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venerdì 19 ottobre 2012

WOODY di Robert B.Weide


Nasce a New York il 10 dicembre 1935, per la precisione a Brooklyn, e da bambino usava nascondere i soldatini nei grossi vasi di geranio sotto casa.

I genitori avrebbero voluto che facesse il farmacista ma, forse per colpa delle innumerevoli proiezioni di classici viste al “Midwood Theatre”, entrerà molto presto a far parte del mondo del cinema.

Si chiama(va) Allen Stewart Könisberg ma tutti lo conosciamo oggi come Woody Allen (pseudonimo scelto in onore al clarinettista jazz Woody Herman), uno che prima della maggiore età guadagnava già più di mamma e papà e che da allora mai più è rimasto senza lavoro.

Robert B.Weide ci guida in un lungo viaggio, che dall’infanzia arriverà a raccontare di questo straordinario personaggio fino ai giorni nostri in sole due ore, rovesciandoci addosso una miriade di informazioni, stuzzicandoci con mille curiosità e svelando innumerevoli vezzi e stranezze di uno dei più famosi e prolifici registi del mondo del cinema, con oltre quaranta film all’attivo, sfornati con una cadenza annuale ed un flusso regolare come quello di uno stantuffo inesauribile.

Gli albori della sua carriera, che possiamo collocare all’inizio degli anni ’50, arrivano quando giovanissimo Allen comincia a scrivere battute per i grandi giornali americani finchè un giorno, spinto sul palco dagli agenti Jack Rollins e Charles H.Hoffe che saranno in seguito produttori dei suoi film, pur essendo con la sua timidezza l’antitesi del performer fa il suo esordio nel 1959 al Blue Angel, uno dei locali piu’ chic di New York.

Ma sarà su quello del “Bitter End” che, dopo 6 settimane di cartellone, otterrà finalmente una grande recensione sul “New York Times” ed a seguire quindi incredibili file al botteghino, con giornalisti e proprietari di locali assiepati tra il pubblico ad osservarlo.

Diventa abituale frequentatore della T.V. al “Dick Cavett Show” e di lì a poco gli offriranno addirittura 20.000 dollari per scrivere un copione per il cinema: si tratta di “What’s new Pussycat” di Clive Donner, dove Allen si ritaglierà anche una piccola particina; ma sul resto del film non potrà proferir parola ed obiezione alcuna e, purtroppo per lui, le sue parole in bocca ad altri non funzioneranno affatto bene come si sperava.

Decide che questo non dovrà succedere ancora e la prossima volta tutto dovrà esser sotto il suo controllo, ovvero che farà il regista. Sarà così (per sempre!) e subito passerà a scrivere, con l’amico Mickey Rose, il suo primo piccolo/grande successo: “Prendi i soldi e scappa”.

Negli anni ’70 è famoso: ancora non ha conquistato tutto il paese – l'America - ma ha certo soggiogato invece il cuore di Diane Keaton, con la quale girerà una commedia che cambierà il modo stesso di concepire il genere: “Io e Annie”, film della grande e non pienamente consapevole maturazione.

Il direttore della fotografia ingaggiato da Allen è Gordon Willis, il “principe del buio”, il quale ha appena girato “Il Padrino” e che, nonostante lo scetticismo generale, si rivelerà incredibilmente adatto a soddisfare le esigenze di una “lucente” commedia; sua, tra l'altro, la felice intuizione di una parete divisoria sul set che ricrea uno “split screen” reale anziché virtuale.

Inaspettata pioggia di Oscar (miglior film, miglior regia, miglior attrice e miglior sceneggiatura originale): è la consacrazione ufficiale, ma alla cerimonia il buon Woody non va perché quel giorno suona con la sua “Jazz Band”! (La sua casa ancora oggi è piena di ance di clarinetto sparse in giro !...)

A breve arriverà “Manhattan”, film che tutti ricordano per l'inquadratura con la panchina sotto il ponte di Brooklyn la quale è, ancora oggi, un’icona dell’amore; ma il regista americano dopo averlo visionato parla con i vertici della United Artists per cercare di non farlo uscire e si offre di girare il prossimo film gratis: di diverso avviso i dirigenti, così come il pubblico che lo premia numeroso al botteghino.

Stardust Memories” invece, debitore di forti influenze Felliniane (da “8 e 1/2”) subirà sorte diversa: la gente poco apprezzerà la trasposizione cinematografica dei crucci e dei tormenti di un regista e uomo di fronte all’imponente mistero della vita.

Dopo “Brodway Danny Rose” arriva “Zelig”, capolavoro stupefacente e geniale nella sua intuizione di voler somigliare ad un autentico quanto surreale documentario ed al quale la pellicola di Robert.B.Weide dedica, forse correndo troppo, meno di un minuto.

Ne “La rosa Purpurea del Cairo”, dove l’attore protagonista lascia lo schermo guadagnando la platea, ci vengono regalati altri spiccioli di genio: la sorella Letty Aronson commenta di come il fratello abbia moltissime idee e ci metta davvero poco per tradurle in qualcosa di concreto, mentre Martin Scorsese congela il pensiero in parole meglio di tutti, definendo “elettrizzante” l’evoluzione continua di Woody Allen.

Arriverà poi il rapporto artistico e sentimentale con Mia Farrow, che dopo un lungo ed intenso periodo deflagrerà nel noto scandalo che vedrà Woody Allen scoperto a flirtare con la figlia adottiva Soon-Y Previn (oggi sua moglie): sul set si sta girando un film dal titolo emblematico e forse addirittura profetico, “Mariti e mogli”, con protagonisti gli stessi Allen e Farrow i quali, con estrema professionalità, finiranno il lavoro per poi separarsi per sempre.

Dopo esser stato spolpato dalle riviste di gossip, neanche fosse il diavolo in persona, comincerà a girare “Pallottole su Broadway” che regalerà un oscar a Dianne Wiest, nonostante un ruolo per lei insolito; stessa buona sorte toccherà successivamente a Mira Sorvino ne “La Dea dell’Amore”.

Dopo “Harry a pezzi” la sorprendente svolta di “Match Point”, che ammalierà il pubblico nonostante lo sbigottimento dovuto al cambio di genere del regista. Quindi si passa per Barcellona (assieme a Vicky, Cristina, Bardem, Scarlett Johannson e Penelope Cruz) e si arriva a “Midnight in Paris”, campione d’incasso mondiale da oltre 100 milioni di dollari; sul filo di lana qualche accenno anche all’ultima fatica italiana “To Rome With love”.

Un ritratto, per quanto sintetico, davvero completo oltre ogni aspettativa quello di Robert B.Weide, niente affatto noioso ed in questo certo facilitato dalla grande vastità che abbraccia l’universo artistico di Woody Allen.

Un personaggio davvero singolare, che non si esalta per i troppi complimenti in serie perché saggiamente intuisce che non hanno alcun valore, trova surreale la passerella a Cannes e non ha un gran piacere di promuovere i suoi film anche se ben si presta al suo dovere ed alla sua parte, quando necessario.

Ogni attore vorrebbe recitare in un suo film - e piacergli - e lui sul set tranquillizza tutti indistintamente con adulatrici frasi o parole interlocutorie come: “sei stato grande, naturale”, “tranquillo” “va bene così”.

Quel che pare emergere senza dubbi è la capacità che Woody Allen ha - come pochi altri - di cogliere alcuni aspetti intimi dell’essere umano, i suoi tic e le sue nevrosi come le sue più significanti e particolari gentilezze e sa avvicinarvisi ed addentrarcisi come pochi altri saprebbero fare, avvalendosi di quella che lui stesso definisce “la maledizione dell’approccio del clown”.

Ogni volta finisce per introdurre tematiche serie nei suoi lavori perchè preferisce, come lui stesso ammette alla solita disarmante maniera, trattarle al cinema piuttosto che doverci pensare e riflettere nella vita reale.

Per svolgere il suo mestiere ha sposato la “teoria della quantità” asserendo, tra il serio ed il faceto, che tra tante pellicole una prima o poi verrà bene, così come è ben conscio di essere forse proprio egli stesso il primo ostacolo alla sua grandezza, di aver poca pazienza ed accontentarsi talvolta di un ciak appena ben riuscito – se ha ottenuto cio’ che voleva - per fuggire presto via a godersi la partita alla televisione piuttosto che farne un altro migliore.

Non ha la pazienza del perfezionista: forse un giorno la cercherà piuttosto che continuare a coltivare quel latente rimpianto che gli fa asserire di non esser ancora riuscito a fare un grande film; e sarà anche vero, a ben guardare, che nel grande mare dei suoi lavori manca forse la gemma che possa definirsi come un capolavoro immortale, mentre spiccano piuttosto, senza dubbio alcuno, numerosi “piccoli capolavori di genere”.

Così come è altrettanto vero che ad esaminare la sua filmografia, scorrendola tutta per intero ed in un solo fiato come in questa occasione, si resta basiti di fronte ad una carriera variegata ed esaltante come poche altre: ad osservarla nella sua pacifica interezza niente di meno che strabiliante.

mercoledì 10 ottobre 2012

MAGIC MIKE di Steven Soderbergh


Donne, soldi, divertimento: quale uomo potrebbe dirsi veramente libero da queste tentazioni?.
A Tampa, in Florida, si dimenano sul palco un gruppo di spogliarellisti nel locale “Xquisite”,  agitandosi davanti a piccole folle urlanti di donne e ragazzine: flirtano a distanza con loro, roteano il bacino portandole ad un passo dalle loro fantasie più selvagge; incarnano il sesso sfrenato e il principe azzurro, sono la loro visione e liberazione, il serpente a sonagli che si agita nelle loro viscere.
Le banconote infilate negli slip sono denaro stropicciato da lisciare dopo lo spettacolo per farne mazzi fruscianti che però in banca non basteranno per ottenere il prestito che ti occorre a cambiar vita, né a consegnarti il rispetto e la dignità che si dovrebbe a chi svolge onestamente il suo lavoro: c’è sempre un momento in cui repentinamente verrai etichettarto come “merdoso spogliarellista”, nonostante tu non sia il tuo stile di vita, non quel che fai bensì quel che sei.
Cavalcando vicinissimo al calore infuocato dell’immagine e sempre stretto alla spettacolarità dell’esibizione ma esplorando sul fianco le comunissime problematiche di ogni giorno, Steven Soderbergh rilegge liberamente la vita di Channing Tatum (Mike), che ha davvero intrapreso la carriera di spogliarellista fin da giovanissimo e proprio a Tampa con il nome di “Chan Crawford” (anche se in realtà presto ha voltato pagina verso altri orizzonti e tra l'altro già lavora da qualche tempo nel cinema).
Osservando con disincanto un universo turbinante e psichedelico, che la maturità e la fermezza potrebbero consentirti di gestire ma,  in caso contrario, trascinarti sul fondo tra spinte troppo adrenaliniche e “stupefacenti” tentazioni, Soderbergh realizza un film fresco e divertente senza scadere nella superficialità.
Asseconda i movimenti e tutte le luci di un mondo dai colori urlanti, ne sottolinea con grande proprietà tecnica le coreografie e gli eccessi e ne immortala le luci; non demonizza ma nemmeno enfatizza, anzi mischia e confronta con il quotidiano che ogni giorno incessantemente insiste nel ricordarci tutto quello che non si può comprare ed è irraggiungibile dal denaro.
Su tutti, un Matthew Mc Conaughey (Dallas) in gran forma e senza scrupoli fornisce, oltre alla irrinunciabile - e notevole - esibizione, una formidabile lezione di cattivo gusto ed ambizioso arrivismo mentre si agita circondato da quadri celebrativi e ridicoli mezzi busti bianchi che celebrano un passato incerto, mentre lui spera e punta tutte le sue fiches su un futuro grandioso.
“Magic Mike” è uno che si alza al mattino e nel letto ci trova un paio di donne ma di una nemmeno ricorda (conosce?) il nome: monta sul suo pick-up nero fiammante con gli interni ancora foderati di plastica e cerca lavoro in  cantiere; ma  prima o poi con le donne finirà per volerci anche parlare scoprendo però suo malgrado che queste, da un professionista "agita passere", si aspetteranno sempre qualcosa d'altro: e non è facile dargli torto!
Fino a che qualcuna non deciderà di trascorrere tutta la notte con lui solo per far passare  le sei o sette ore che  separano la mezzanotte dal mattino: a quell'ora si potrà giusto andare a mangiare qualcosa per colazione e parlare del futuroo forse, finalmente, non si tratta di niente altro che di un  semplice appuntamento.

lunedì 24 settembre 2012

L'INTERVALLO di Leonardo Di Costanzo


Come fosse una costola post-adolescenziale di "Gomorra" di Matteo Garrone, defilato e in sordina se confrontato con quegli spargimenti di sangue ed i rumori forti della grande criminalità, ecco il riquadro di una Napoli silenziosa e nascosta ma non per questo meno atroce,  toccante e crudele.
"L'intervallo" di Leonardo di Costanzo ha per protagonisti Salvatore (Alessio Gallo) e Veronica (Francesca Riso), due ragazzi giovani che non hanno nemmeno vent'anni: lui per la precisione ne ha diciassette,  vende granite al limone e da grande vorrebbe fare lo chef; lei è carina ed ha un carattere vitale e difficile da domare e quando l’estate è alle porte si arruffiana i professori per ottenere una promozione a scuola.
Ma sopra di loro non c’è solamente il cielo ma anche Bernardino (Carmine Paternoster), il boss del quartiere, che fa  sequestrare a Salvatore il carretto con il quale lavora e lo costringe a far da guardiano a Veronica, colpevole di un qualche “sgarro” che scoprirete per conto vostro seguendo la storia: confinati entrambi in un luogo abbandonato e dalle  mura fatiscenti, dove il verde sta lentamente riconquistando la sua supremazia sul cemento, nel tempo di una giornata ecco emergere tante  piccole timidezze e struggenti tenerezze, strozzate da una cappa di angoscia latente.
In un posto sudicio e squallido che se non fosse così sporco potrebbe esser la Grotta azzurra, mentre i cardellini gonfiano le piume per annunciare la tempesta, due ragazzi nel mezzo di una guerra che non è la loro che  ma non possono esimersi dal combattere, guadano la giornata uno sulle spalle dell'altro, evadono dalla loro prigione quotidiana e dalle loro vite forse già irrimediabilmente segnate, scimmiottando i naufraghi dell' "Isola dei famosi".
Esistenze al laccio, anime in gabbia, che per proteggersi da coloro che li minacciano e salvarsi da ogni cosa li opprime   avrebbero bisogno che scoppiasse un'epidemia o arrivasse un terremoto che si portasse via tutto, compresi i creditori che reclamano i loro pochi soldi.
Da un progetto nato con il laboratorio di recitazione teatrale del "Teatro Stabile di Napoli", Leonardo di Costanzo ci offre un film molto bello, di una purezza tetra ed  incisiva e dai dialoghi così  lisci e perfetti da non perdere  aderenza dalla   realtà nemmeno per lo spazio di un millimetro.
A supporto la bella fotografia di Luca Bigazzi, ma anche fosse stato girato con un telefonino "L'intervallo" sarebbe stata una pellicola degna di nota, intrisa di una autenticità talmente forte da poter prescindere dalla gradazione dei suoi colori.
Un piccolo spaccato di una Italia adiacente e nascosta, tinta di un nero asfittico che secca il fiato in gola: eppure lo sguardo, osservando una gioventù ancora non del tutto corrotta, lo scolora a fatica   in un grigio che non significa speranza ma che ancora non certifica la resa.
Le barche galleggiano nell'acqua stantia di un sottoscala e dai tetti il panorama è arido e desolante; il Vesuvio langue sbiadito dietro la monotonia dei palazzi ed  ogni tanto il silenzio è rotto dal rumore degli aerei che solcano il cielo, troppo veloci e distanti per salirci sopra e fuggire via lontano.

MONSIEUR LAZHAR di Philippe Falardeau


Quando in una scuola elementare Canadese un insegnante scompare tragicamente ecco che “Monsieur Lazhar” è pronto a rilevarne il posto, occupando veloce lo spazio vuoto con propositiva baldanza, generosa disponibilità e qualche segreto da nascondere.
Il nuovo professore viene dalla “Algeri bianca e blu”, per dettato propina ai suoi alunni Balzac piuttosto che Zanna Bianca e dentro un cartone di marmellate ha conservato il suo passato e gli strumenti del mestiere che qualcuno gli ha lasciato in eredità.
Ma la sua classe deve superare una difficile “empasse” e non basta uno psicologo o ridipingere la stanza per cancellare i brutti ricordi.
Philippe Falardeau punta su uno sviluppo semplice della storia, per quanto il soggetto potrebbe ambire a visitare chissà quali ampi e sconfinati spazi, ed in concreto poggia tutte le sue aspirazioni di concretizzarne le potenzialità puntando sul suo attore protagonista (un onesto Mohamed “Fellag”), mostrando, nel contempo,  il mondo toccante ed a cuore aperto dei bambini -interessante in particolare la prova di Alice/Sophie Nèlisse - tutti sperduti in un guado misto di tenerezze, dolore ed una obbligata fine precoce dell’infanzia.
“Monsieur Lazhar” è tratto da un testo teatrale di Evelyne De La Chenelière - qui sceneggiatrice assieme al regista – ed offrirebbe diversi temi buoni da approfondire, a partire dalle evidenti implicazioni drammatiche che si manifestano fin da principio e  che qui preferiamo non rivelare per non indebolire il motivo di principale  sorpresa ed  interesse della pellicola.
Altri ancora sarebbero poi gli spunti intriganti ma purtroppo li si accenna appena o poco di più, come ad esempio le diverse “regole di contatto” tra alunni e docenti nel mondo Arabo o nella civiltà occidentale, più semplicemente le piccole e grandi differenze che in sequenza affiorano dal connubio di  alcuni dettagli folkloristici assieme all’abbondante  relativismo culturale, tutto da “disboscare”.
Ma dai protagonisti di  questa classe, un territorio ribollente di umanità che il protagonista stesso definisce un luogo di “amicizia e lavoro dove si vive e si dà la vita”, veniamo nostro malgrado tenuti ad una considerevole distanza, senza riuscire infine a condividere per davvero nulla, né una emozione forte né una qualche forma di empatia con i piccoli o con il loro maestro che viene da lontano.
A conti fatti c’è da ritenere che  il motivo possa rintracciarsi in egual misura tanto nella modesta personalità di colui al quale è affidato il ruolo generoso - ma impegnativo - del protagonista principale  quanto nella scarsa capacità di lasciar affiorare, con i mille altri artifici di cui il cinema dispone, tutte le più toccanti ed interessanti venature di una storia che, diversamente sgrezzata, non sarebbe stata certo avara di altre notevoli elargizioni.
“Monsieur Lazhar” si limita invece a mostrare, in maniera piuttosto rigida  per quanto genuina, un breve percorso catartico e di rinascita dove per una fortuita casualità si trovano a camminare tutti assieme un gruppo di ragazzini in erba ed un uomo venuto da lontano, un tragitto del quale soprattutto intuiamo, senza poter davvero toccare con mano, difficoltà e tormenti, ma che non lascia trapelare davvero verso lo spettatore l’acutezza del malessere del quale è intriso, molto poco della sua violenta carica, carsica o di superficie, e che finisce per risolversi in una formalità cinematografica di poco rilievo, dal contributo  emotivo che non riesce a lavorare ai fianchi il sentimento.   
Come dire, in estrema sintesi, molto delicato ed onesto ma, senza una vera capacità di osare, inevitabilmente anche troppo modesto.

giovedì 20 settembre 2012

IL CAVALIERE OSCURO - IL RITORNO/THE DARK KNIGHT RISES di Christopher Nolan


Avevamo lasciato Bruce Wayne/Batman in crisi d’identità mentre veniva additato come un pericoloso criminale dalla stessa gente che si sforzava di difendere e lo ritroviamo oggi rinchiuso nel suo “eremo”, claudicante, mentre anziché vivere passa incerto i suoi giorni in attesa di riprendere a farlo davvero; tutto questo fino al momento in cui, succederà di lì a breve, una città intera si ritroverà ad aspettare con il fiato sospeso che ricompaia sul tetto dei grattacieli la sua rassicurante sagoma con costume e mantello.

Perché dalla “setta della ombre” è arrivato chi nelle tenebre ci è nato ed oggi è venuto a portare la sua minaccia e la sua rabbia non solo contro Gotham City ma verso tutta la civiltà occidentale: è il “male necessario” che irrompe e in un attimo tutto diventa un inferno che letteralmente deflagra dal sottosuolo – dove da tempo covava - verso la superficie; la polizia dimentica in un istante la sicurezza ottenuta (solo) grazie al “Decreto Harvey Dent” e certo adesso non puo’ continuare a trastullarsi dando la caccia a coloro che non restituiscono i libri alle biblioteche!

Ora che il futuro è nerissimo si spera soltanto che dal cielo arrivi, prima possibile, il segno che il Cavaliere Oscuro è tornato a combattere...

Capitolo conclusivo della trilogia di Christopher Nolan su Batman, questo “The Dark Knight Rises” è innanzitutto un film d’azione da bere tutto d’un fiato: quasi tre ore di pellicola durante le quali è difficile produrre anche un solo sbadiglio: ci sono gran gusto del divertimento ed una fantasia visiva che molto ben si attagliano al tipo di racconto, ancora una volta scelte assolutamente centrate per “vestire di cinema” l’eroe dei “DC Comics” creato da Bob Kane.

Ma uno dei punti di forza è certamente un sottotesto con importanti riferimenti all’attualità che va dagli sconquassi prodotti dalla speculazione finanziaria fino alla rilevanza delle questioni energetiche, passando per il tema della sicurezza ed i carcerati in tuta rossa stile Guantanamo.

Estremamente simbolici sono l’attacco al cuore pulsante della finanza ed i processi sommari che seguono ad una sorta di moderna “presa della Bastiglia”: nuovi cittadini vessati, aggiornati ai giorni nostri, arrembano contro il potere che li opprime.

Il tempio del denaro (e dell’ingiustizia sociale) che viene preso d’assalto è di fatto un simulacro di Wall Street – ed in questo caso Gotham City si presta ad esser lo specchio di New York o, se volete, del mondo intero – e quando il terribile criminale “Bane” vi farà irruzione più di qualcuno proverà un sottile brivido di piacere, salvo poi riconoscere più avanti la differenza tra rabbia e crudeltà.

E’ un sintomatico specchio dei nostri tempi questo “nuovo sentire”, dove è difficile distinguere e schematizzare la lotta tra il bene ed il male perchè tutto è molto più complesso e sfaccettato; non deve destare stupore il sorprenderci a provar simpatia per chi si muove fuori dai confini di leggi ingiuste, intento a cercare di colpire al cuore un sistema sempre più minaccioso soprattutto nei confronti di chi è inerme e non ha possibilità alcuna di reagire, un meccanismo diabolico ed irrefrenabile a piè sospinto proteso a fagocitare ogni cosa, vivente o inanimata.

Nolan riesce a rendere tutto questo non solamente con alcuni - fin troppo - lampanti richiami nei dialoghi ma anche con una capacità visionaria sufficientemente suggestiva ed evocativa – il fiume nero di poliziotti che cammina nelle strade della città e si prepara allo scontro con il nemico, il bambino che canta l’inno nazionale nello stadio e l’apocalittico fuoco di fila di esplosioni visto dall’alto – riuscendo tra l’altro, senza alcun problema, a fare a meno del suo eroe/protagonista per quasi una buona metà del suo film.

Il regista Londinese difatti trattiene anche in questo terzo episodio il filone spirituale della sua narrazione e rinchiude nuovamente Wayne/Il Cavaliere oscuro - come nel suo nuovo inizio cinematografico ovvero “Batman begins”- a confrontarsi prima ancora che con i suoi nemici in carne ed ossa - e badate bene, a mani nude - con i demoni che albergano nella sua anima e nella sua mente: per rivedere la luce non avrà bisogno solamente della sua furia ma gli sarà necessario finanche dimenticare di esser nato nel privilegio anziché nell’innocenza (o nel dolore), sarà fondamentale che affianchi al coraggio la paura, compresa quella della morte, fino ad affrontarla a viso aperto e senza rete.

Cast nutritissimo: oltre a Christian Bale anche Anne Hathaway (una Cat Girl “diversa” e mai chiamata con questo nome), Joseph Gordon-Levitt (arruolato dopo “Inception”), Michael Caine, Gary Oldman, Marion Cotillard, Tom Hardy e Morgan Freeman.

Cosa manca a questo “The Dark Knight Rises” per essere un film perfetto? Probabilmente nulla gli si dovrebbe aggiungere, semmai qualcosa si potrebbe togliere.

Perché quel che sminuisce in qualche misura le sue ambizioni è quanto c’è di superfluo e di “troppo acceso”, ovvero tutta la solita manfrina di inneschi di bombe e mezzi speciali da combattimento, oppure il fatto che ogni situazione sia spinta forzatamente fino al cardiopalma, anche oltre il necessario, e risolta sempre rigorosamente solo allo scadere del tempo, giusto un attimo prima della catastrofe totale: ma non si potrebbe, per una volta, “salvare il mondo” il giorno prima anziché sempre all’ultimo secondo?

Certo, in un racconto che tramuta in celluloide un super eroe dei fumetti tutto questo non possiamo derubricarlo come un mero compiacimento dello spettacolo ed anzi, ci può stare senza problemi, perché attinente all’universo che vuole ricreare; ma provate ad immaginare, solo per un istante, quale meraviglia sarebbe riuscire a “ripulire” la scena dalle inutili abbondanze, sovrapponendoci l’equilibrio di un regista e di uno sceneggiatore che sapessero raccordare alla perfezione il mondo di invenzione alla realtà, sfrondandolo di ogni inefficace esagerazione o troppo luccicante abbaglio, fino ad operare una fusione ineccepibilmente sublime.

Intimamente crediamo che potrebbe essere già Nolan l'uomo adatto ad incarnare entrambi i ruoli, così come sappiamo che probabilmente non se lo concederà mai, forse perché non lo desidera lui stesso o forse perché non vogliono coloro che pagano profumatamente il suo lavoro.

Ma questo magari è solo un rimpianto personale: forse è anzi da considerare un grandissimo risultato già l’aver coniugato il cinema d’azione con argomenti di discreto impegno e riflessione, connettendovi conseguentemente l’ampia platea di riferimento.

Contrordine dunque: lasciatevi tranquillamente cadere tra le braccia di questo episodio conclusivo della saga senza timore alcuno di rimanere delusi ed evitate, per il bene del vostro godimento, di esser troppo pretenziosi.

mercoledì 19 settembre 2012

PIETA' di Kim Ki Duk


Kang Do  (Lee Jun-Jin) riscuote per conto di uno strozzino i debiti dei suoi clienti, perlopiu’ poveri operai che hanno preso a prestito denaro per pagare i macchinari necessari a svolgere la loro professione, lavoratori che magari hanno resistito alle difficoltà per cinquant’anni ed ora devono far posto ai grattacieli ed alla nuova industria che avanza e di li a poco li spazzerà via.
Gli interessi sono del mille per cento e la morte dei debitori potrebbe essere una complicazione dal momento che in caso di insolvenza sarà una assicurazione, stipulata non sulla vita ma sull’integrità fisica, che pagherà al posto loro.  
Kang Do si adopra dunque senza scrupoli per rendere qualcuna di queste persone “storpia su commissione” – dopo di lui ci sarà chi passerà all'incasso – e procede eliminando ogni ostacolo sul cammino del recupero dei crediti, senza rispetto alcuno delle persone strette nella morsa dei debiti e costrette a pagare un prezzo altissimo, tanto per il dolore fisico da patire che per l’umiliazione e la sottrazione di dignità quali esseri umani.
Poi un giorno bussa alla porta di questo sordido esattore una donna (Jo Min Soo) che afferma di esser sua madre, quella che lo ha abbandonato trenta anni prima e che oggi torna a chiedere perdono per le sue colpe.
Utilizzando soluzioni narrative e descrittive di grande semplicità e chiarezza, Kim Ki Duk stavolta immerge la sua “parabola cinematografica” in un clima che fatica a farci prender fiato; se dovesse fare a meno delle sue ambientazioni e delle scene piuttosto “stilizzate” probabilmente il suo film picchierebbe sul nostro ventre come il piu' insostenibile dei cazzotti.
Invece in questo quadro di totale disperazione ed angoscia, denaro sporco e vendetta, il regista coreano gioca la carta del descrivere sottotraccia la  battaglia campale tra la cattiveria incallita ed oramai sorda ad ogni richiamo umano che viene costretta a confrontarsi con un amore insistente quanto incomprensibile che si presenta all’improvviso, – ma scoprirete da voi in seguito i veri motivi – squarciando una cupa, abitudinaria ed  ipotetica serenità, scompaginando ogni cosa ed insinuandosi tra le crepe di un muro fino a quel momento di granito.
Come dall'interazione di agenti chimici tenuti separati e d'un tratto versati nella medesima ampolla ecco che dalla fusione della durezza del cuore e la servizievole generosità dell'amore riaffiorano sentimenti scomparsi: la paura, l'invidia, il rispetto… la “Pietà”.
Kim Ki Duk ci lascia intendere che l'amore è un'arma potente, certo quella che più di tutte può qualunque cosa, però difficile da usare impropriamente ed incontrollabile negli effetti che genera a catena, comunque in grado di sortire sempre almeno l'effetto di agitare le acque, anche contro la più dura delle resistenze.
I protagonisti sono costretti a guardare in faccia strani fantasmi ed a combattere guerre faticose e devastanti  che hanno come “teatro delle operazioni” i meandri della loro intimità corrosa dall'odio, dalla rabbia e dall'apatia; desiderano il male e la vendetta ma nel momento in cui stanno per compierla vacillano messi a dura prova da forze loro superiori.
Uccidere l'anima e non il corpo sarebbe il più cattivo proposito e nel momento in cui  si affaccia un raggio di sole ecco che l'attimo dopo i buoni sentimenti  appena ridestati già ricominciano a latitare.
Eppure, imprevedibilmente, qualcuno percorrerà a ritroso i propri passi, scoprendo e vedendo quel che prima non era riuscito a scorgere e traendo da questo nuove sorprendenti conclusioni.
Certo, l'immagine più evocativa è una lunga striscia di sangue lungo la strada, ma siate attenti: non è quella l'unica traccia da seguire.

E' STATO IL FIGLIO di Daniele Ciprì


I Ciraulo vivono nella periferia Palermitana: in famiglia un lavoro ce l’ha solo Nicola (Toni Servillo) e per sfamare moglie, figli e nonni a carico talvolta  si sbarca il lunario cannibalizzando rame e ferro dalle carcasse delle navi abbandonate.
Poi un giorno la disgrazia si abbatte su di loro perché la figlia, la piccola Serenella, rimane uccisa in un attentato mafioso e se il dolore è incolmabile lo stesso non si puo’ dire del vuoto del portafogli: arriveranno difatti, dopo estenuanti lungaggini burocratiche che li costringeranno a tergiversare ed a contrarre “debiti pericolosi”,  220 milioni di lire di risarcimento per la  bambina scomparsa.
Ma quando i soldi verranno versati ai Ciraulo, questi non troveranno di meglio che dissipare il poco del denaro non ancora impegnato in precedenza ed ancora spendibile acquistando una Mercedes.
In “E’ stato il figlio” -  primo lungometraggio in solitaria di Daniele Ciprì, oggi orfano dell’antico sodale Franco Maresco - ci sono maschere grottesche che discendono (in)direttamente da un “Cinico T.V.” adesso a colori,  moderato però nei toni ed addolcito di molto.
Tra sfondi desolanti accecati di sole, fabbriche, case popolari e cartoline dell’Italia anni ’70 a base di famiglie in spiaggia con sdraio, cocomero, ghiacciaia e macchine stracariche, quella che emerge è una Palermo immutata (e forse immutabile) nell’arco di quasi mezzo secolo, fedele a se stessa nei  suoi codici di comunicazione e disperazione e che ci viene proposta utilizzando macchiette godibili come i colloqui con il “banchiere in casa” – l’usuraio – ovvero il Signor Pino, oppure deformando il dato di realtà   di protagonisti e comprimari, come accade con lo  squallido avvocato che dai capelli   scrolla  quintali di forfora sopra il tavolo.
Ispirandosi alle pagine di un romanzo di Roberto Alajmo, Ciprì utilizza, come gli è congeniale e consueto, un linguaggio visivo e comunicativo che origina dalle parti del surreale, assai meno disturbante che nelle precedenti esperienze “di coppia” ma non per questo necessariamente meno cattivo e sferzante: visioni di cannoli, fichi d’india e marionette (ovviamente Pupi Siciliani) fanno da contorno al coronamento di un sogno addirittura “Presidenziale”!
Nuova fiammante: eccola finalmente l’autovettura che dovrebbe assolvere al suo compito di “status symbol” e porre – del tutto in ipotesi - su un differente piano sociale i Ciraulo, affrancandoli, almeno formalmente, dalle difficoltà e le sofferenze di tutta una vita, motivo in più questo per far aspergere il mezzo addirittura con dell’acqua santa.
Per quasi tutta la durata della pellicola “E’ stato il figlio” cammina lungo un registro di commedia e tutto sommato di gradevole rilassatezza, preparandosi a nostra insaputa ad infliggerci una stilettata mortale giusto sul filo di lana, affidandola insospettabilmente ad uno dei protagonisti fino a quel momento rimasto in ombra ma capace di sfoderare una sorta di monologo finale – una autentica sorpresa - che chiude il racconto dandogli un senso più profondo e pennellando in un sol colpo tutti i colori di una certa Italia difficile da accettare quanto dura a morire.
Leggi antiche, norme di sopravvivenza, comportamenti antropologicamente incardinati  da sempre in un territorio a se stante che stenta ancora oggi ad abbandonare i suoi vizi più antichi e deleteri sono descritti con spirito acuto ed un temperamento artistico di rilievo da Ciprì, al suo esordio supportato da un cast davvero degno di nota: su tutti oltre a Servillo la moglie di Nicola Ciraulo,  Loredana (Giselda Volodi) e Nonna Aurora (Aurora Quattrocchi).
Breve apparizione per Piergiorgio Bellocchio (Ciprì ha curato la fotografia anche di “Bella Addormentata” del padre Marco) e premio a Venezia per il giovane Fabrizio Falco (Tancredi Ciraulo).
A volerlo cercare il difetto starebbe in una “confezione” persino troppo perfetta e levigata, una fotografia fin troppo elegante ed una regia senza incertezze (ma nemmeno vere geniali iperboli), che mescolate a tanto sordido e squallido peregrinare rischiano di addolcire fin troppo la pietanza.
Ma lamentarsi di registi in grado di “inventare storie” e raccontarle poi al cinema come sa fare Ciprì oltre che un inutile accanimento, al cospetto di tante pellicole scadenti di altri colleghi in Italia ed altrove, è un pochino da “azzeccagarbugli” se non proprio una piccola bestemmia e quindi meglio applaudire contenti, sperando al prossimo incontro di potersi addirittura spellare le mani.

venerdì 7 settembre 2012

BELLA ADDORMENTATA di Marco Bellocchio


Se nella già tanto divisa opinione pubblica degli italiani c’è stato un tema importante che negli ultimi anni ha animato  spalti ruggenti e contrapposti, quello è stato certo il caso di Eluana Englaro, con tutto il profondo e virulento  corredo delle sue implicazioni sulla questione dell’eutanasia.
Marco Bellocchio decide di farsene “carico cinematografico” con il suo “Bella addormentata”, forte di uno Stefano Rulli alla sceneggiatura – assieme a  Veronica Raimo - e di un cast davvero ben nutrito.
Eppure, fatto salvo l’onore dovuto all’onestà ed al coraggio profuso nell’avventurarsi a “mani nude” tra tanti forti contrasti e contraddizioni, va detto subito e senza girarci intorno che il risultato lascia piuttosto delusi.
Soprattutto sembra presto avere la  meglio su di noi un  fastidioso senso di “bulimia da luogo comune”, unito all’aggravio del non poter disporre di una sagace “speleologia artistica”  davvero capace di tirar fuori, dalle pieghe del dramma e del dolore, una chiave di lettura differente sull’argomento,  utile ad approfondire o stilisticamente nuova ed  indipendente dalla mera cronaca dei fatti.
In verità un simile approccio verrebbe anche tentato – ma dirlo riuscito sarebbe altra cosa - ed unitamente va detto che le prove degli attori, pure se non indimenticabili, sono senz’altro  buone: su tutte a nostro giudizio quella di Maya Sansa, ma di certo anche Servillo ed Herlitzka; ben calati nel ruolo anche Riondino e la Rohrwacher. Un pochino sottoutilizzata   forse Isabelle  Huppert, della quale ricorderemo solo (o soprattutto) il   viso bellissimo e spettrale e si dovrebbe magari  sorvolare sull’imbarazzante Brenno Placido che recita “Il pianto della Madonna” di Jacopone da Todi.
Nella costruzione narrativa – che rimane molto indefinita - i personaggi sono  ognuno latore di un differente punto di vista ed   avrebbero molto da dire, ma il dramma, inteso in senso artistico, è che  sono costretti a farlo dovendosi avvalere di dialoghi che, spiace constatarlo, sono il vero punto debole della pellicola, incapaci di originare poco di più che  un collage di frasi fatte pari al  resoconto, per giunta niente affatto ineccepibile, dei pensieri più ricorrenti sul tema, scontati  in qualche caso al  punto tale da arrivare a toccare  punte di vera e propria urticante banalità.  
Più confortante, ma non troppo,  il fronte delle immagini: buone alcune “istantanee” come ad esempio quella della folla assiepata attorno all’ambulanza ad inizio pellicola; certamente più incisive alcune allegorie politiche (il fuoco di fila degli “yes man” al cellulare) assieme alle sordide meschinerie di partito – anche se nemmeno queste riescono ad esser sempre esenti dal difetto di esser fin troppo didascaliche –  e di sicuro rimangono forti ed invariate nella loro capacità di fare breccia tutte le immagini del repertorio, dalle dichiarazioni del’ex premier Berlusconi, ad Emma Bonino sommersa dai rumoreggiamenti di fondo del Senato che le inveisce contro fino allo “show” dell’Onorevole Quagliariello, a poche ore dalla morte della Englaro, che manda knock-out il microfono.
“Colpi cinematograficamente  bene assestati” sono il viso bellissimo e fisso di una giovane ragazza tra i rumorosi e cadenzati respiri artificiali delle macchine che la mantengono in vita oppure il  discorso tra ironia e scaltrezza ad un bagno turco “senatorio” che ricorda ambientazioni da antica Roma – decontestualizzandola da questo film poco riuscito sembrerebbe poter essere una “visione interessante” - ma non bastano a risollevare le sorti di “Bella Addormentata”.
Bellocchio stenta a trovare la sua libertà espressiva, quella  che spesso lo ha contraddistinto a prescindere dalla compiutezza della sua opera e  si perde nella spossante e mediocre rigidità generale – peraltro sorprendente, tenuto conto dei noti professionisti che ci hanno lavorato - della sceneggiatura e dei dialoghi.
Così ecco che  la sua mano di regista vacilla  nel descrivere,  tra  disordine  e limite, tutti i pensieri, la rabbia e lo sdegno che aveva da raccontare e,  assieme al quadro collettivo di una nazione, pure  tutte le piccole intuizioni felici sbiadiscono e si confondono lungo la pellicola.

mercoledì 22 agosto 2012

L'ESTATE DI GIACOMO di Alessandro Comodin


“L’estate di Giacomo” segna l’esordio nel lungometraggio di Alessandro Comodin, giovane regista Friulano (Classe 1982), capace di aggiudicarsi subito con  la sua opera prima  il Pardo d’Oro nel concorso “Cineasti del presente” al  Festival di  Locarno 2011.  
Inestricabilmente sospesa tra documentario e finzione la pellicola è un ibrido amorevolmente genuino e capace di restituire significati, emozioni e sentimenti con le sole armi della semplicità e della grazia dell’immagine, del crogiolarsi nel tempo che scorre e del cedere il passo alla pura osservazione.
Per oltre un’ora dei settantacinque minuti totali i protagonisti sono solamente due: il giovane Giacomo Zulian (figlio di un amico del regista), un ragazzo con problemi di sordità il quale – lo desumiamo dai  pochi elementi che ci vengono offerti - sembra adesso avere sensibili miglioramenti con l’udito; assieme a lui la sua amica Stefania (Stefi), ovvero la sorella di Comodin.
L’obiettivo segue, invisibile ed imprescindibile terzo elemento,  ogni passo e parola di una loro innocente ed intima escursione fino alle rive del Tagliamento: il sentiero nel bosco, il fiume che d’improvviso appare a mutare il verde delle foglie in un azzurro limpido e fascinoso quasi fosse quello delle isole Maldive (o dell’  “Isola dei famosi”). Poi una passeggiata in bicicletta, con il sole alle spalle che tramonterà a breve ma intanto spande tutt’attorno la sua luce estiva, che poggia sapiente e gentile bagliori di vita tra rami e foglie;  e ancora la giostra in paese, il ballo al ritmo della fisarmonica.
La progressione degli avvenimenti è lineare, il montaggio pare quasi limitarsi a scremare le ridondanze ed a ridurre la giornata al tempo necessario per farne un film, certo avendo cura di cogliere i momenti essenziali e più significativi; i dialoghi all’impronta sembrano banali ma non sono per niente privi della possibilità di esser letti a diversi livelli dallo spettatore che vi si confronti, sorprendenti sia per l’atipico modo parlare di Giacomo e del suo timbro di voce – quello caratteristico di chi ha problemi con l’udito e  riabilita lentamente la parola, tra nuove sensazioni e sedute dal logopedista – così come per la spontaneità e la singolare purezza della quale sono intrisi.
Apparentemente inconcludente, senza una vera traccia da seguire o un suo evidente sviluppo drammatico – anzi gli elementi di riferimento sono volutamente ridotti al minimo indispensabile e vanno colti con perspicacia – “L’estate di Giacomo” è un “luogo del cinema” dove rovistare in cerca di piccole verità e minuscole tenerezze, una garbata intrusione in una adolescenza che, risvegliata nei sensi fino ad allora sopiti, scopre il “corpo nuovo” e l’affetto che da confuso e bambino diviene amore adulto.
In equilibrio perfetto tra sincerità e finzione, senza che per un solo istante se ne possa cogliere la benché minima differenza, la pellicola di Comodin è forse un pochino estenuante, un segmento di vita faticoso da seguire in finestra e ad una prima impressione piuttosto avara nel restituirci intima soddisfazione o una evidente gratificazione estetica, ma  trova in  realtà  una  precisa  ragione di essere anche soltanto nel suo rimandarci scorci di vita di una considerevole autenticità e pregni di una schiettezza ed una semplicità che potremmo definire quasi “regale”, tutti elementi notevoli e che sono per già per loro conto un degno motivo di attenzione.
Viene strappata via la corteccia che copre l’essenziale, spazzati via gli orpelli e messa a nudo ogni cosa conti per davvero, prescindendo dal percorso esistenziale e dalle capacità di ogni singolo e differente essere umano.
La vita bisogna saperla osservare,  esser poi capaci di raccontarla - o di filmarla – e tanto colui che narra o ridisegna l’esistente, tanto coloro che guardano o ascoltano, debbono essere in grado  poi di comprenderla o in qualche misura “allinearsi” ad essa, senza aver la presunzione che nulla di tutto questo sia né facile, né  scontato.
C’è un attimo sopra gli altri in cui ci arrivano, quasi palpabili, vivide e calde sensazioni, ed è quando Stefi scioglie i suoi capelli e Giacomo, leggermente intimidito, volge il suo viso di lato pur continuando  a puntarla con gli occhi,  forse folgorato  dal volto radioso della sua amica, forse dalla luce del sole o da quella non meno scintillante che comincia a farsi largo dentro di lui; poi sospira: “La vita è così… per tutti.”