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venerdì 19 ottobre 2012

WOODY di Robert B.Weide


Nasce a New York il 10 dicembre 1935, per la precisione a Brooklyn, e da bambino usava nascondere i soldatini nei grossi vasi di geranio sotto casa.

I genitori avrebbero voluto che facesse il farmacista ma, forse per colpa delle innumerevoli proiezioni di classici viste al “Midwood Theatre”, entrerà molto presto a far parte del mondo del cinema.

Si chiama(va) Allen Stewart Könisberg ma tutti lo conosciamo oggi come Woody Allen (pseudonimo scelto in onore al clarinettista jazz Woody Herman), uno che prima della maggiore età guadagnava già più di mamma e papà e che da allora mai più è rimasto senza lavoro.

Robert B.Weide ci guida in un lungo viaggio, che dall’infanzia arriverà a raccontare di questo straordinario personaggio fino ai giorni nostri in sole due ore, rovesciandoci addosso una miriade di informazioni, stuzzicandoci con mille curiosità e svelando innumerevoli vezzi e stranezze di uno dei più famosi e prolifici registi del mondo del cinema, con oltre quaranta film all’attivo, sfornati con una cadenza annuale ed un flusso regolare come quello di uno stantuffo inesauribile.

Gli albori della sua carriera, che possiamo collocare all’inizio degli anni ’50, arrivano quando giovanissimo Allen comincia a scrivere battute per i grandi giornali americani finchè un giorno, spinto sul palco dagli agenti Jack Rollins e Charles H.Hoffe che saranno in seguito produttori dei suoi film, pur essendo con la sua timidezza l’antitesi del performer fa il suo esordio nel 1959 al Blue Angel, uno dei locali piu’ chic di New York.

Ma sarà su quello del “Bitter End” che, dopo 6 settimane di cartellone, otterrà finalmente una grande recensione sul “New York Times” ed a seguire quindi incredibili file al botteghino, con giornalisti e proprietari di locali assiepati tra il pubblico ad osservarlo.

Diventa abituale frequentatore della T.V. al “Dick Cavett Show” e di lì a poco gli offriranno addirittura 20.000 dollari per scrivere un copione per il cinema: si tratta di “What’s new Pussycat” di Clive Donner, dove Allen si ritaglierà anche una piccola particina; ma sul resto del film non potrà proferir parola ed obiezione alcuna e, purtroppo per lui, le sue parole in bocca ad altri non funzioneranno affatto bene come si sperava.

Decide che questo non dovrà succedere ancora e la prossima volta tutto dovrà esser sotto il suo controllo, ovvero che farà il regista. Sarà così (per sempre!) e subito passerà a scrivere, con l’amico Mickey Rose, il suo primo piccolo/grande successo: “Prendi i soldi e scappa”.

Negli anni ’70 è famoso: ancora non ha conquistato tutto il paese – l'America - ma ha certo soggiogato invece il cuore di Diane Keaton, con la quale girerà una commedia che cambierà il modo stesso di concepire il genere: “Io e Annie”, film della grande e non pienamente consapevole maturazione.

Il direttore della fotografia ingaggiato da Allen è Gordon Willis, il “principe del buio”, il quale ha appena girato “Il Padrino” e che, nonostante lo scetticismo generale, si rivelerà incredibilmente adatto a soddisfare le esigenze di una “lucente” commedia; sua, tra l'altro, la felice intuizione di una parete divisoria sul set che ricrea uno “split screen” reale anziché virtuale.

Inaspettata pioggia di Oscar (miglior film, miglior regia, miglior attrice e miglior sceneggiatura originale): è la consacrazione ufficiale, ma alla cerimonia il buon Woody non va perché quel giorno suona con la sua “Jazz Band”! (La sua casa ancora oggi è piena di ance di clarinetto sparse in giro !...)

A breve arriverà “Manhattan”, film che tutti ricordano per l'inquadratura con la panchina sotto il ponte di Brooklyn la quale è, ancora oggi, un’icona dell’amore; ma il regista americano dopo averlo visionato parla con i vertici della United Artists per cercare di non farlo uscire e si offre di girare il prossimo film gratis: di diverso avviso i dirigenti, così come il pubblico che lo premia numeroso al botteghino.

Stardust Memories” invece, debitore di forti influenze Felliniane (da “8 e 1/2”) subirà sorte diversa: la gente poco apprezzerà la trasposizione cinematografica dei crucci e dei tormenti di un regista e uomo di fronte all’imponente mistero della vita.

Dopo “Brodway Danny Rose” arriva “Zelig”, capolavoro stupefacente e geniale nella sua intuizione di voler somigliare ad un autentico quanto surreale documentario ed al quale la pellicola di Robert.B.Weide dedica, forse correndo troppo, meno di un minuto.

Ne “La rosa Purpurea del Cairo”, dove l’attore protagonista lascia lo schermo guadagnando la platea, ci vengono regalati altri spiccioli di genio: la sorella Letty Aronson commenta di come il fratello abbia moltissime idee e ci metta davvero poco per tradurle in qualcosa di concreto, mentre Martin Scorsese congela il pensiero in parole meglio di tutti, definendo “elettrizzante” l’evoluzione continua di Woody Allen.

Arriverà poi il rapporto artistico e sentimentale con Mia Farrow, che dopo un lungo ed intenso periodo deflagrerà nel noto scandalo che vedrà Woody Allen scoperto a flirtare con la figlia adottiva Soon-Y Previn (oggi sua moglie): sul set si sta girando un film dal titolo emblematico e forse addirittura profetico, “Mariti e mogli”, con protagonisti gli stessi Allen e Farrow i quali, con estrema professionalità, finiranno il lavoro per poi separarsi per sempre.

Dopo esser stato spolpato dalle riviste di gossip, neanche fosse il diavolo in persona, comincerà a girare “Pallottole su Broadway” che regalerà un oscar a Dianne Wiest, nonostante un ruolo per lei insolito; stessa buona sorte toccherà successivamente a Mira Sorvino ne “La Dea dell’Amore”.

Dopo “Harry a pezzi” la sorprendente svolta di “Match Point”, che ammalierà il pubblico nonostante lo sbigottimento dovuto al cambio di genere del regista. Quindi si passa per Barcellona (assieme a Vicky, Cristina, Bardem, Scarlett Johannson e Penelope Cruz) e si arriva a “Midnight in Paris”, campione d’incasso mondiale da oltre 100 milioni di dollari; sul filo di lana qualche accenno anche all’ultima fatica italiana “To Rome With love”.

Un ritratto, per quanto sintetico, davvero completo oltre ogni aspettativa quello di Robert B.Weide, niente affatto noioso ed in questo certo facilitato dalla grande vastità che abbraccia l’universo artistico di Woody Allen.

Un personaggio davvero singolare, che non si esalta per i troppi complimenti in serie perché saggiamente intuisce che non hanno alcun valore, trova surreale la passerella a Cannes e non ha un gran piacere di promuovere i suoi film anche se ben si presta al suo dovere ed alla sua parte, quando necessario.

Ogni attore vorrebbe recitare in un suo film - e piacergli - e lui sul set tranquillizza tutti indistintamente con adulatrici frasi o parole interlocutorie come: “sei stato grande, naturale”, “tranquillo” “va bene così”.

Quel che pare emergere senza dubbi è la capacità che Woody Allen ha - come pochi altri - di cogliere alcuni aspetti intimi dell’essere umano, i suoi tic e le sue nevrosi come le sue più significanti e particolari gentilezze e sa avvicinarvisi ed addentrarcisi come pochi altri saprebbero fare, avvalendosi di quella che lui stesso definisce “la maledizione dell’approccio del clown”.

Ogni volta finisce per introdurre tematiche serie nei suoi lavori perchè preferisce, come lui stesso ammette alla solita disarmante maniera, trattarle al cinema piuttosto che doverci pensare e riflettere nella vita reale.

Per svolgere il suo mestiere ha sposato la “teoria della quantità” asserendo, tra il serio ed il faceto, che tra tante pellicole una prima o poi verrà bene, così come è ben conscio di essere forse proprio egli stesso il primo ostacolo alla sua grandezza, di aver poca pazienza ed accontentarsi talvolta di un ciak appena ben riuscito – se ha ottenuto cio’ che voleva - per fuggire presto via a godersi la partita alla televisione piuttosto che farne un altro migliore.

Non ha la pazienza del perfezionista: forse un giorno la cercherà piuttosto che continuare a coltivare quel latente rimpianto che gli fa asserire di non esser ancora riuscito a fare un grande film; e sarà anche vero, a ben guardare, che nel grande mare dei suoi lavori manca forse la gemma che possa definirsi come un capolavoro immortale, mentre spiccano piuttosto, senza dubbio alcuno, numerosi “piccoli capolavori di genere”.

Così come è altrettanto vero che ad esaminare la sua filmografia, scorrendola tutta per intero ed in un solo fiato come in questa occasione, si resta basiti di fronte ad una carriera variegata ed esaltante come poche altre: ad osservarla nella sua pacifica interezza niente di meno che strabiliante.

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