Tre autovetture
procedono in fila indiana alle ultime luci del giorno: di lì a poco
sconfinerà la notte che, lo intuiamo presto, non ci darà occasione
a breve di incontrare nuovamente il mattino.
Buio, lampi che
annunciano la pioggia e illuminano per un attimo volti e presagi
nascosti fra le rocce; molte parole, attesa, piccoli segnali e
premonizioni.
Il teatro è quello
di un paesaggio arcaico e desolato dove un
commissario (Yilmaz Erdogan), un procuratore (Taner Birsel) ed un
dottore (Muhammet Uzuner) accompagnano un reo-confesso, alla ricerca
del luogo che nasconde le prove del suo misfatto.
“C’era una
volta in Anatolia” dell’eccellente
regista Turco Nuri Bilge Ceylan (“Le tre scimmie” – “Uzak”)
procede apparentemente come fosse un
poliziesco ma il suo passo lento ed estenuante, così diverso dal
“genere”, tradisce presto una diversa ambizione e la ricerca di
un fronte inconsueto e lontano, fatto di
indizi però umani, di vite che impattano con il loro passato più
che di veri e propri elementi del crimine e se investigazione c'è,
allora stiamo parlando di quella che esplora gli anfratti più
reconditi dell’anima.
Il lungo viaggio in
una notte che non vuole terminare, squarciata ogni tanto solo dai
fari che la bucano percorrendo strade brulle e solitarie,
apparentemente sembra tinto di giallo ma in realtà sono altri i
colori e le sfumature che si vogliono raccontare ed indagare.
Bilge Ceylan priva
lo spettatore dei riferimenti e lo lascia sperduto come i suoi
protagonisti, facendo in modo che sensazioni e verità affiorino
lentamente; spesso indugia in inquadrature
larghe e fisse o che stringono il campo lentamente, rendendo ancora
più acuto il senso di rarefazione.
Fotografia e luci
usate con grande sapienza e raffinatezza amplificano ogni sensazione
e “picchiettano” alla gola, poi anche al cuore.
“Bir zamanlar
Anadolu’da” – questo il titolo in originale - è una pellicola
né troppo complessa ne criptica ma che richiede pazienza ed una
necessaria partecipazione al fine di condurre fino all’empatia chi
osserva; un approccio privo di tale predisposizione, della doverosa
curiosità e della consapevolezza che la
dilatazione del tempo è un valore aggiunto per meglio addentrarsi
nei significati e nella realtà,
probabilmente non potrà arrivare a cogliere le venature nascoste, né
ripagarsi con lo stupore intenso a venire, che infatti giungerà
senza dar sfoggio di nessuna appariscenza.
E’ una storia
sporca, i cui frutti sembrano non doversi mai cogliere
ma che invece regalerà a coloro che sapranno disporsi alla visione
la possibilità di elaborare riflessioni lancinanti, sensazioni
intense destinate a tornare più volte a struggerci ed incantarci.
Mancata “Palma
d’oro” a Cannes 2011 – se la aggiudicò il Terrence Malick
sopravvalutato di “The three of life” ma al quale si vollero
forse rendere gli onori alla carriera – “C’era una volta in
Anatolia” vinse comunque il “Gran Prix – Premio speciale della
Giuria”: film di straordinaria bellezza,
contemplativo, che ad ogni fotogramma scava un nuovo solco in visi
e persone, senza mai urlare o dover stupire trasforma in suggestioni
visive il modo di raccontare dei grandi della letteratura
oppure ne ricorda la capacità evocatrice e descrittiva con epifanie
radiose, incantevoli come pitture fiamminghe che ci mostrano niente
di più che una ragazza emergere dal buio portando un vassoio colmo
di bicchieri tintinnanti.
Il delitto al
centro del racconto è niente altro che una scusa per poter
intagliare con il bisturi di una grandissima regia il corpo dei vivi
anziché quello dei morti e praticare una laboriosa quanto
affascinante autopsia delle anime.
L’obiettivo
schiacciato sul primo piano di un intricato labirinto umano
lentamente se ne allontana e ci consente infine, lasciando trapelare
una sola traccia per volta, di arrivare ad ammirare un quadro totale
altrimenti indistinguibile.
Come da un setaccio,
adagio, scivolano granelli di sabbia che con il loro grigio
compongono l’indecifrabile disegno di differenti uomini e storie,
provenienti da lunghi e sofferti percorsi, dei quali non tutto
dobbiamo conoscere ma molto alla fine ci sarà rivelato.
Come si farebbe con
qualcuno o qualcosa che non siamo riusciti ad afferrare del tutto ma
ci ha profondamente turbato o colpito, li osserviamo ancora, giusto
nei pressi dell’ultimo crocevia che li ha fatti incontrare: un
attimo dopo ognuno sta già riprendendo il suo cammino.
3 commenti:
c'era in anatolia....per fortuna non c'era a Roma.....a Roma c'era solo l'alfabeto criptico di Paolo
Qualcosa mi dive che Ulisse non abbia gradito...dovrà parlare con le mie co-spettatrici!!!
Errata Corrige: dice
Posta un commento