“Sassy
777” scorre on line la lista dei desideri di “Boitoi18”,
“Cin8380” condivide in rete il suo dolore con “Fear and
Loathing” mentre “BenBoyd” fantastica avventure con
l'immaginaria “Jessica Rhony”.
Dietro
i freddi “NickName” si celano (quasi sempre...) esseri umani in
carne ed ossa.
“Disconnect”
di Henry Alex Rubin dipana la sua trama attraverso tre (quasi
quattro...) storie separate ma contigue: quella della giornalista
Nina (Andrea Riseborough, molto brava!) che approccia il “SexyCam
Performer” Kyle (Max Thieriot) per ricavarne un servizio
televisivo, poi di Cindy e Derek (Paula Patton e Alexander Skargard,
figlio di Stellan), moglie e marito alle prese con la luttuosa
perdita del proprio bambino e poi precipitati in problemi economici a
causa di una frode a mezzo internet ed infine di Ben (Jonah Bobo),
che viene irretito da Frye e dal suo amico Jason (Colin Ford),
adolescenti complici e “cyber-bulli”, intenti a divertirsi ed a
fargli credere che una inesistente ragazza di nome Jessica si sia
invaghita di lui.
Ad
unire tra loro le vicende sono i personaggi di Mike Dixon (Frank
Grillo), un ex-poliziotto ora esperto investigatore di crimini
informatici, vedovo e padre di Jason e chiamato ad indagare sul caso
di frode dai due coniugi Cindy e Derek e quello di Rich Boyd (Jason
Bateman), il padre di Ben, che di professione fa l'avvocato e sarà
coinvolto – seppur marginalmente - negli eventi riguardanti Nina
e Kyle.
Storie
incrociate - sempre più un vezzo piuttosto che una vera e propria
necessità della narrazione - con sceneggiatura ad opera di Andrew
Stern.
“Disconnect”
punta l'indice sui pericoli della rete (le truffe, le false
identità, lo sfruttamento dei minori) ma ancora di più vuole
sottolineare come questa (paradossalmente?) sia talvolta l'ennesimo
tassello che contribuisce alla rarefazione dei rapporti umani ed a
gettarli in crisi.
Non
pare esserci comunque un intento castigatore e moralista, soprattutto
considerando che nel contesto generale degli avvenimenti sarà
proprio il mezzo virtuale al tempo stesso ragione ed in
qualche misura soluzione dei mali, contribuendo prima a creare i
pericoli e le distanze ma poi scatenando – originando conseguenze a
catena - processi di cambiamento e riavvicinamento che, almeno in
parte, si attiveranno in conseguenza del materializzarsi del contatto
fisico e delle deflagrazioni improvvise dell'anima.
Rivelazioni
provenienti da hard disk sui quali si è reso necessario investigare
provocheranno vitali e reali scintille emotive, un avvenimento
drammatico consequenziale ad un pubblico dileggio virtuale
riavvicinerà genitori assenti alle famiglie ed ai figli trascurati
ed imprevedibili situazioni e prese di coscienza scaturiranno dal
contatto di mondi lontani come “l'hard-web” degli adolescenti e
la “televisione” degli adulti.
Dunque
nel film di Rubin la virtualità non viene additata solo come una
trappola ma semplicemente come una delle tante strade percorribili
per un limitato segmento temporale, trascorso il quale poi
inevitabilmente si finisce per riapprodare alla vita vera e quindi,
narrativamente parlando, la “deriva tecnologica” non risulta
essere il baricentro straripante del racconto bensì un mezzo
attraverso il quale analizzare e spiegare sentimenti e
(nuove/antiche) problematiche dell'esistenza.
“Disconnect”
difatti non è altro
che un nuovo film sulle “vicinanze solitarie”, sui
sensi di colpa che lentamente affiorano e le conseguenti collisioni
tra le persone e nel suo insieme porta la mente a ripescare il
“Crash” di Paul Haggis (tre Oscar e due Golden Globe nel 2006),
senza reggerne il paragone in quanto a pathos e spessore. Niente di
sorprendente insomma e – eccezion fatta per la pessima scelta
stilistica del “ralenty” poco prima della fine - tutto il resto è
girato e pensato in maniera gradevole, molto meticolosa ed
organizzata, riuscendo ad evitare di incespicare troppo negli
incroci farraginosi, nondimeno divenendo in un istante cinema
masticabile, in poco tempo digerito e presto dimenticabile.
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