Nasce
a New York il 10 dicembre 1935, per la precisione a Brooklyn, e da
bambino usava nascondere i soldatini nei grossi vasi di geranio sotto
casa.
I
genitori avrebbero voluto che facesse il farmacista
ma, forse per colpa delle innumerevoli proiezioni di classici viste
al “Midwood Theatre”, entrerà molto presto a far parte del
mondo del cinema.
Si
chiama(va)
Allen Stewart Könisberg ma tutti
lo conosciamo oggi come Woody Allen
(pseudonimo scelto in onore al clarinettista jazz Woody Herman), uno
che prima della maggiore età guadagnava già più di mamma e papà e
che da allora mai più è rimasto senza lavoro.
Robert
B.Weide ci guida in un lungo viaggio, che dall’infanzia arriverà a
raccontare di questo straordinario personaggio fino ai giorni nostri
in sole due ore, rovesciandoci addosso una miriade di informazioni,
stuzzicandoci con mille curiosità e svelando innumerevoli vezzi e
stranezze di uno dei più famosi
e prolifici registi del mondo del cinema, con oltre quaranta film
all’attivo, sfornati con una
cadenza annuale ed un flusso regolare come quello di uno stantuffo
inesauribile.
Gli
albori della sua carriera, che possiamo collocare all’inizio degli
anni ’50, arrivano quando giovanissimo Allen comincia a scrivere
battute per i grandi giornali americani finchè un giorno, spinto
sul palco dagli agenti Jack Rollins e Charles H.Hoffe che saranno in
seguito produttori dei suoi film, pur essendo con la sua timidezza
l’antitesi del performer fa il suo esordio nel 1959 al Blue Angel,
uno dei locali piu’ chic di New York.
Ma
sarà su quello del “Bitter End” che, dopo 6 settimane di
cartellone, otterrà finalmente una grande recensione sul “New York
Times” ed a seguire quindi incredibili file al botteghino, con
giornalisti e proprietari di locali assiepati tra il pubblico ad
osservarlo.
Diventa
abituale frequentatore della T.V. al “Dick Cavett Show” e di lì
a poco gli offriranno addirittura 20.000 dollari per scrivere un
copione per il cinema: si tratta di “What’s new Pussycat” di
Clive Donner, dove Allen si ritaglierà anche una piccola particina;
ma sul resto del film non potrà proferir parola ed obiezione alcuna
e, purtroppo per lui, le sue parole in bocca ad altri non
funzioneranno affatto bene come si sperava.
Decide
che questo non dovrà succedere ancora e la prossima volta tutto
dovrà esser sotto il suo controllo, ovvero che farà il regista.
Sarà così (per sempre!) e subito passerà a scrivere, con l’amico
Mickey Rose, il suo primo piccolo/grande successo: “Prendi i soldi
e scappa”.
Negli
anni ’70 è famoso: ancora non ha conquistato tutto il paese –
l'America - ma ha certo soggiogato invece il cuore di Diane Keaton,
con la quale girerà una commedia che cambierà il modo stesso di
concepire il genere: “Io e Annie”, film della grande e non
pienamente consapevole maturazione.
Il
direttore della fotografia ingaggiato da Allen è Gordon Willis, il
“principe del buio”, il quale ha appena girato “Il Padrino” e
che, nonostante lo scetticismo generale, si rivelerà incredibilmente
adatto a soddisfare le esigenze di una “lucente” commedia; sua,
tra l'altro, la felice intuizione di una parete divisoria sul set che
ricrea uno “split screen” reale anziché virtuale.
Inaspettata
pioggia di Oscar (miglior film, miglior regia, miglior attrice e
miglior sceneggiatura originale): è la consacrazione ufficiale, ma
alla cerimonia il buon Woody non va perché quel giorno suona con la
sua “Jazz Band”! (La sua casa ancora oggi è piena di ance di
clarinetto sparse in giro !...)
A
breve arriverà “Manhattan”,
film che tutti ricordano per l'inquadratura con la panchina sotto il
ponte di Brooklyn la quale è, ancora oggi, un’icona dell’amore;
ma il regista americano dopo averlo visionato parla con i vertici
della United Artists per cercare di non farlo uscire e si offre di
girare il prossimo film gratis: di diverso avviso i dirigenti, così
come il pubblico che lo premia numeroso al botteghino.
“Stardust
Memories” invece, debitore di forti influenze Felliniane (da “8 e
1/2”) subirà sorte diversa: la gente poco apprezzerà la
trasposizione cinematografica dei crucci e dei tormenti di un
regista e uomo di fronte all’imponente mistero della vita.
Dopo
“Brodway Danny Rose” arriva “Zelig”,
capolavoro stupefacente e geniale nella sua intuizione di voler
somigliare ad un autentico quanto surreale documentario
ed al quale la pellicola di Robert.B.Weide dedica, forse correndo
troppo, meno di un minuto.
Ne
“La rosa Purpurea del Cairo”, dove l’attore protagonista
lascia lo schermo guadagnando la platea, ci vengono regalati altri
spiccioli di genio: la sorella Letty Aronson commenta di come il
fratello abbia moltissime idee e ci metta davvero poco per tradurle
in qualcosa di concreto, mentre Martin Scorsese congela il pensiero
in parole meglio di tutti, definendo “elettrizzante”
l’evoluzione continua di Woody Allen.
Arriverà
poi il rapporto artistico e sentimentale con Mia Farrow, che dopo un
lungo ed intenso periodo deflagrerà nel noto scandalo che vedrà
Woody Allen scoperto a flirtare con la figlia adottiva Soon-Y Previn
(oggi sua moglie): sul set si
sta girando un film dal titolo emblematico e forse addirittura
profetico, “Mariti e mogli”, con protagonisti gli stessi Allen e
Farrow i quali, con estrema professionalità, finiranno il lavoro
per poi separarsi per sempre.
Dopo
esser stato spolpato dalle riviste di gossip, neanche fosse il
diavolo in persona, comincerà a girare “Pallottole su Broadway”
che regalerà un oscar a Dianne Wiest, nonostante un ruolo per lei
insolito; stessa buona sorte toccherà successivamente a Mira Sorvino
ne “La Dea dell’Amore”.
Dopo
“Harry a pezzi” la sorprendente svolta di “Match Point”, che
ammalierà il pubblico nonostante lo sbigottimento dovuto al cambio
di genere del regista. Quindi si
passa per Barcellona (assieme a Vicky, Cristina, Bardem, Scarlett
Johannson e Penelope Cruz) e si arriva a “Midnight in Paris”,
campione d’incasso mondiale da oltre 100 milioni di dollari; sul
filo di lana qualche accenno anche all’ultima fatica italiana “To
Rome With love”.
Un
ritratto, per quanto sintetico, davvero completo oltre ogni
aspettativa quello di Robert B.Weide, niente affatto noioso ed in
questo certo facilitato dalla grande vastità che abbraccia
l’universo artistico di Woody Allen.
Un
personaggio davvero singolare, che non si esalta per i troppi
complimenti in serie perché saggiamente intuisce che non hanno alcun
valore, trova surreale la passerella a Cannes e non ha un gran
piacere di promuovere i suoi film anche se ben si presta al suo
dovere ed alla sua parte, quando necessario.
Ogni
attore vorrebbe recitare in un suo film - e piacergli
- e lui sul set tranquillizza tutti indistintamente con adulatrici
frasi o parole interlocutorie come: “sei stato grande, naturale”,
“tranquillo” “va bene così”.
Quel
che pare emergere senza dubbi è la capacità che Woody Allen ha -
come pochi altri - di cogliere alcuni aspetti intimi dell’essere
umano, i suoi tic e le sue nevrosi come le sue più significanti e
particolari gentilezze e sa avvicinarvisi ed addentrarcisi come pochi
altri saprebbero fare, avvalendosi di quella che lui stesso definisce
“la maledizione dell’approccio
del clown”.
Ogni
volta finisce per introdurre tematiche serie nei suoi lavori perchè
preferisce, come lui stesso ammette alla solita disarmante maniera,
trattarle al cinema piuttosto che doverci pensare e riflettere nella
vita reale.
Per
svolgere il suo mestiere ha sposato la “teoria della quantità”
asserendo, tra il serio ed il faceto, che tra tante pellicole una
prima o poi verrà bene, così come è ben conscio di essere forse
proprio egli stesso il primo ostacolo alla sua grandezza, di aver
poca pazienza ed accontentarsi talvolta di un ciak appena ben
riuscito – se ha ottenuto cio’ che voleva - per fuggire presto
via a godersi la partita alla televisione piuttosto che farne un
altro migliore.
Non
ha la pazienza del perfezionista:
forse un giorno la cercherà piuttosto che continuare a coltivare
quel latente rimpianto che gli fa asserire di non esser ancora
riuscito a fare un grande film; e sarà anche vero, a ben guardare,
che nel grande mare dei suoi lavori manca forse la gemma che possa
definirsi come un capolavoro immortale, mentre spiccano piuttosto,
senza dubbio alcuno, numerosi “piccoli capolavori di genere”.
Così
come è altrettanto vero che ad
esaminare la sua filmografia, scorrendola tutta per intero ed in un
solo fiato come in questa occasione, si resta basiti di fronte ad
una carriera variegata ed esaltante come poche altre: ad osservarla
nella sua pacifica interezza niente di meno che strabiliante.
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