Gioie
e
dolori
della
capitale
Cubana:
7 giorni
della
settimana
(da
“Lunes”
a
“Domingo”)
per
7 cortometraggi
commissionati
a
registi
diversi
nell’ambito
di
un
progetto
di
“Havana
Club
International”,
azienda
Franco/Cubana
produttrice
del
famoso
Rum,
teso
a
promuovere
valori
e
radici
dell’isola
Caraibica.
Partendo
dai
testi
dello
scrittore
autoctono
Leonardo
Padura
ecco
una
rappresentazione
poliedrica
di
una
delle
mete
turistiche
più
battute
e
desiderate
del
pianeta:
disponibile
ed
accogliente,
fogna
e
paradiso,
molto
spesso
vinta
dal
suo
dover
immancabilmente
ondeggiare
tra
stereotipo
e
mito.
Difficile
snidare
quel
che
di
leggendario
e
di
falso
si
annida
nei
ritratti
della
città
proposti
da
questa
pellicola
e
parecchio
complicato
anche
sottrarsi
ad
un
inspiegabile
senso
di
nostalgia
e
calore
al
quale
viene
indotto
per
vie
disparate
persino
chi
non
ne
aveva
mai
sentito
parlare
e
meno
che
mai
ci
aveva
messo
piede.
E’
comunque
un
popolo
bello
e
che
profuma
di
pulito
quello
che
ci
restituiscono
i
brevi
racconti
di
“7 days
in Havana”,
che
sempre
e
comunque
sembra
sventolare
il
vessillo,
sdrucito
e
scintillante,
della
spontaneità
e
della
solare
offerta
di
amicizia.
Pablo
Trapero
(“Jam
Session”)
più
degli
altri
prova
a
sottolineare
questa
caratteristica
di
grande
e
disponibile
umanità
e
dopo
aver
“dialogato”
con
Kusturica,
per
questa
volta
davanti
all’obiettivo
anziché
in
regia,
passa
rapido
la
mano
ai
suoi
colleghi
senza
molto
altro
da
aggiungere.
Julio
Medem
(“La
tentacion
de
Cecilia”)
invece
affoga
presto
nel
suo
tema,
insistendo
troppo
nel
sottolineare
il rincorrersi e l'alternarsi di contrasti
e
desideri;
il
suo
è
forse
l’episodio
più
scontato
e
meno
originale,
incapace
di
raccontare
qualcosa
di
davvero
nuovo
oppure
di
distinguersi
con
accenni
significativi
tramite
uno
stile
personale.
Diversamente
Elia
Suleiman
(“Diary
of
a
beginner”),
che
come
suo
solito
gioca
con
luoghi,
protagonisti
ed
immagini
per
“sottrazione
ed
isolamento”,
in
poche
istantanee
declina
piccole
gioie,
tristezze
e
contraddizioni
della
leggendaria
Cuba
e
della
sua
rivoluzione
oramai
“istituzionalizzata.”
Ai
suoi
antipodi
Gaspar
Noè
(“Ritual”)
indaga
invece
tra
ritmo
ossessivo
e
luci
buie
il
volto
oscuro
de
L’Havana,
non
sapremmo
dire
con
quanto
compiacimento.
Solitamente
il
regista
Argentino
trova
la
sua
forza
nell’eccesso:
stavolta
però
coglie
la
giusta
misura
e
rende
un
buon
servigio
al
film
nel
suo
complesso.
Il
suo
cortometraggio
pedina
una
adolescente
omosessuale
nel
suo
percorso
tra
punizione
e
purificazione,
umiliazione
ed
espiazione.
Bravo
è
Benicio
Del
Toro
(“El
Yuma”)
in
apertura,
ordinato,
semplice
ed
efficace
dietro
la
macchina
da
presa:
dalla
mattina
ci
accompagniamo
assieme
ad
un
giovane
americano
che
la
prorompente
bellezza
femminile
da
ogni
angolo
vuole
adescare.
Chiude
la
sua
storia
con
un
orgoglioso
sberleffo
al
troppo
“machismo”
del
quale
sembrerebbe
ancora
esser
intrisa
l’isola
caraibica.
“Dulce
Amargo”
è
invece
il
titolo
dell’episodio
di
Juan
Carlos
Tabio,
che
racchiude
nel
titolo
l’
innegabile
oscillazione
emotiva
che
spesso
deve
subire
la
vita
nella
capitale;
buoni
gli
spunti
che
si
perdono
però
in
uno
sviluppo
troppo
disciplinato
e
poco
originale
ed
incisivo:
una
occasione
sprecata!
Infine
Laurent
Cantet
(“La
Fuente”),
tra
ironia,
vitalità
e
religione
da
par
suo
regala
una
prova
corale,
sufficientemente
descrittiva
dell’anima
calorosa
di
questa
gente
e
dei
luoghi
che
abita:
dal
“Malecon”
– così
è
chiamato
il
famoso
lungomare
de
L’Havana
– alle
case
pastello;
poi
le
indolenze,
le
abitudini,
i
miti
religiosi
(la
vergine
“Oshun”,
dea
delle
acque
e
della
fecondità)
e
le
festose
esternazioni.
Alla
resa
dei
conti,
per
qualità
e
personalità
si
alza
una
spanna
sopra
tutti
sicuramente
Suleiman
e
la
sua
sintesi
semplice
e
poetica,
stramba
e
stralunata
ma
non
per
questo
meno
attenta
e
capace
di
cogliere
tutto
quel
che
è
essenziale,
anzi
facendolo
emergere
con
la
sua
naturale
inclinazione
a
tagliare
il
superfluo.
Subito
dopo
Noè
e
Cantet.
Degno
di
nota
anche
Benicio
del
Toro.
Sette
piccole
storie
con
sullo
sfondo
variopinte
cartoline
semoventi,
a
volte
troppo
turistiche,
a
volte
portatrici
di
dettagli
“socio-antropologici”
ma
senza
particolari
velleità;
alcune
hanno
il
giusto
colpo
d’ali
e
potranno
continuare
a
librarsi
in
volo
anche
oltre
l’orizzonte
della
sala
cinematografica,
altre
un
attimo
dopo
che
si
sono
accese
le
luci
in
sala
stanno
già
ripiegando
verso
un
ordinato
ed
onorevole
oblio.
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