Woody
Grant (Bruce Dern) è un anziano
signore che vive a Billings, nel Montana, ed è
convinto di aver vinto un milione di dollari:
questo dopo aver ricevuto una di quelle lettere truffaldine -
inviate a centinaia di migliaia di persone nel mondo - che, in caso
di fortunata estrazione, promettono simili somme in “regalo”
purchè venga sottoscritto un abbonamento ad una rivista, oppure
acquistato qualche trattamento di bellezza.
Woody
ha un passato da alcolista e non
di rado tende ancora ad attaccarsi al collo della bottiglia.
Forse
- data anche l’età - non è più troppo presente a se stesso;
comunque ritiene di avere un premio da ritirare e che non ci si possa
fidare delle poste per farselo recapitare. Prova dunque ad
incamminarsi – addirittura a piedi - verso gli uffici che
dovrebbero liquidargli la somma e che hanno sede a Lincoln nel
Nebraska, distante diverse centinaia di miglia da casa sua.
Sua
moglie Kate (June Squibb) va su tutte le furie e sbraita a gran voce
mentre i due figli rimangono in un primo momento sconcertati: Ross
(Bob Odenkinrk) sembra aver tempo ed attenzione solamente per la sua
carriera televisiva e ritiene che forse sarebbe giunto il momento di
valutare come soluzione un casa di riposo; invece Dave (Will Forte),
si dimostra molto più comprensivo ed in cuor suo ritiene che tutto
questo non sia nient’altro che l’ultimo escamotage di un vecchio
- annoiato e vicino alla fine dei suoi giorni – impegnato a
procacciarsi un buon motivo per vivere.
Difatti,
quando il padre gli avanzerà la più elementare delle richieste
(“portamici tu!”), Dave non ci penserà due volte ed accetterà
di accompagnarlo a destinazione, cogliendo al volo l’occasione per
passare un po’ di tempo assieme a lui.
Alexander
Payne con “Nebraska” lascia affiorare le tematiche intimiste a
lui care da sempre, proponendocele stavolta con un
rigore formale differente o, “se preferite”, il migliore mai
raggiunto, in virtù anche
dell’ottimo lavoro di Phedon Papamichael alla fotografia , che
illumina la sua storia con un bianco e nero affilato e risplendente.
I
protagonisti
sono persone normali che trasudano varia umanità,
declinandola con ironia e
colorite fioriture popolari. A completare un quadro di contagiosa e
sfumata surrealtà ci sono vaghe note di noia, rimpianto e qualche
punta di cattiveria.
La
sceneggiatura di Phil Johnston e Bob Nelson si fa forte nei dialoghi
scabri, essenziali e privi di
ridondanza. Per il viaggio di padre e figlio è previsto dal soggetto
un prolungato intervallo nella città di Hawthorne, durante il quale
avrà luogo una singolare ed inaspettata riunione familiare che non
terminerà precisamente con baci, abbracci ed arrivederci.
E’
laggiù, dove Woody è nato e cresciuto, che questi incontrerà
persone che non vedeva da anni e riaffioreranno vecchie memorie ed
ombre del suo passato, ridotto oggi in gran parte a niente altro che
un mucchio di legna ed erbacce (e comunque, “quel che non si
ricorda più oramai non ha importanza!”)
Payne
- anch'egli originario del Nebraska e precisamente di Omaha - ha
grande dimestichezza nel raccontare “inezie di grande rilievo”,
con il massimo della semplicità.
Forte
di una abilità rara nel dare concretezza visiva alla sua
sensibilità, sottolinea ogni
piccolo gesto e le diverse sfumature dei legami affettivi e, nella
fattispecie, usa l’attitudine registica per rovistare tra le verità del tempo, nella vita che procede per “solitudini
parallele” e tra vecchie case in rovina.
“Nebraska”
tenta di farci ascoltare il rumore fioco e leggiadro di tutte le
piccole cose che rendono (o
renderebbero) bella e felice la
vita, che si tratti anche solamente di un compressore o di un furgone
(usato); ci dice che “la luce” non brilla
a nostro piacimento ma spesso solo nello
spazio di fugaci “interiezioni”,
momenti in apparenza irrilevanti e molte volte inaspettati: avrete
certamente modo di notare – tra gli altri gustosi episodi - la
passeggiata di Woody sul viale poco prima della fine o quando questi,
in un locale gremito di persone, riceverà quasi per equivoco
applausi fragorosi ed insolitamente inebrianti.
Payne
ed il suo cast portano in dote al film una carica di ilarità che si
dispiega in una sequela di piccoli scambi, di battute fulminanti e
deliziose, che riescono a
strapparci riflessioni e grasse risate persino tra le lapidi di un
cimitero.
Esemplare
sembra essere la compiutezza
raggiunta nel
cantare le sventure e le impercettibili fortune dei personaggi
minori, quelle “piccole esistenze rivelatrici” che scolorano
nella folla, motivo per cui “Nebraska” si propone tre le
espressioni migliori di un cinema capace di trarre da dettagli
infinitesimali dei significati universali,
ripescandoli nella confusione informe e rumorosa del mondo, laddove
vagano spesso inosservati senno e saggezza, scontenti e scoramenti,
dolori soffocati ai quali dare voce.
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