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martedì 29 maggio 2012

SILENT SOULS di Aleksei Fedorchenko



La zona centro occidentale della Russia vicino al Lago Nero era un tempo abitata dai Merya, una popolazione Ugro-Finnica che fu assorbita attorno al XVII Secolo dagli Slavi.

Ma un'etnia non muore finchè ricorda la propria lingua e le proprie tradizioni.

Aist acconsente di buon grado ad accompagnare il suo datore di lavoro Miron per aiutarlo a trasportare il corpo di sua moglie Tanya, appena defunta, fino a dove la terra incontra il mare: è là che cremeranno il suo corpo e ricongiungeranno le sue ceneri e la sua anima ai flutti, che le restituiranno una “nuova dimensione”.

Silent souls” di Aleksei Fedorchenko, in originale “Ovsyanki”, dal nome dei piccoli uccelli – in italiano “Zigoli” - che accompagneranno nel lungo viaggio i due protagonisti e ne segneranno il destino, è un'immersione garbata in un mondo distante del nostro tempo presente.

Tradizioni e tenerezze sopravvivono alla loro sconfitta rispetto alla storia ed alla modernità: i Merya, ultimi testimoni di un mondo, uomini dalle facce inespressive e dalla memoria lunga, che non si lasciano travolgere dalla passione e nemmeno sedurre dagli enormi ed imponenti scaffali pieni di merci del “nuovo mondo”.

Provengono da culture lontane e se non sapranno combattere o resistere chi vuole cancellarne l'esistenza sanno già di poter assaporare il futuro rifugio della morte o meglio dell'incontro con “l'acqua”, che a tempo debito farà la sua scelta e fornirà il suo giudizio superiore.

Durante il viaggio tramutano il dolore in “fumo” - così usano chiamare le esternazioni fatte agli amici sulla vita coniugale e sessuale riguardante il consorte defunto – ed in qualche modo perpetuano l'esistenza di chi non c'è più, trasmettendo ricordi che possano farlo sopravvivere anche attraverso gli altri.

Fedorchenko ci porta in viaggio seguendo con il suo obiettivo le lunghe strade che si snodano tra boschi e mare e regalandoci istantanee arcaiche e seducenti, che sanno irradiare tanto la nitidezza come l'opacità, grazie ad una fotografia sincera e bellissima (Premio Osella a Venezia nel 2010).

Aleggiano tristezza e nostalgia - la stessa “Nostalghia” che il cinema ha già incontrato grazie ad Andrej Tarkovskij - però non la disperazione che sembra esser ricacciata indietro da fortissime ed invidiabili consapevolezze identitarie, dai ricordi poetici e struggenti che uniscono e cementano e se un giorno sarà inevitabile soccombere, allora ci si tufferà nelle cristalline liquidità dell'universo che apre le sue porte in terra giusto sulla superficie delle acque chiare.

E' un viaggio intimista ma vitale, di un cinema che vuole testimoniare di esser presente e con la sua specifica ed irrinunciabile lentezza porgere a fruitori lontani e diversi l'insieme delle sue delicatezze e dei suoi costumi.

Risuonano lontani echi e riflessioni sull'immortalità; più vicini ed intensi quelli sullo struggimento del distacco e riguardo l'ipotesi benevola ma incerta del ricongiungimento.

In “Silent souls” anche la figura della donna, prostitute comprese, nonostante in un primo momento sembri venir considerata solo nella sua subalternità rispetto al maschio, viene omaggiata, descritta come “un fiume che può portare via il dolore: peccato che non ci si possa annegare dentro”.

Affogare suicida per un Merya è impossibile, inimmaginabile, come voler correre al paradiso prima degli altri: è sempre il fiume, semmai, che deve decidere quando e come.

Il film di Fedorchenko è romantico e poetico, di una ricercatezza semplice, denso di immagini e parole in grado di imprimersi nella nostra memoria e che torneranno a trovarci a posteriori, regalandoci un retrogusto capace di esaltare il palato con sapori tenui ed inconsueti e che non desiderano prevaricare con i loro aromi.

Un “viaggio primario”, da intraprendere anche solo per visitare le terre della nostra curiosità: così distante dai nostri confini e dalle nostre abitudini eppure così vicino a tutti i dubbi ed il sentire della nostra anima.

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