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mercoledì 19 settembre 2012

PIETA' di Kim Ki Duk


Kang Do  (Lee Jun-Jin) riscuote per conto di uno strozzino i debiti dei suoi clienti, perlopiu’ poveri operai che hanno preso a prestito denaro per pagare i macchinari necessari a svolgere la loro professione, lavoratori che magari hanno resistito alle difficoltà per cinquant’anni ed ora devono far posto ai grattacieli ed alla nuova industria che avanza e di li a poco li spazzerà via.
Gli interessi sono del mille per cento e la morte dei debitori potrebbe essere una complicazione dal momento che in caso di insolvenza sarà una assicurazione, stipulata non sulla vita ma sull’integrità fisica, che pagherà al posto loro.  
Kang Do si adopra dunque senza scrupoli per rendere qualcuna di queste persone “storpia su commissione” – dopo di lui ci sarà chi passerà all'incasso – e procede eliminando ogni ostacolo sul cammino del recupero dei crediti, senza rispetto alcuno delle persone strette nella morsa dei debiti e costrette a pagare un prezzo altissimo, tanto per il dolore fisico da patire che per l’umiliazione e la sottrazione di dignità quali esseri umani.
Poi un giorno bussa alla porta di questo sordido esattore una donna (Jo Min Soo) che afferma di esser sua madre, quella che lo ha abbandonato trenta anni prima e che oggi torna a chiedere perdono per le sue colpe.
Utilizzando soluzioni narrative e descrittive di grande semplicità e chiarezza, Kim Ki Duk stavolta immerge la sua “parabola cinematografica” in un clima che fatica a farci prender fiato; se dovesse fare a meno delle sue ambientazioni e delle scene piuttosto “stilizzate” probabilmente il suo film picchierebbe sul nostro ventre come il piu' insostenibile dei cazzotti.
Invece in questo quadro di totale disperazione ed angoscia, denaro sporco e vendetta, il regista coreano gioca la carta del descrivere sottotraccia la  battaglia campale tra la cattiveria incallita ed oramai sorda ad ogni richiamo umano che viene costretta a confrontarsi con un amore insistente quanto incomprensibile che si presenta all’improvviso, – ma scoprirete da voi in seguito i veri motivi – squarciando una cupa, abitudinaria ed  ipotetica serenità, scompaginando ogni cosa ed insinuandosi tra le crepe di un muro fino a quel momento di granito.
Come dall'interazione di agenti chimici tenuti separati e d'un tratto versati nella medesima ampolla ecco che dalla fusione della durezza del cuore e la servizievole generosità dell'amore riaffiorano sentimenti scomparsi: la paura, l'invidia, il rispetto… la “Pietà”.
Kim Ki Duk ci lascia intendere che l'amore è un'arma potente, certo quella che più di tutte può qualunque cosa, però difficile da usare impropriamente ed incontrollabile negli effetti che genera a catena, comunque in grado di sortire sempre almeno l'effetto di agitare le acque, anche contro la più dura delle resistenze.
I protagonisti sono costretti a guardare in faccia strani fantasmi ed a combattere guerre faticose e devastanti  che hanno come “teatro delle operazioni” i meandri della loro intimità corrosa dall'odio, dalla rabbia e dall'apatia; desiderano il male e la vendetta ma nel momento in cui stanno per compierla vacillano messi a dura prova da forze loro superiori.
Uccidere l'anima e non il corpo sarebbe il più cattivo proposito e nel momento in cui  si affaccia un raggio di sole ecco che l'attimo dopo i buoni sentimenti  appena ridestati già ricominciano a latitare.
Eppure, imprevedibilmente, qualcuno percorrerà a ritroso i propri passi, scoprendo e vedendo quel che prima non era riuscito a scorgere e traendo da questo nuove sorprendenti conclusioni.
Certo, l'immagine più evocativa è una lunga striscia di sangue lungo la strada, ma siate attenti: non è quella l'unica traccia da seguire.

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