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lunedì 30 aprile 2012

IL PRIMO UOMO di Gianni Amelio



Attraversando la “terra di mezzo” abitata da un libro incompiuto e la capacità profonda di percepire il mondo e le persone che talvolta segna l'esistenza di un uomo, Gianni Amelio coglie l'ispirazione cinematografica per un racconto ondeggiante tra echi di fratellanza e vita dolente e riflessiva.

Direttamente dalle pagine di Albert Camus ci ritroviamo in una Algeria a cavallo tra gli anni '20 e gli anni '50, spossata dalle guerre, dal colonialismo e dagli attentati terroristici figli dei tumulti indipendentisti; a tutto questo ostico e complicato retroterra non viene concesso di avanzare troppo dallo sfondo, non di certo per sminuirne l'indubbia importanza ma volendolo relegare manifestamente in una posizione ancillare rispetto alle figure umane, le uniche che possano far emergere la vera anima del racconto ed alle quali il regista riserva una posizione di spicco.

Il romanzo autobiografico di vita e formazione di un giovane bambino Franco-Algerino che da adulto diverrà uno scrittore famoso, vincendo addirittura il nobel per la letteratura - Jacques Cormery interpretato da un convincente Jaques Gamblin ed alter ego dello stesso Camus - condivide diverse similitudini con i primi anni di vita di un altro fanciullo calabrese che molto tempo dopo farà cinema d’autore (lo stesso Amelio) ed il cinema, accondiscendente, si dispone ad assecondare senza darlo troppo a vedere le molte convergenze nascoste di queste due infanzie che a tratti potrebbero parlare con la stessa voce; altrettanto nel Nord-Africa di ieri ci pare di poter scorgere tracce di un assolato Sud-Italia non troppo remoto e parecchio familiare.

Uno scrittore deve aiutare coloro che subiscono la storia” ed un regista che abbia un'alta concezione del suo ruolo prontamente si allinea cercando di seguirne le orme.

Amelio con molta evidenza vuole concentrarsi nel far risaltare il filo degli intrecci umani e delle sensazioni e poco si cura delle eventuali imperfezioni relative ai riferimenti storici o politici: scopo prioritario è “unire e non certo dividere” e di questo diviene una logica conseguenza lo sforzo indiscutibilmente operato nel far affiorare le similitudini tra gli arabi “stupidi e rozzi”, uomini e donne che una Francia senza la loro presenza non potrebbero sentire come casa loro, mettendoli a confronto con gli eredi di quei coloni che nell’ 800 inseguivano il sogno della terra promessa ed ora in quegli stessi luoghi fanno i fattori, desiderando non di “conoscere una patria sconosciuta e lontana” ma soltanto di morire nelle native terre d'Algeria.

Però muovendosi tra la povertà, l'analfabetismo e le molte domande che inevitabilmente pongono gli avvenimenti politici ed una storia quanto mai complessa - con tutte le notevoli implicazioni di odi razziali e divari culturali – Amelio scopre il fianco fin troppo presto ad un suo intento marcatamente didattico, oltretutto reso ancora più evidente da dialoghi forse non “levigati e ripuliti” abbastanza da render questo proposito adeguatamente celato.

Senza le opportune cautele, in una situazione magmatica così imponente, finisce per palesarsi presto la percezione di una difficoltà a fondere assieme i significati, l'afflato poetico, la sceneggiatura e la recitazione in un tutt'uno indistinguibile e di questo si avverte il peso in non pochi segmenti della pellicola, cosa piuttosto insolita per un cineasta spesso maestro nel restituire tutti gli elementi in un corpo unico con straordinaria naturalezza.

Amelio pare non indeciso, piuttosto sospeso e non capace fino in fondo di combinare due linee di racconto: poco avvezzo a smussare gli angoli di un versante storico forse a lui più distante - oltre che molto spigoloso - ed in difficoltà nell'amalgamarlo con la traccia narrativa portante che segue la formazione e la ricerca umana del protagonista (ed anche sua?...), molto più facile da rendere talvolta anche solo mostrando piccole cose come la complicità nell'atto di fumare assieme una sigaretta o le incandescenze sofferte sul volto di chi prostrato chiede (e riceve) aiuto in nome di una amicizia che “non c’è mai stata”.

Il primo uomo” è apertamente schierato “dalla parte dei barbari” ma forse non convinto abbastanza di “dover urlare a piena voce” una sua idea precisa e definita in tema di guerre, di storie e di popoli; forse non vuole farlo intenzionalmente o quantomeno funziona assai meglio quando spazia ad esempio tra le indulgenze o le asprezze di persone che la vita l'hanno subita reagendovi come meglio potevano e così, invece di mettere a fuoco e tratteggiare con risolutezza tutto il contesto sembra accontentarsi di raccontare “solo” (...) di un uomo (Camus) in mezzo a molti altri, stretto tra gli eventi ed il solco profondo ed amplissimo del suo dolore e dei suoi pensieri.

Non è affatto poco, anzi, ma si ha come la sensazione che il film avrebbe potuto dare di più e che rinunci a qualcosa ampiamente alla sua portata, arrendendosi di fronte ad ostacoli superabili con piccoli ulteriori accorgimenti e qualche imbeccata migliore.

Il risultato però, nonostante tutto rimane di buon livello, probabilmente perchè è difficile sfuggire al suo clima di forte ed invidiabile sincerità ed in quanto si avverte chiarissimo un impegno intellettuale davvero raro nel cinema, ed è un binomio questo in grado di donarci intense sensazioni assieme a suggestioni emotive non comuni.

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