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giovedì 21 febbraio 2013

VIVA LA LIBERTA' di Roberto Andò


Enrico Oliveri (Toni Servillo) è il segretario sfiduciato di un partito in crisi profonda. Una notte decide di allontanarsi dalla sua triste quotidianità fatta di sondaggi deludenti, incertezze e scelte difficili e si rifugia oltralpe da un suo vecchio amore di gioventù (Danielle/Valeria Bruni Tedeschi).
A Roma il “tuttofare” Andrea Bottini (Valerio Mastandrea) cerca di tappare le falle che si aprono copiose e di depistare la stampa incuriosita dall’improvvisa assenza di Oliveri e  affamata di notizie sul futuro del partito.
Sorpresa: il politico latitante ha un fratello gemello (ovviamente interpretato sempre da Servillo) che firma i suoi libri con lo pseudonimo di  Giovanni Ernani, un tipo eccentrico e un po’ filosofo, afflitto per giunta da delirio interpretativo della realtà ed al quale verrà affidato il compito di rimpiazzare il segretario in fuga:  dunque il partito in mano ad un “pazzo” marcerà verso la catastrofe o la rinascita?
Tratto dal libro “Il trono vacante” - scritto dallo stesso regista Roberto Ando’ - “Viva la libertà” è una pellicola godibile, che si diverte a giocare mettendo in campo temi corposi come il declino della politica e la perdita di passione civile nel praticarla, guardando soprattutto alle vicissitudini della Sinistra Italiana,  ben identificabile  quando si parla del “principale partito di opposizione” o quando durante una riunione internazionale notiamo campeggiare ad un lato del tavolo il cartellone “European Left”.
Ci vuole dunque un folle per ragionare finalmente sul serio,  con profondità d'animo e  rilanciare la linea politica di un partito inabissatosi in una lunghissima crisi di coraggio e di identità? Di questo c'è bisogno per sconfiggere quella paura che il protagonista stesso definisce,  rilasciando una “rischiosa” intervista,  “la musica della democrazia”?
Insomma, una sana follia sembrerebbe molto piu’ salutare di un grigio ragionare (e calcolare) e forse in grado di rivitalizzare una realtà declinante.
Servillo presta il suo volto al gioco interpretando tanto il ruolo del politico depresso - che in vita sua mai è riuscito ad esser se stesso - quanto quello del destabilizzante fratello che ne prende il posto ed a colpi di citazioni colte rianima i sondaggi ed i cuori degli elettori.
Ma intorno a lui, forse facendo eccezione per Mastandrea e la Bruni Tedeschi, tutti hanno i “minuti contati” e, nonostante l’attore napoletano sia davvero impeccabile nel suo sdoppiarsi per la causa, la sua prova convince solamente – anche se non è certo poco – senza arrivare ad esaltare un film che da qualche iniezione di “adrenalina d’autore” trarrebbe senz’altro giovamento.
Molte le  frasi “confezionate” – per quanto giuste – per dire che non si può  calpestare la dignità di coloro che non possono difendersi (i cittadini/elettori) o che esplicitano di come la sconfitta nasca dalla paura di vincere.
Infine l'acme del recitato in pubblico della poesia di Bertold Brecht - “A chi esita”  - durante un gremito comizio; accanto a questo trovano posto momenti allegorici e divertenti, come ad esempio un tango a piedi nudi con la cancelliera tedesca.
Il film di Andò si impegna a seguire anche la doppia linea, tanto del gemello in fuga che cerca di recuperare la sua vita che di quello che dovrebbe liberare l’Italia dalla paura e dai rincoglioniti, dai ladri e dai banchieri, ma nonostante riesca a destare interesse con la sua originale costruzione narrativa e colga pure nel segno puntando il dito nella piaga – oramai purulenta -  della moderna politica,  “Viva la libertà” non sembra disporre di armi sufficienti che siano in grado di affrancarlo dalla sua fragilità ed avvicinarlo ad un confronto sufficientemente efficace con le tematiche alle quali si accosta.
Certo rimane una considerazione condivisibile quella suggerita nei dialoghi, ovvero  che in politica “presto si dovrà tornare a praticare  l’unica alleanza possibile e  sarebbe a dire quella con la coscienza della gente”, ed è meritevole che il cinema si incarichi di sottolinearlo e se ne preoccupi con cuore.
Nonostante questo, al termine della visione, quel che davvero lascia in profondità il suo segno è solo un fugace inserto di  Federico Fellini che inveisce ed impreca affinchè l’indecenza non diventi un’abitudine e  che pare essere, anziché un filmato di repertorio ripescato tra quelli di decine di anni addietro,  una scoraggiante dichiarazione rilasciata giusto ieri.

lunedì 18 febbraio 2013

VOL SPECIAL di Fernand Melgar



Dopo la meritata attenzione ricevuta al 64° Festival di Locarno e grazie alla distribuzione di “ZaLab”, arriva in Italia, per qualche breve apparizione sparsa nelle sale della penisola,   il “film-documentario” del regista Svizzero Fernand Melgar: “Vol Special”
La pellicola è interamente girata all'interno del “Centro di Detenzione Amministrativa” di Frambois, in Svizzera.
Grazie al film di Melgar possiamo provare a comprendere cosa siano questi luoghi, dove esseri umani etichettati come “illegali” (intendendoli come privi di documenti regolari) possono rimanere rinchiusi  fino a  due anni solo in attesa che sia emesso un primo giudizio!
Spesso, trascorso questo tempo, la maggior parte dei detenuti – che le autorità preferiscono chiamare “residenti” - vede prolungarsi in modo indefinito  la  permanenza, nella maggior parte dei casi andando comunque incontro ad un  successivo decreto di espulsione.
Qualora questi non vogliano volontariamente rispettare l’ordine di rimpatrio verso il  loro paese d'origine viene attuata l'aberrante procedura del “volo speciale”, ovvero gli espulsi vengono scortati in manette fino all'aeroporto dove un velivolo li condurrà fuori dai confini, lontano da un suolo dove per loro  è divenuto illecito permanere e risiedere; eventuali reazioni violente o recalcitranti ribellioni sono preventivamente neutralizzate con disumani  mezzi di contenimento quali cinghie e legacci.
I “Centri di Detenzione Amministrativa” Svizzeri sono grosso modo l'equivalente in “bella copia” dei nostri “Centri di Identificazione ed Espulsione (C.I.E.)”, dei “non luoghi” dove regole e procedure scandiscono il passare dei giorni e lo sconforto e la disperazione si possono attenuare  facendosi compagnia l'un con l'altro,  ingannando il trascorrere del tempo con una partita a carte oppure a biliardino.
In questa sorta di  “limbo infernale” - che stampa ed opinione pubblica di tutta Europa si preoccupano assai poco di considerare e che a tutti gli effetti è assimilabile ad una prigione -  vivono privati della loro libertà non pericolosi criminali ma uomini che hanno una famiglia e magari una casa, tra cui molti che per alcuni periodi hanno svolto regolarmente una professione pagando le  dovute tasse ma poi, persi o non recuperati i requisiti previsti dalla legge, si sono ritrovati “clandestini”, forse persino a loro stessa insaputa.
Sono “viaggiatori colpevoli d'aver viaggiato” ed ai  quali gli “Stati-Nazione”, impietosi e prepotenti, decidono   di vietare alcuni fondamentali diritti  in relazione alle  condizioni di volta in volta maturate nei confronti della legge e delle sue successive variazioni.
Melgar porta il suo occhio tra questa gente rinchiusa,  “temporaneamente costretta  a subire una interruzione della propria esistenza”. Passa un anno a realizzare il suo lavoro, trovando anche il modo di entrare in confidenza con molti dei protagonisti del suo documentario,  dei quali ci fa condividere sorrisi ed amarezze, pensieri, emozioni e testimonianze..
La sua pellicola si insinua sotto la nostra pelle come un dolore sottile ma costante, semplicemente mostrando le procedure assurde ed i regolamenti asettici e  proprio grazie a tanto ordine unito alla disarmante quiete della struttura di Frambois ogni cosa trova, paradossalmente e per contrasto, il modo di  risaltare ancor di più  in una prospettiva negativa.
Osservare come  questo “lavoro” - che svolgere dovrebbe essere  semplicemente insostenibile per la sensibilità media di un essere umano -  venga in ogni sua fase  “addomesticato”, riducendosi a poco meno di una difficoltosa procedura da svolgere, toglie presto il velo sulle piccole e grandi aberrazioni che si consumano  nella   “prigione gentile”, che finisce per mostrare  così  tutta  la sua crudeltà e la sua freddezza, rivelandosi suo malgrado anche attraverso  i volti ed i comportamenti di ognuna delle figure professionali che vi operano.
Non è  casuale che “l’ottica della situazione e dell’azione” vengano deformate  fino ad arrivare a concedere solo uno spazio infinitesimale all'emozione umana, costringendo il più possibile  l’espletamento delle operazioni in schemi che favoriscono l’inabissarsi di ogni turbamento e facilitano l’affiorare  tutt’al piu’ di un dispiacere di circostanza, magari misto alla rigenerante – e giustificante - consapevolezza di aver adempiuto al proprio dovere.
E’ in questo stato di cose che si evidenzia ancor di più  un corto circuito gravissimo e spesso decisamente sottovalutato, quello che  a cuor leggero  abbina la burocrazia e l’iter procedurale  agli esseri umani, senza preoccuparsi di distinguere la carne viva dall'inerte adempimento formale, abbassando le persone al livello di un fascicolo o di una pratica da sbrigare.
D’altro canto è questa una delle  tante forme di difesa e d’esercizio del potere scelta dal  “Grande Impero d' Europa”, quella di porre un argine  di convenzioni micidiali  che a colpi di leggi e documenti, abusi e colpi bassi respinga con efficienza il “nemico invasore”; l’ostilità verso l'immigrato è palesemente dichiarata nei fatti  ma non altrettanto c’è il coraggio di  ammetterla onestamente ed a viso aperto durante un pubblico dibattito che forse  finirebbe per turbare la coscienza di troppi tra la  vasta popolazione del continente. 
Così la battaglia procede, lunga e logorante, tra espulsioni,  respingimenti e mancati soccorsi in mare e tutto questo - assieme allo spauracchio dei “C.I.E.” o di strutture similari - diviene un monito terribile per chi volesse avventurarsi in direzione dei nostri confini. La ragion di stato e la legislazione dell’ Unione continuano intanto a mietere ogni anno centinaia  di vittime e la legge del piu' forte sembra destinata, per molto tempo ancora,  a prevalere ed a prevaricare. Nessuna traccia di vere politiche di inclusione ed integrazione sembra intravedersi all’orizzonte.
“Non sarà così per sempre, prima o poi il mondo cambierà” ammonisce il Sig.Kitima Pitchou, originario del Congo,  uno dei protagonisti della pellicola “Vol Special” , rinchiuso a Frambois da 12 anni ; nel mentre un suo compagno morirà soffocato durante un trasferimento coatto, forse per esser stato legato troppo stretto o per un uso improprio della forza da parte degli “accompagnatori”.
Allucinante dopo questo terribile episodio riconsiderare a posteriori le parole adoperate dalle istituzioni, incredibilmente vuote ed  ammantate di  falsa cordialità: “Le verrà garantita trasparenza, dignità e rispetto”.
Questa la promessa rinnovata ogni volta all’interessato quando viene avviato al “volo speciale” e di certo nessuno si azzarderà mai ad adoperare un vocabolo ingombrante come “deportazione” al posto del quale viene usato invece, provando a smorzare i toni della repulsa,  una espressione   dall'accento meno grave quale “rimpatrio forzato”.
A tal proposito meriterebbe ampio spazio una riflessione  sul significato odierno delle parole asservito all'uso e alla necessità, una “moderna deriva etimologica” volta – scientemente e non senza dolo - a travisare il senso della percezione del reale.
Anche per questo “Vol Special” è un documento fondamentale, con la sua quieta ma decisa caparbietà nell’illuminare senza clamore questioni scabrose ed ignorate dai media, che riesce a tener vivo l’interesse del suo racconto con toni pacati ma evidenziando con nettezza  le   difficoltà nel poter pretendere i propri  diritti da parte di  esseri umani resi “diversi” a colpi di carte bollate. 
Impietosamente  Melgar inquadra  le manette e persino le catene ai piedi di uomini che non hanno commesso alcun crimine eppure sono trattati come bestie, portati via nella notte senza nemmeno la possibilità di salutare coloro con i quali hanno diviso l'ultimo periodo della loro vita e così facendo muove verso un “salutare tormento” i nostri pensieri e le conseguenti inevitabili riflessioni.
Stiamo tutti coinvolti ed assieme stiamo scrivendo questa terribile ed infangante pagina di storia contemporanea, compreso chi tace e si volta dall'altra parte. Non è quindi solo della dignità di altre persone che stiamo parlando ma anche della nostra “distrazione” (…) o meglio della  noncuranza che rischia a breve di macchiare irrimediabilmente la nostra reputazione ed assieme la nostra coscienza, qualora un giorno dovessimo rilevare nel nostro comportamento superficiale di oggi, la colpa di una trascuratezza divenuta nel frattempo infamia.

TAHRIR di Stefano Savona


Gennaio  2011: due settimane nella piazza principale di El Cairo giusto nel momento in cui la “Rivoluzione dei Gelsomini” da Tunisi porta il suo contagio verso l'Egitto, fondendo diverse ribellioni dentro “una primavera Araba”.
Al seguito  soltanto una macchina fotografica ed un piccolo registratore digitale da passare di mano in mano, dormendo in terra la notte e dividendo il cielo come tetto  assieme a tutti gli altri: così Stefano Savona ha messo insieme le 35 ore di materiale girato dalle quali ha ricavato la pellicola che nel 2012 ha vinto il premio “David di Donatello” nella categoria documentari. 
Lui stesso racconta di esser partito immaginando un altro film ma poi “Tahrir si è fatto da solo, trasportato dagli eventi e da una strana forza d'inerzia”: non rimaneva che montarlo presto, prima che l'avvento di “nuova realtà” potesse interferire ed alterare il significato di quanto accaduto  e così, una settimana dopo il suo ritorno a casa, il regista stava già lavorando al montaggio.
In “Tahrir” i volti degli Egiziani di ogni età approfittano dell'effetto moltiplicatore offerto dall'obiettivo di Savona e da uno diventano centinaia di  migliaia. Si offrono  al nostro sguardo di oggi parecchio  tempo dopo i fatti avvenuti ma  mantenendo  un grado di vitalità ancora molto percepibile: davanti ai nostri occhi scorre la testimonianza della Patria che si fa piazza e della massa che scopre -  ancora una volta –  la forza  dirompente dell'agire compatti e criticamente convinti verso un obiettivo.
Persone comuni si imbattono in qualcosa  che diviene rapidamente più grande di loro, divengono tessuto vivo della storia del loro Paese quasi per caso, si scoprono eroi giorno dopo giorno, senza nemmeno rendersene conto.
Con un tubo di ferro  frantumano il marciapiede per ottenerne sassi con i quali combattere la loro personale “intifada”; con la serranda divelta di un negozio avanzano come una piccola formazione a testuggine, quasi fossero antichi legionari Romani.
In piazza ci sono cristiani, musulmani e laici, diverse classi sociali e non solo le più povere, gente di ogni sesso ed età.
Assieme a moschee e bazar, anche Twitter e soprattutto Facebook, dal gruppo dedicato a “Khaled Said”, l'uomo di 28 anni torturato ed ucciso da due poliziotti - anche se la gente adesso dice che “lo ha ammazzato la costituzione” e che le leggi sono abusate e manipolate – hanno esteso la chiamata a raccolta ed ora una moltitudine di gente presidia la piazza,  giorno e notte, intonando cori contro il regime di Hosni Mubarak, l'uomo che per trent'anni è stato al comando di questa nazione che considerava come  la sua immensa fattoria.
Gridano che è tempo di vivere liberi o di morire da innocenti!
Molti i primissimi piani di questi “soldati in guerra senza armi” che Savona incastona nella  pellicola, volti che adesso si espandono sullo schermo per renderci la rabbia e il ritrovato orgoglio, facendoci sentire come nostre l’ incertezza o la paura, quella che talvolta sale lungo la loro schiena provando a soffocargli l'entusiasmo ed il coraggio.
Ma la realtà  nel suo incedere soverchia tutto, dai dubbi alla ragione:  la piazza  oramai è un simbolo fiammeggiante e  non rimane altro da fare che resistere e lottare per tentare di  traghettare lontano il presente,  verso un “altrove” che da oggi non sembra  più soltanto una folle utopia.
Nessuna rivoluzione  ha mai una sua precisa data di inizio né si potrà vedere con chiarezza quando sarà compiuta: allo stesso modo nessuno potrà  dire con certezza se e quando sarà fallita. Forse oggi, a due anni di distanza, quella Egiziana mortificata da Mohamed Morsi pare interrotta, ma chi puo' dire davvero cosa sta accadendo ora, distante dai nostri occhi. Nessun domani  è prevedibile ma solo sconosciuto ed incerto!
Da una distanza ragguardevole, la percezione degli avvenimenti che abbiamo noi Europei  è del tutto inadeguata e comunque,  in quei giorni del gennaio 2011 a Il Cairo, lontani da piazza Tahrir, anche in Egitto pochi capirono cosa stava accadendo e da fuori sembrò di vedere come Marte dalla Terra; alla televisione il “Rais Mubarak” provò a spargere parole per placare gli istinti ribollenti come si getta acqua sul fuoco ma  non fu sufficiente!
Ora sullo schermo strepita ancora, si agita senza posa e discute animatamente tutto quel fiorire di gente che popola la pellicola di Savona: insieme inveiscono contro la dittatura che ha in spregio la democrazia ed è seduta sopra i cuori di tutto un popolo, di quegli uomini e donne che stanno  provando a cambiare faccia alla storia ed ora che arriva l'annuncio che il regime è caduto urlano di gioia. Poi, subito dopo affiora il timore di esser stati presi in giro, perchè corre voce che l'esercito ha già sospeso la costituzione.
“L'esercito non è mai stato dalla parte del popolo!” esclama una donna e subito dopo urla alla gente che non si può lasciare la piazza, non ancora: “Se ci allontaniamo siamo perduti. Io no, non me ne vado” dice convinta e fiera.
E’ questa l’immagine che chiude il film, ribadendo che nulla è mai conquistato per sempre e gettando un ponte ideale verso ciò che deve ancora accadere.
“Tahrir” e un documento estremamente vivo ed emozionante, dove si avverte  chiaramente che   l'obiettivo si è potuto abbeverare direttamente alla fonte degli avvenimenti con continuità, cogliendo la possibilità di filmare un racconto cronologico per immagini di inestimabile interesse, che trascende il suo valore cinematografico.
Radicale la scelta di Savona di non inserire a posteriori altre immagini al di fuori di quelle della piazza: nel suo “Tahrir” niente altro che quelle due settimane alle quali i  libri di storia, forse  tra qualche decennio, dedicheranno lo spazio che avranno saputo meritare.
Scendono da un balcone fino alla strada ed ora sono a cavalcioni sopra un carro armato; adesso sventolano la bandiera del loro paese o di ogni libertà presente e futura e cantano con rinnovato entusiasmo il loro coro: “Eccoli gli Egiziani, eccoli gli Egiziani!”

giovedì 14 febbraio 2013

RE DELLA TERRA SELVAGGIA di Benh Zeitlin


La piccola Hushpuppy (Quvenzhanè Wallis) vive con suo padre Wink (Dwight Henry) nella “grande vasca”,  un angolo insalubre e degradato della Lousiana: mamma è andata via tanto tempo fa - forse a nuoto? - lasciandole in ricordo solo una canottiera rossa; il resto del mondo è lontano, oltre il lungo muro della diga.
Attorno a loro una comunità pittoresca di uomini e donne che la necessità quotidiana ha reso teneramente spavaldi: se avessero le ali, dentro l’uragano che sta per abbattersi su di loro ci sguazzerebbero dentro.
Alla bambina  raccontano di quando l’uomo un tempo era niente altro che cibo da colazione: perché qualsiasi cosa fa parte del grande banchetto dell’universo!
Hushpuppy  apprende rapidamente che l’intero mondo si regge sull’incastro perfetto di tutte le cose e che quando qualcosa si rompe, se riesci a riparare il pezzo, tutto puo’ tornare come prima.
Per adesso però la piccola Hushpuppy aggiusta  giusto quello che può, oltre ad occuparsi di suo padre gravemente malato; imparerà poi a pescare i pesci gatto con le mani ed infine un giorno saprà anche affrontare i terribili “Aurochs”, i giganteschi animali preistorici che forse stanno tornando a causa dello scioglimento dei ghiacci.
“Beasts of the southern wild” – questo il titolo originale - è l’esordio folgorante di Benh Zeitlin, già vincitore della “Camera d’Or” a Cannes e del “Jury Prix” al Sundance.
Zeitlin ci conduce in un agglomerato di baracche ai margini della città, in una dimensione povera dove però regna una  libertà che incute rispetto, un luogo per alcuni aspetti tribale e dove ogni giornata deve esser traghettata dall’alba alla sopravvivenza, navigando  con difficoltà l’acqua paludosa sopra pezzi d’auto galleggiante, in cerca di quel che è necessario per vivere o rattoppando le case in legno sventrate dalla furia della natura utilizzando  pezzi di lamiera.
La nostra guida  in questo “infernale paradiso” è Hushpuppy: è qui che la piccola cresce – e deve farlo in fretta! -  pensa, osserva e mostra i suoi “muscoli inesistenti” a papà.
Ogni tanto avverte il mondo - “urlando silenziosamente”  - che un giorno sarà lei a comandare e intanto impara a spezzare i granchi con le mani, sovrappone la sua fervida fantasia alla realtà – e se papà fosse diventato un albero? -  la mischia con i suoi ricordi e se non ne ha li inventa; poi quando ha paura corre a rifugiarsi sotto una scatola di cartone.
I suoi maestri – e la sua ostrica – sono dei sudici ed amabili straccioni, che all’occorrenza tutto sanno ancora  recuperare degli istinti primordiali dell’uomo e del senso vero della vita.
Non bisogna però rendere merito a “Re della terra selvaggia” solamente per una magnifica  bambina (candidata all’Oscar) , i suoi  ispirati protagonisti e la sua ambientazione perché il film di Zeitlin - oltre ad avere una sua avvenenza carsica quanto prepotente nel guadagnarsi un passo dopo l’altro la superficie - si presta ad una lettura molto piu’ complessa di quel che sembra,   che va ben al di là della sua capacità  – tra le altre cose -   di ravvivare la nostra inerzia emotiva.
E’ un grande e maturo racconto sul passaggio dall’innocenza all’età adulta, sulla vita che si confronta con le difficoltà ed il dolore e poi  con la morte e la malattia,  capace nel mentre di alzare  lo sguardo anche sugli equilibri antichi ed attuali della natura e del pianeta.
Con efficacia si concede grande libertà stilistica quando lo ritiene necessario: magnifico ad esempio il momento - che rimanda a certa letteratura sudamericana - quando viene evocata la figura della  madre di Hushpuppy, al cui passaggio l’acqua nelle pentole comincia a bollire spontaneamente, un segmento del film che “emana”  bellezza cristallina mostrando null’altro che tegami e fornelli.
Zeitlin riesce a far coesistere momenti di  irreale sospensione dalla realtà con l’asprezza della vita  e ne  distilla purissima cinematografia d’autore, sapendola condurre  fino ad un culminare radioso e di intensa poesia, quando farà affacciare alcune piccole creature dentro un bordello ed assegnando ai  volti amorevoli delle prostitute ed ai  loro abbracci il compito di diffondere generosamente  nell’aria tanto candore e  purezza che non ne esistono altrettante in tutto il paradiso.
Chiude infine  la sua pellicola con un faccia a faccia mitico, selvaggio, dal sapore ancestrale, una visionaria conclusione  fatta di emozione, sbuffi nell’aria  e carne viva di bambina.
La città intanto continua a far salire fumi velenosi da lontano ed i suoi uomini presto torneranno per minacciare o rendere esecutiva una “evacuazione obbligatoria”.
Dall’altra parte qualcuno è già pronto a  resuscitare l’eterna forza e l’antico coraggio di sempre, magari mandando giù prima un sorso di liquore, quello stesso usato per un ultimo solenne addio o da tracannare un attimo dopo aver ricacciato indietro l’ennesimo maledetto ciclone.  

giovedì 7 febbraio 2013

LA MIGLIORE OFFERTA di Giuseppe Tornatore


Virgil Oldman (Geoffrey Rush) è un importante antiquario al quale viene affidato il compito di  stimare il patrimonio della misteriosa Claire (Sylvia Hoeks), una donna che vive solitaria e misteriosamente rinchiusa nella sua villa
Nella circostanza però, oltre a svolgere il suo incarico, Virgil si ritroverà  a dover misurare con un nuovo metro tanto il suo presente quanto  il valore complessivo della sua vita.
Giorno dopo giorno, niente si rivelerà esser davvero come appare e nonostante l’esperienza, l’arguzia  e le fini capacità deduttive, gli eventi lo porteranno  a fare naufragio nella sua stessa vita, travolto suo malgrado negli indecifrabili meandri dell’anima.
“La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore è un film denso di suggestioni, capace di mantenere dall’inizio alla fine l’aura del suo mistero così come di rinnovare ad ogni passo  nuove intriganti sensazioni.
Fin da principio il regista siciliano, ponendo immediatamente  in primo piano il morboso ed insolito rapporto tra Virgil e Claire - o anche solo “giocando” con le bollicine di un bicchiere e la fiammella di una candela - dichiara di voler costruire un “ingranaggio cinematografico” che sappia manifestarsi al meglio delle sue molteplici e possibili declinazioni.
Con eleganza ed attenzione costruisce quindi eccellenti atmosfere intimiste dalle quali solo in alcuni passaggi della pellicola si allontana, forse in cerca di una dimensione di piu’ ampio raggio che però non sembra esser perfettamente consonante al tenore del suo racconto.
Geoffrey Rush gli offre una solida base sulla quale costruire: interpreta al meglio il ruolo di un uomo timoroso persino di “toccare” la sua realtà quotidiana e difatti indossa, con ossessione maniacale, decine di paia di guanti differenti.
Da tempo ha costretto la vita nei confini di “scelte difficili e sofferte” ed ora vive circondato dagli sguardi delle donne d’ogni tempo, che dalle tele dei quadri lo osservano affisse alle pareti del suo “caveau”; per quelle in carne ed ossa ha invece una ammirazione pari solo al timore che nutre nei loro confronti.
Virgil, in una situazione sospesa tra l’impossibile ed il surreale, incrocia la sua solitudine con quella di una ragazza afflitta da “una malattia così assurda da sembrare un inganno”; l’interesse per Claire presto si impadronisce di lui come una febbre, generando un interesse che proietta nella sua mente ideali di bellezza capaci di scuotere violentemente ogni cardine della sua ordinata esistenza e di rigenerare desideri ed aspettative così come di infondergli uno sconosciuto coraggio e nuove palpitazioni.
Ma persino per un professionista delle aste come lui stavolta sarà impossibile distinguere il falso dal vero e le ragioni del cuore nulla vorranno sapere delle “inutili” riflessioni che potrebbero esser suggerite dall’intelletto. 
Tra inganni, mistero ed atmosfere fobiche, Tornatore porta a compimento la sua pellicola con grande cura, con  passione e dedizione evidenti. Il meccanismo a tratti puo’ sembrare un pochino macchinoso e non senza qualche piccola sbavatura ma nel complesso tiene e soprattutto ad ogni passo sa come sorprendere ed avvincere lo spettatore ed a coloro che sapranno  abbandonarsi totalmente alla storia ed ai suoi  intrighi,  anche largamente convincere.
Come i raggiri e gli azzardi dei quali racconta, anche “La migliore offerta” gioca tutta la sua partita sul filo del rasoio ed inevitabilmente ogni suo vacillare o piccolo inciampo risulta amplificato e pericoloso oltremisura ma le eventuali pecche non superano mai il livello di guardia e così si esce  dalla sala soddisfatti e senza esser minimamente annoiati,  anzi piacevolmente stupiti e coinvolti da questo interessante disegno d’autore.     
Peccato che Morricone per l’occasione cambi solo poche note dalle musiche già usate per Sergio Leone e chissà  poi, a ben vedere, se quell’automa del ‘700 era davvero indispensabile alla storia.
Vagamente assimilabile anche ad un thriller “La migliore offerta” ha anche il suo colpevole che – capirete poi perché -  possiamo svelarvi  subito e senza problemi: non fidatevi dunque troppo del  tecnico del montacarichi, anche se difficilmente ne rinverrete traccia se non poco prima della parola fine!