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martedì 14 gennaio 2014

DISCONNECT di Henry-Alex Rubin




Sassy 777” scorre on line la lista dei desideri di “Boitoi18”, “Cin8380” condivide in rete il suo dolore con “Fear and Loathing” mentre “BenBoyd” fantastica avventure con l'immaginaria “Jessica Rhony”.

Dietro i freddi “NickName” si celano (quasi sempre...) esseri umani in carne ed ossa.

Disconnect” di Henry Alex Rubin dipana la sua trama attraverso tre (quasi quattro...) storie separate ma contigue: quella della giornalista Nina (Andrea Riseborough, molto brava!) che approccia il “SexyCam Performer” Kyle (Max Thieriot) per ricavarne un servizio televisivo, poi di Cindy e Derek (Paula Patton e Alexander Skargard, figlio di Stellan), moglie e marito alle prese con la luttuosa perdita del proprio bambino e poi precipitati in problemi economici a causa di una frode a mezzo internet ed infine di Ben (Jonah Bobo), che viene irretito da Frye e dal suo amico Jason (Colin Ford), adolescenti complici e “cyber-bulli”, intenti a divertirsi ed a fargli credere che una inesistente ragazza di nome Jessica si sia invaghita di lui.

Ad unire tra loro le vicende sono i personaggi di Mike Dixon (Frank Grillo), un ex-poliziotto ora esperto investigatore di crimini informatici, vedovo e padre di Jason e chiamato ad indagare sul caso di frode dai due coniugi Cindy e Derek e quello di Rich Boyd (Jason Bateman), il padre di Ben, che di professione fa l'avvocato e sarà coinvolto – seppur marginalmente - negli eventi riguardanti Nina e Kyle.

Storie incrociate - sempre più un vezzo piuttosto che una vera e propria necessità della narrazione - con sceneggiatura ad opera di Andrew Stern.

Disconnect” punta l'indice sui pericoli della rete (le truffe, le false identità, lo sfruttamento dei minori) ma ancora di più vuole sottolineare come questa (paradossalmente?) sia talvolta l'ennesimo tassello che contribuisce alla rarefazione dei rapporti umani ed a gettarli in crisi.

Non pare esserci comunque un intento castigatore e moralista, soprattutto considerando che nel contesto generale degli avvenimenti sarà proprio il mezzo virtuale al tempo stesso ragione ed in qualche misura soluzione dei mali, contribuendo prima a creare i pericoli e le distanze ma poi scatenando – originando conseguenze a catena - processi di cambiamento e riavvicinamento che, almeno in parte, si attiveranno in conseguenza del materializzarsi del contatto fisico e delle deflagrazioni improvvise dell'anima.

Rivelazioni provenienti da hard disk sui quali si è reso necessario investigare provocheranno vitali e reali scintille emotive, un avvenimento drammatico consequenziale ad un pubblico dileggio virtuale riavvicinerà genitori assenti alle famiglie ed ai figli trascurati ed imprevedibili situazioni e prese di coscienza scaturiranno dal contatto di mondi lontani come “l'hard-web” degli adolescenti e la “televisione” degli adulti.

Dunque nel film di Rubin la virtualità non viene additata solo come una trappola ma semplicemente come una delle tante strade percorribili per un limitato segmento temporale, trascorso il quale poi inevitabilmente si finisce per riapprodare alla vita vera e quindi, narrativamente parlando, la “deriva tecnologica” non risulta essere il baricentro straripante del racconto bensì un mezzo attraverso il quale analizzare e spiegare sentimenti e (nuove/antiche) problematiche dell'esistenza.

Disconnect” difatti non è altro che un nuovo film sulle “vicinanze solitarie”, sui sensi di colpa che lentamente affiorano e le conseguenti collisioni tra le persone e nel suo insieme porta la mente a ripescare il “Crash” di Paul Haggis (tre Oscar e due Golden Globe nel 2006), senza reggerne il paragone in quanto a pathos e spessore. Niente di sorprendente insomma e – eccezion fatta per la pessima scelta stilistica del “ralenty” poco prima della fine - tutto il resto è girato e pensato in maniera gradevole, molto meticolosa ed organizzata, riuscendo ad evitare di incespicare troppo negli incroci farraginosi, nondimeno divenendo in un istante cinema masticabile, in poco tempo digerito e presto dimenticabile.

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