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martedì 2 aprile 2013

LA SCELTA DI BARBARA di Christian Petzold


Dopo aver richiesto  un visto per l’espatrio dal proprio paese Barbara (Nina Hoss), una giovane dottoressa, viene trasferita da un importante ospedale di Berlino ad una clinica di campagna di Dorgau.
Nel contempo diviene oggetto di continue attenzioni da parte della polizia politica del regime che la tormenta continuamente con le sue “visite inaspettate”, rovistando in maniera certosina tra le mura dell’appartamento che le è stato assegnato ed umiliandola persino con ispezioni corporali.
Siamo negli anni ’80, nella “D.D.R.” dove operava la “Stasi” e solo immaginare di esser liberi era  un difficile esercizio per i pochi che avessero osato cimentarvisi.
Christian Petzold - regista navigato ma senza una distribuzione nel nostro paese -  affida alla sua musa Nina Hoss il ruolo della protagonista e soprattutto grazie a lei costruisce una pellicola dai toni acuminati non priva però di risvolti romantici e dalla grande umanità;  atmosfere plumbee nonostante una fotografia dai colori accesi.  
Una volta spedita nel suo esilio forzato, Barbara continuerà a pianificare la sua fuga dalla Germania dell’Est grazie al fidanzato che lavora al di la del muro; nel mentre - nonostante la sua rigorosa riservatezza ed i tanti timori dettati dal sospetto - lascerà nascere una timida amicizia con il collega medico Andrè (Ronald Zehrfeld) e si imbatterà in Stella (Jasna Fritzi Bauer), una ragazzina indomita e ribelle -  fuggita dal riformatorio per i minori -  che aprirà una breccia nel suo cuore.
L’epilogo non sarà affatto scontato ed anzi rimescolerà  le carte, non assecondando le logiche aspettative e gli stereotipi classici dei racconti di questo genere.
Nella pellicola di Petzold c’è molto rigore nel descrivere apprensioni e cautele così come  le situazioni asfissianti  ed i sentimenti che - pur desiderandolo - stentano ad affiorare;  una certa rarefazione del tempo recitativo aggiunta ad una patina di freddezza stilistica  li argina in misura ancora maggiore,  fattori questi che contribuiscono anche a render  più chiara  l’atmosfera opprimente del regime e, per contrasto, daranno maggior  nitidezza poi a quanto  di palpitante emergerà nel finale.
Anime e corpi indocili cercano comprensibilissime vie di fuga ma finiranno  per  acquietarsi dove non sembrava potessero trovare  riposo: perché per Barbara  - e non solo lei -  le “vite degli altri” contano eccome e detteranno una svolta alla sua esistenza.
Sulla parete dell’ospedale c’è una riproduzione di Rembrandt e della sua allegorica “Lezione di anatomia del dottor Tulp”: ma il quadro originale è lontano e la libertà altrettanto, al punto che la si puo’ annusare al massimo odorando i vestiti che provengono dall’ovest.
Insalubre la vita quotidiana: ad ogni scoppiettare di motore sotto la finestra di casa l’angoscia sale immediata e la diffidenza nell’aria è talmente densa che la si potrebbe toccare.
Delazione, repressione, devastazione delle relazioni e della fiducia negli altri: questi solo alcuni dei lasciti disastrosi dopo il tramonto (ed il tradimento) del sogno comunista. Eppure anche in un inferno di privazione e controllo serrato si puo’ provare a vivere la propria condizione con grande dignità fino a realizzare il senso dell’esistenza.
Il film di Petzold sottolinea proprio quanto siano infinite le risorse dell’essere umano ed insopprimibile la sua meravigliosa natura quando - nonostante il concatenarsi delle negatività – riesca a far sgorgare le sue emozioni da ogni piccolo pertugio possibile dando comunque corso alla vita, malgrado la forzata convivenza con il dolore e la rinuncia e tuttavia riuscendo ad infliggere un invisibile  scacco matto a coloro che credevano di averlo ridotto alla resa.

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