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giovedì 5 aprile 2012

I COLORI DELLA PASSIONE di Lech Majewski


Lech Majewski trasferisce  “La salita al calvario” di Bruegel “the elder” (Bruegel “il vecchio”) dalla tela di un quadro a quella sovradimensionata - ed in movimento - dello schermo di un cinema.

Scompone un'opera densa di significati ed avvenimenti in una sequenza di tante e molteplici soggettive, singoli primi piani estrapolati direttamente dal 1500 rappresentato nel dipinto del quale trattiene immutato il grande fondale  così da sciogliero  in  un connubio con le nuove fatiche artistiche degli attori ai suoi ordini e facendo librare gli uccelli in volo oppure animando con il vento le fronde degli alberi disegnati grazie al prodigioso ausilio del progresso digitale.

Majewski sale con la sua telecamera  verso l'alto del cielo, la dove è “il grande mugnaio che macina il pane della vita e del destino” che, con muta insoddisfazione e volutamente inerme, osserva il mondo sotto la rocca dove poggia il suo mulino: Dio osserva lo sbando crudele del suo creato in una allegoria d'eccezione chiusa ai lati dall'albero della vita e da quello della morte.

Quando la telecamera abbraccia il dipinto con ampiezza di campo spesso notiamo alcuni soggetti compiere movimenti ripetitivi e circolari, come fossero in attesa di divenire statici ed impressionarsi poi nuovamente sulla tela; intanto dalla luce sinistra che si apre nella nebbia avanzano cavalieri in divisa rossa: sono i mercenari al soldo degli Spagnoli che hanno reso i fiamminghi “mendicanti nelle proprie terre” e vengono ad arrecare dolore e morte agli eretici ed al popolo tutto.

L'ambizione sarebbe quella di portare a nuova vita cinematografica l'opera di Bruegel, spiegandone i suoi significati simbolici e storici e così nel mentre ripercorrere i perchè della sua genesi, corroborando le violenze della storia con la contemplazione e la meditazione.

Recentemente si era cimentato in qualche cosa di simile anche Peter Greenaway con il suo bellissimo ”NightWatching” , presentato dal regista inglese in concorso alla 64^ mostra di Venezia e mai uscito in Italia, dove però l'attenzione si focalizzava molto di piu' sulla figura di Rembrandt che non sulla sua “Ronda di notte” mentre Rohmer con il suo “La nobildonna e il duca”, sempre in tempi non lontani, aveva utilizzato come sfondi alcuni paesaggi ad olio del diciottesimo secolo.

La resa d'insieme del lavoro regala suggestioni visive d'eccezione e cosparge il grande spazio dello schermo di  insoliti ed affascinanti connotati pittorici.    Lenti movimenti di camera, grande attenzione alla composizione ed una puntigliosa precisione nella resa dei particolari portano a fondersi sullo stesso piano il passato ed il presente.

Le inquadrature geometriche racchiudono nei loro confini dei “tableaux vivants” che aprono un varco cinematografico nell'arte e nella storia, lo stile ricercato quasi con il compasso sposa con naturalezza le fissità del dipinto che da lontano sempre sorveglia, “affacciandosi” non di rado dalle finestre e dalle volte. 

Poche le parole, quasi accessorie ed usate con parsimonia,  date in uso ora al banchiere collezionista ed appassionato d'arte Nicholas Jonghelinck (Michael York), ora a pochissimi altri protagonisti (Maria/Charlotte Rampling), per  fornire il “trait d'union”  con i misteriosi significati nascosti di un mondo lontano e del quale lo spettatore comune presumibilmente ignora gran parte dei riferimenti.

Una anacronistica  “crocifissione delle fiandre” dall’ estetica inappuntabile si materializza per il cinema e mantiene intatta  tutta la potenza dell'arte in grado di fermare “l'attimo insensato” e l'atroce indifferenza della gente. 

“I colori della passione” è un brulicare di vita e di storia che viene da un tempo lontano;  unico appunto le  spiegazioni e le “lezioni d'arte” a margine spesso imboccateci da Bruegel in persona (Rutger Hauer) che, per quanto irrinunciabili ai fini della comprensione, sono forse l'unico corpo estraneo e probabilmente un elemento di appesantimento. Se, non troppo paradossalmente, questo film avesse del tutto rinunciato all'uso della parola, avvalendosi  per esempio di stratagemmi come dei pannelli di scrittura o una voce totalmente fuori campo per accompagnarci nei meandri della storia, il risultato sarebbe probabilmente stato quello di un'opera leggermente meno accessibile e forse ancora più ostile al ritorno economico ma Lech Majewski avrebbe ottenuto il suo capolavoro.

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