra gli stessi Albanesi diviene prima tensione e poi conflitto: violenza, bande armate e prepotenti che emergono dalla moltitudine e lo stadio diviene una arena incredibile; a momenti ci si trova davanti ad un surreale autoscontro contornato da uomini disperati e con pochi stracci addosso.
Presto rimarranno solo carte e rifiuti sul prato verde, immagine triste di un sconfitta umana, di una desolante ricerca del paradiso perduto: tutti gli emigranti in cerca di una nuova “America” verranno rimpatriati; solo pochi di loro – forse millecinquecento – riusciranno a rimanere, inizialmente in condizione di clandestinità e comunque grazie solo alla benevolenza dei tutori dell’ordine, moralmente ed emotivamente coinvolti dopo aver vissuto con loro a stretto contatto una prova stressante, lunga sei giorni.
Da allora, negli anni successivi, in Italia la popolazione degli stranieri è salita da duecentotrentamila a quattro milioni e mezzo di persone, mentre si calcola che un altro milione sia stato respinto: dei morti in mare il numero non è nemmeno quantificabile e nelle alte sfere più di qualcuno, per diversi motivi, ha forse  ragione di fregarsene le mani.
Il biblico approdo della speranza era un monito che nessuna scrittura aveva preannunciato? Era forse un sacro (o laico) richiamo alla solidarietà oppure l’ultimo (o il penultimo)  appello all’umanità di noi tutti? In ogni caso è stato disatteso, allora come oggi, ma non sarà così per sempre e soprattutto non saremo noi a decidere come e quando cambierà, forse anche repentinamente, il corso degli avvenimenti, bensì lo farà la storia, che non farà distinzione alcuna nell’assegnare i ruoli di buoni o di reietti ai nuovi protagonisti.

lunedì 5 novembre 2012

LE BELVE di Oliver Stone


A Laguna Beach in California, si coltiva - e si smercia - una marijuana impareggiabile e paradisiaca che vale tremila dollari al kilo.
Gli artefici di questo miracolo sono Chon (Taylor Kitsch) e Ben (Aaron Johnson): il primo è un reduce delle nuove guerre americane che durante la sua avventura in Afganistan ha scoperto dove si trovano i semi migliori del mondo (trentatré per cento di “Thc”, ovvero di principio attivo) mentre il secondo è un biologo che invece delle attività criminali sembra avere più a cuore  i destini del meno fortunato continente Africano.
Sono uno “terra” e l’altro “spirito” ma tutti e due dividono assieme i medesimi traffici e la stessa villa e così pure l’identica donna, la bella  “O/Ophelia” (Blake Lively);  meditano presto di abbandonare il campo per godersi la vita.
Ma non è il paradiso questo bensì il mondo visto dalla parte del diavolo che, come ben si sa, non appaia pentole e coperchi; così ecco arrivare le irrinunciabili “lusinghe” ed offerte dei narcos Messicani, comandanti dalla “madrina (Salma Hayek), i quali in caso di difficoltà non mancheranno di avvalersi dei servigi del loro uomo di fiducia, il sordido  Lado (Benicio Del Toro), un uomo dai metodi decisi e sbrigativi, buono per ricomporre  ogni tipo di “divergenza”!
Seguirà uno scontro all’ultimo sangue (o quasi) tra fiere fameliche pronte a tutto, filmato da un Oliver Stone professionalmente al meglio della sua forma, sarebbe a dire grande  dispensatore di  adrenalina estetica e cinematografica: lo Statunitense autore dei premiati  “Platoon” e “Wall Street” sfoggia  nel frangente scampoli di ottima regia ma  soprattutto si dimostra  sufficientemente saldo nel governare le sue pulsioni artistiche, come sempre estreme e ribollenti – soprattutto quando, non come in questo caso,  si intersecano con il “pathos” della politica -  fino a trovare l’ideale  “riposo” in un equilibrio dove efferatezze, sangue e violenza si amalgamano docilmente con l’ironia ed il ridicolo scherno, elargite in dosi perfette e con lodevole tempismo.
Il gioco riesce soprattutto grazie  ad un tris di attori al top sopra ai quali svetta senza rivali Benicio Del Toro, impareggiabile nella parte del  “laido-Lado”, un memorabile scagnozzo che esegue senza troppo fiatare ogni volontà della sua “Regina”, anche questa  caratterizzata al meglio da una Salma Hayek che sa conferirgli spessore e simpatia al tempo stesso, specie in occasione della sua visita  a “Gringolandia”; chiude un grasso e pelato John Travolta, il poliziotto Dennis, scaltro e furbo più di tutti, in poche mosse dilagante a  tutto schermo. 
“Le belve” – tratto dal romanzo “Savages” di Don Wislow, a detta di molti il miglior scrittore in attività del mondo dopo il ritiro di Philip Roth - è’ un cocktail shakerato con grande movimento di polso e giocato sul  filo di  “assurde plausibilità” che mettono insieme nello stesso improbabile ambiente – certo in forma spettacolare e romanzata “ad hoc” -  briciole di umanità e buoni sentimenti assieme a gesta sanguinarie e di famelica crudeltà (dal retrogusto “pulp”)  e con queste credenziali chiede il visto allo spettatore che, alla resa dei conti, annuendo ottiene l’accesso  ad un gradevolissimo gala cinematografico,  filmato con  mano frizzante,  del quale però tutto si deve prendere e nulla lasciare, evitando di lesinare applausi o perdendosi in minuzie ed appunti inopportuni per questo “tipo di gioco e di contesto”.
Chi è un purista e nutre sempre e comunque il bisogno di starsene senza sconti abbarbicato  alla realtà, il cui  il bagaglio di dolori e sofferenze  mai potrà realmente sciogliersi solo in deliziose scintille, giri alla larga da questo film!
Doppio “dulcis in fondo”, ovvero finale con due opzioni possibili:   si tratterà di propensione all’epilogo bulimico oppure semplicemente di un istintivo trasporto a consegnarsi ad un finale aperto senza l’obbligo di doverne “sentenziare” uno?  Meglio le pallottole che fischiano fra tradimenti e duelli all’ultimo sangue oppure lasciare il campo alle debolezze  di una mamma e di due giovani amanti in apprensione che riscoprono il  loro cuore battere all’impazzata, mentre  empietà criminali e malvagità  d’ogni genere gli scivolano a lato?
Stone non è tipo da porsi troppe domande di questo genere e nel momento in cui ha qualcosa da dire – e da dare - non si ferma di fronte a confini di alcun genere  né si lascia intimorire da superate convenzioni: da lui possiamo aspettarci generosità e nelle più riuscite occasioni la saturazione sfavillante di ogni angolo dello schermo,  non certo morigerati racconti per educande; meno che mai si allontanerà dai sicuri cortili del suo mestiere per sollevarsi fino a guardare allo stile eterno dei giganti della settima arte.