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mercoledì 19 settembre 2012

E' STATO IL FIGLIO di Daniele Ciprì


I Ciraulo vivono nella periferia Palermitana: in famiglia un lavoro ce l’ha solo Nicola (Toni Servillo) e per sfamare moglie, figli e nonni a carico talvolta  si sbarca il lunario cannibalizzando rame e ferro dalle carcasse delle navi abbandonate.
Poi un giorno la disgrazia si abbatte su di loro perché la figlia, la piccola Serenella, rimane uccisa in un attentato mafioso e se il dolore è incolmabile lo stesso non si puo’ dire del vuoto del portafogli: arriveranno difatti, dopo estenuanti lungaggini burocratiche che li costringeranno a tergiversare ed a contrarre “debiti pericolosi”,  220 milioni di lire di risarcimento per la  bambina scomparsa.
Ma quando i soldi verranno versati ai Ciraulo, questi non troveranno di meglio che dissipare il poco del denaro non ancora impegnato in precedenza ed ancora spendibile acquistando una Mercedes.
In “E’ stato il figlio” -  primo lungometraggio in solitaria di Daniele Ciprì, oggi orfano dell’antico sodale Franco Maresco - ci sono maschere grottesche che discendono (in)direttamente da un “Cinico T.V.” adesso a colori,  moderato però nei toni ed addolcito di molto.
Tra sfondi desolanti accecati di sole, fabbriche, case popolari e cartoline dell’Italia anni ’70 a base di famiglie in spiaggia con sdraio, cocomero, ghiacciaia e macchine stracariche, quella che emerge è una Palermo immutata (e forse immutabile) nell’arco di quasi mezzo secolo, fedele a se stessa nei  suoi codici di comunicazione e disperazione e che ci viene proposta utilizzando macchiette godibili come i colloqui con il “banchiere in casa” – l’usuraio – ovvero il Signor Pino, oppure deformando il dato di realtà   di protagonisti e comprimari, come accade con lo  squallido avvocato che dai capelli   scrolla  quintali di forfora sopra il tavolo.
Ispirandosi alle pagine di un romanzo di Roberto Alajmo, Ciprì utilizza, come gli è congeniale e consueto, un linguaggio visivo e comunicativo che origina dalle parti del surreale, assai meno disturbante che nelle precedenti esperienze “di coppia” ma non per questo necessariamente meno cattivo e sferzante: visioni di cannoli, fichi d’india e marionette (ovviamente Pupi Siciliani) fanno da contorno al coronamento di un sogno addirittura “Presidenziale”!
Nuova fiammante: eccola finalmente l’autovettura che dovrebbe assolvere al suo compito di “status symbol” e porre – del tutto in ipotesi - su un differente piano sociale i Ciraulo, affrancandoli, almeno formalmente, dalle difficoltà e le sofferenze di tutta una vita, motivo in più questo per far aspergere il mezzo addirittura con dell’acqua santa.
Per quasi tutta la durata della pellicola “E’ stato il figlio” cammina lungo un registro di commedia e tutto sommato di gradevole rilassatezza, preparandosi a nostra insaputa ad infliggerci una stilettata mortale giusto sul filo di lana, affidandola insospettabilmente ad uno dei protagonisti fino a quel momento rimasto in ombra ma capace di sfoderare una sorta di monologo finale – una autentica sorpresa - che chiude il racconto dandogli un senso più profondo e pennellando in un sol colpo tutti i colori di una certa Italia difficile da accettare quanto dura a morire.
Leggi antiche, norme di sopravvivenza, comportamenti antropologicamente incardinati  da sempre in un territorio a se stante che stenta ancora oggi ad abbandonare i suoi vizi più antichi e deleteri sono descritti con spirito acuto ed un temperamento artistico di rilievo da Ciprì, al suo esordio supportato da un cast davvero degno di nota: su tutti oltre a Servillo la moglie di Nicola Ciraulo,  Loredana (Giselda Volodi) e Nonna Aurora (Aurora Quattrocchi).
Breve apparizione per Piergiorgio Bellocchio (Ciprì ha curato la fotografia anche di “Bella Addormentata” del padre Marco) e premio a Venezia per il giovane Fabrizio Falco (Tancredi Ciraulo).
A volerlo cercare il difetto starebbe in una “confezione” persino troppo perfetta e levigata, una fotografia fin troppo elegante ed una regia senza incertezze (ma nemmeno vere geniali iperboli), che mescolate a tanto sordido e squallido peregrinare rischiano di addolcire fin troppo la pietanza.
Ma lamentarsi di registi in grado di “inventare storie” e raccontarle poi al cinema come sa fare Ciprì oltre che un inutile accanimento, al cospetto di tante pellicole scadenti di altri colleghi in Italia ed altrove, è un pochino da “azzeccagarbugli” se non proprio una piccola bestemmia e quindi meglio applaudire contenti, sperando al prossimo incontro di potersi addirittura spellare le mani.

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