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mercoledì 22 maggio 2013

LA GRANDE BELLEZZA di Paolo Sorrentino


Jep Gambardella (Toni Servillo), da ventisei anni vive a Roma e da sempre desiderava finire nel vortice della mondanità – esattamente là dove si trova adesso -  anzi, esserne il principe.
In gioventù fu un promettente scrittore capace di aggiudicarsi il premio “Bancarella” con il libro “L'apparato umano”, scritto che gli aprì le porte della “società bene”; ma ora che compie sessantacinque anni fa una scoperta forse sconvolgente: non puo' più perder tempo a fare quel che non gli va di fare!
Nonostante questa “estemporanea” presa di coscienza le sue giornate continuano a terminare con il sorgere nel nuovo sole -  proprio quando il resto delle città si sveglia – ed i suoi ospiti ad affollare l’ampio terrazzo di casa con vista sul Colosseo, uno spazio che talvolta somiglia al quadrato di un ring dove volano parole taglienti, cattiverie ed aspre scorrettezze anziché cazzotti.
Molti i drink ed i bicchieri tintinnanti lungo le notti svogliate che si trascinano fino all’alba, mai però così tanti da render le persone moleste: ed in fondo nemmeno avrebbero la forza di esserlo i “prototipi moderno-borghesi” che Sorrentino mette in primo piano nel suo ultimo film, controfigure di loro stessi che affondano con lenta consapevolezza nella mediocrità cafona,  mentre danzano sul pallore della loro vita a passo stanco, circondati da un cattivo gusto debordante ed a ben guardarlo persino imbarazzante.
Una Roma pelandrona e senza nerbo, oziosa ed odiosa, è il set ideale per metter in scena l'apatica ed annoiata lascivia del nostro tempo e Sorrentino aggiorna ad oggi “La Dolcevita” di Felliniana memoria con una sequenza di cartoline amare e cupe, talvolta forti delle sue visioni surreali,  confezionate con chirurgica precisione tecnica.
Ogni cosa sembra soffocare e cristallizzarsi senza rimedio: i suoi vitelloni stanchi, scrittori da romanzetto o millantatori di false sofferenze e vocazioni civili che furono, masticano amaro rimpianti ed insoddisfazioni, ostentano sorrisi e false serenità.
Si nutrono ancora delle loro vanterie seriose, di artifici pedanti e vuoti, vacuità necessarie per evitare il confronto con la loro meschinità.
Affogano nella tristezza appoggiando le labbra al bicchiere, tallonati dagli anni non trovano più nemmeno la forza per aver nostalgia dell'odore dei fiori o dei loro vent'anni: hanno perso l'attitudine alle belle cose!
Jep ed i suoi “simili” si muovono come fossero stanchi “morti viventi” nella notte, in mezzo alle bellezze antiche ed inerti della Capitale ed i monumenti attorno a loro sembrano divenire un antico e  gigantesco sepolcro che li avvolge; nella penombra – bella la grana fotografica di Luca Bigazzi -  i volti di marmo delle statue paiono osservarli con severa commiserazione, o  forse si tratta di  pietà! Poi, con benignità, volgono lo sguardo altrove.
Sorrentino usa il suo talento per disegnare ritratti impietosi e volgari che, partendo dall'indolenza di una romanità borghese che ha dissipato ogni illusione e concretezza, alludono forse anche ad un panorama ben piu' ampio, che è quello di un generale declino italiano.
Le sue visioni, forti al solito anche di “percezioni” che contaminano il reale di tratti survoltati, aprono squarci dolorosi sulla verità vana del nostro tempo: “Guru del Botox” con la siringa tra le dita vendono iniezioni di finta bellezza a settecento  euro a puntura (milleduecento se “hai tradito o deragliato dal percorso”); la “Santa” è una comparizione quasi onirica ed il suo “soffio divino” fa volar via i fenicotteri dal terrazzo, regalando ai nostri occhi una piccola suggestione fantastica.
I Principi veri si annoiano al tavolo da gioco mentre altri  nobili a noleggio, costretti a vivere nello scantinato delle proprie case, noleggiano se stessi per duecentocinquanta euro a “comparsa”, auto esclusa;  artisti concettuali e provocatori non sanno nemmeno di cosa parlano e rilasciano affermazioni ridicole,  convinti d’avere un radar personale per intercettare il mondo.
Intanto, sotto tutto il chiacchiericcio ed il rumore, sedimenta “la vita che non è stata”, il silenzio ed il sentimento, la bellezza e la paura.
Lasciandosi prevaricare di tanto in tanto dal troppo luccicante design degli appartamenti di lusso scelti per i suoi set, concedendo forse un pochino troppo la sua attenzione alla cura maniacale del dettaglio e ad una propensione per una immagina pulita e perfetta (che in alcuni casi rischia di sconfinare in un'algida freddezza), Sorrentino trova comunque il passo giusto per portare in luce l’insostenibile volgarità cafona dei salotti “d’alto bordo”, le baracconate travestite da eleganza per le quali un confronto di pochi secondi con la bella Fanny Ardant che illumina la notte in strada sono un abbagliante contraltare.
Tranne Servillo - che è il “trait d’union” del racconto - i suoi protagonisti (Verdone, Ferilli, Buccirosso e molti altri volti noti che compaiono anche solo per pochi minuti) rimangono in secondo piano rispetto al quadro generale: è l’insieme di una società decadente,  irrimediabilmente distante dai sogni, dall'innocenza e da qualsiasi consistenza, quello che si vuole descrivere, privilegiando soprattutto la costruzione per immagini, usate al meglio e con  grande efficacia; a supporto considerazioni sparse dal sapore letterario e filosofico, talvolta incisive ma non sempre organicamente inserite nei dialoghi.
Sceneggiato con Umberto Contarello “La grande bellezza” magari non varrà un trionfo a Cannes ma è abbastanza impietoso per farci  male e lasciare un segno indelebile, estetico e di sostanza, a futura memoria.
Il mondo degli esseri umani è seducente e feroce: della sua vera bellezza Sorrentino nulla ci mostra, totalmente sbilanciato ad osservare il  “versante nero”  con grande crudeltà cinematografica.
Una festa amara per gli occhi, uno stillicidio devastante per la speranza e per l'anima.

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