Attraversando
la “terra di mezzo” abitata da un libro incompiuto e la
capacità profonda di percepire il mondo e le persone che talvolta
segna l'esistenza di un uomo, Gianni Amelio coglie l'ispirazione
cinematografica per un racconto ondeggiante tra echi di fratellanza
e vita dolente e riflessiva.
Direttamente
dalle pagine di Albert Camus ci ritroviamo in una Algeria a cavallo
tra gli anni '20 e gli anni '50, spossata dalle guerre, dal
colonialismo e dagli attentati terroristici figli dei tumulti
indipendentisti; a tutto questo ostico e complicato retroterra non
viene concesso di avanzare troppo dallo sfondo, non di certo per
sminuirne l'indubbia importanza ma volendolo relegare manifestamente
in una posizione ancillare rispetto alle figure umane, le uniche
che possano far emergere la vera anima del racconto ed alle quali il
regista riserva una posizione di spicco.
Il
romanzo autobiografico di vita e formazione di un giovane bambino
Franco-Algerino che da adulto diverrà uno scrittore famoso, vincendo
addirittura il nobel per la letteratura - Jacques Cormery
interpretato da un convincente Jaques Gamblin ed alter ego dello
stesso Camus - condivide diverse similitudini con i primi anni di
vita di un altro fanciullo calabrese che molto tempo dopo farà
cinema d’autore (lo stesso Amelio) ed il cinema, accondiscendente,
si dispone ad assecondare senza darlo troppo a vedere le molte
convergenze nascoste di queste due infanzie che a tratti potrebbero
parlare con la stessa voce; altrettanto nel Nord-Africa di ieri ci
pare di poter scorgere tracce di un assolato Sud-Italia non troppo
remoto e parecchio familiare.
“Uno
scrittore deve aiutare coloro che subiscono la storia”
ed un regista che abbia un'alta concezione del suo ruolo prontamente
si allinea cercando di seguirne le orme.
Amelio
con molta evidenza vuole concentrarsi nel far risaltare il filo
degli intrecci umani e delle sensazioni e poco si cura delle
eventuali imperfezioni relative ai riferimenti storici o politici:
scopo prioritario è “unire e non certo dividere” e di questo
diviene una logica conseguenza lo sforzo indiscutibilmente operato
nel far affiorare le similitudini tra gli arabi “stupidi e rozzi”,
uomini e donne che una Francia senza la loro presenza non potrebbero
sentire come casa loro, mettendoli a confronto con gli eredi di quei
coloni che nell’ 800 inseguivano il sogno della terra promessa ed
ora in quegli stessi luoghi fanno i fattori, desiderando non di
“conoscere una patria sconosciuta e lontana” ma soltanto di
morire nelle native terre d'Algeria.
Però
muovendosi tra la povertà, l'analfabetismo e le molte domande che
inevitabilmente pongono gli avvenimenti politici ed una storia
quanto mai complessa - con tutte le notevoli implicazioni di odi
razziali e divari culturali – Amelio scopre il fianco fin troppo
presto ad un suo intento marcatamente didattico, oltretutto reso
ancora più evidente da dialoghi forse non “levigati e ripuliti”
abbastanza da render questo proposito adeguatamente celato.
Senza
le opportune cautele, in una situazione magmatica così imponente,
finisce per palesarsi presto la percezione di una difficoltà a
fondere assieme i significati, l'afflato poetico, la sceneggiatura e
la recitazione in un tutt'uno indistinguibile e di questo si
avverte il peso in non pochi segmenti della pellicola, cosa piuttosto
insolita per un cineasta spesso maestro nel restituire tutti gli
elementi in un corpo unico con straordinaria naturalezza.
Amelio
pare non indeciso, piuttosto sospeso e non capace fino in fondo di
combinare due linee di racconto: poco avvezzo a smussare gli
angoli di un versante storico forse a lui più distante - oltre che
molto spigoloso - ed in difficoltà nell'amalgamarlo con la traccia
narrativa portante che segue la formazione e la ricerca umana del
protagonista (ed anche sua?...), molto più facile da rendere
talvolta anche solo mostrando piccole cose come la complicità
nell'atto di fumare assieme una sigaretta o le incandescenze sofferte
sul volto di chi prostrato chiede (e riceve) aiuto in nome di una
amicizia che “non c’è mai stata”.
“Il
primo uomo” è apertamente schierato “dalla parte dei barbari”
ma forse non convinto abbastanza di “dover urlare a piena voce”
una sua idea precisa e definita in tema di guerre, di storie e di
popoli; forse non vuole farlo intenzionalmente o quantomeno funziona
assai meglio quando spazia ad esempio tra le indulgenze o le asprezze
di persone che la vita l'hanno subita reagendovi come meglio
potevano e così, invece di mettere a fuoco e tratteggiare con
risolutezza tutto il contesto sembra
accontentarsi di raccontare “solo” (...) di un uomo (Camus) in
mezzo a molti altri, stretto tra gli eventi ed il solco profondo ed
amplissimo del suo dolore e dei suoi pensieri.
Non
è affatto poco, anzi, ma si ha come la sensazione che il film
avrebbe potuto dare di più e che rinunci a qualcosa ampiamente alla
sua portata, arrendendosi di fronte ad ostacoli superabili con
piccoli ulteriori accorgimenti e qualche imbeccata migliore.
Il
risultato però, nonostante tutto rimane di buon livello,
probabilmente perchè è difficile sfuggire al suo clima di forte ed
invidiabile sincerità ed in quanto si avverte chiarissimo un
impegno intellettuale davvero raro nel cinema, ed è un binomio
questo in grado di donarci intense sensazioni assieme a suggestioni
emotive non comuni.
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