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sabato 7 luglio 2012

C'ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA di Nuri Bilge Ceylan



Tre autovetture procedono in fila indiana alle ultime luci del giorno: di lì a poco sconfinerà la notte che, lo intuiamo presto, non ci darà occasione a breve di incontrare nuovamente il mattino.

Buio, lampi che annunciano la pioggia e illuminano per un attimo volti e presagi nascosti fra le rocce; molte parole, attesa, piccoli segnali e premonizioni.

Il teatro è quello di un paesaggio arcaico e desolato dove un commissario (Yilmaz Erdogan), un procuratore (Taner Birsel) ed un dottore (Muhammet Uzuner) accompagnano un reo-confesso, alla ricerca del luogo che nasconde le prove del suo misfatto.

C’era una volta in Anatolia” dell’eccellente regista Turco Nuri Bilge Ceylan (“Le tre scimmie” – “Uzak”) procede apparentemente come fosse un poliziesco ma il suo passo lento ed estenuante, così diverso dal “genere”, tradisce presto una diversa ambizione e la ricerca di un fronte inconsueto e lontano, fatto di indizi però umani, di vite che impattano con il loro passato più che di veri e propri elementi del crimine e se investigazione c'è, allora stiamo parlando di quella che esplora gli anfratti più reconditi dell’anima.

Il lungo viaggio in una notte che non vuole terminare, squarciata ogni tanto solo dai fari che la bucano percorrendo strade brulle e solitarie, apparentemente sembra tinto di giallo ma in realtà sono altri i colori e le sfumature che si vogliono raccontare ed indagare.

Bilge Ceylan priva lo spettatore dei riferimenti e lo lascia sperduto come i suoi protagonisti, facendo in modo che sensazioni e verità affiorino lentamente; spesso indugia in inquadrature larghe e fisse o che stringono il campo lentamente, rendendo ancora più acuto il senso di rarefazione.

Fotografia e luci usate con grande sapienza e raffinatezza amplificano ogni sensazione e “picchiettano” alla gola, poi anche al cuore.

Bir zamanlar Anadolu’da” – questo il titolo in originale - è una pellicola né troppo complessa ne criptica ma che richiede pazienza ed una necessaria partecipazione al fine di condurre fino all’empatia chi osserva; un approccio privo di tale predisposizione, della doverosa curiosità e della consapevolezza che la dilatazione del tempo è un valore aggiunto per meglio addentrarsi nei significati e nella realtà, probabilmente non potrà arrivare a cogliere le venature nascoste, né ripagarsi con lo stupore intenso a venire, che infatti giungerà senza dar sfoggio di nessuna appariscenza.

E’ una storia sporca, i cui frutti sembrano non doversi mai cogliere ma che invece regalerà a coloro che sapranno disporsi alla visione la possibilità di elaborare riflessioni lancinanti, sensazioni intense destinate a tornare più volte a struggerci ed incantarci.

Mancata “Palma d’oro” a Cannes 2011 – se la aggiudicò il Terrence Malick sopravvalutato di “The three of life” ma al quale si vollero forse rendere gli onori alla carriera – “C’era una volta in Anatolia” vinse comunque il “Gran Prix – Premio speciale della Giuria”: film di straordinaria bellezza, contemplativo, che ad ogni fotogramma scava un nuovo solco in visi e persone, senza mai urlare o dover stupire trasforma in suggestioni visive il modo di raccontare dei grandi della letteratura oppure ne ricorda la capacità evocatrice e descrittiva con epifanie radiose, incantevoli come pitture fiamminghe che ci mostrano niente di più che una ragazza emergere dal buio portando un vassoio colmo di bicchieri tintinnanti.

Il delitto al centro del racconto è niente altro che una scusa per poter intagliare con il bisturi di una grandissima regia il corpo dei vivi anziché quello dei morti e praticare una laboriosa quanto affascinante autopsia delle anime.

L’obiettivo schiacciato sul primo piano di un intricato labirinto umano lentamente se ne allontana e ci consente infine, lasciando trapelare una sola traccia per volta, di arrivare ad ammirare un quadro totale altrimenti indistinguibile.

Come da un setaccio, adagio, scivolano granelli di sabbia che con il loro grigio compongono l’indecifrabile disegno di differenti uomini e storie, provenienti da lunghi e sofferti percorsi, dei quali non tutto dobbiamo conoscere ma molto alla fine ci sarà rivelato.

Come si farebbe con qualcuno o qualcosa che non siamo riusciti ad afferrare del tutto ma ci ha profondamente turbato o colpito, li osserviamo ancora, giusto nei pressi dell’ultimo crocevia che li ha fatti incontrare: un attimo dopo ognuno sta già riprendendo il suo cammino.

3 commenti:

ulisse ha detto...

c'era in anatolia....per fortuna non c'era a Roma.....a Roma c'era solo l'alfabeto criptico di Paolo

Patrizia ha detto...

Qualcosa mi dive che Ulisse non abbia gradito...dovrà parlare con le mie co-spettatrici!!!

Patrizia ha detto...

Errata Corrige: dice