Jasmine
(Cate Blanchett) è caduta in disgrazia: suo marito Al (Alec Baldwin)
sembrava un genio della finanza ed era invece un truffatore; come se
non bastasse, la tradiva.
Adesso
non sono più assieme ma con lui son volate via molte illusioni ed
anche tranquillità, soldi e benessere: ora è una “donna nella
tempesta” che viaggia – come “d’abitudine” in prima
classe e con i bagagli chiusi nella stiva dentro valige di “Louis
Vuitton” – su un volo che da New York la porterà a San
Francisco, dove trascorrerà un periodo a casa della sorella
“adottiva” Ginger (Sally Hawkins).
Dall’alta
società al proletariato con biglietto di sola andata il transito
non sarà meno che traumatico ma, già da qualche tempo, pasticche e
superalcolici hanno fatto la loro comparsa per sedare - nei
momenti più insopportabili della giornata – i suoi bruschi sbalzi
d’umore.
Studiare
computer con “l’evanescente” speranza di poter presto lavorare
“nell’arredamento on line”: sarebbe questa la strada scelta da
Jasmine per risalire la china ma, al momento, deve accontentarsi di
lavorare come segretaria in un anonimo studio dentistico,
trascrivendo nevroticamente in agenda gli appuntamenti richiesti dai
clienti pedanti ed indecisi, mentre il titolare dello studio le fa il
filo.
Mai
disperare però, perché Il principe azzurro che la porterà a
ballare il valzer a Vienna o potrebbe mostrarle la luna – magari
solo con il telescopio - è giusto dietro l’angolo. Ma questa non
è una favola bensì la vita, dove per scrivere il lieto fine c’è
bisogno di fare tutte le scelte giuste e non basta un semplice
tratto di penna!
Dopo
le “escursioni Europee” (purtroppo terminate nello scadente
capitolo Romano dello scorso anno) Woody Allen torna in America ed
è subito al meglio della sua condizione, con un film la cui
storia è costruita tutta attorno ad una magnifica Cate
Blanchett.
La
sua protagonista sfodera una prova straordinaria e - mentre cuce
la tela di un racconto del quale non tralascia di occupare nemmeno un
fotogramma - ci incanta esibendo la sua grande versatilità e
mostrandoci Jasmine (o Jeanette…) mentre si sgretola letteralmente
davanti ai nostri occhi, affogando tra rabbie e sorrisi isterici,
travolta lentamente da un diluvio di errori e di rimpianti.
Come
sempre i dialoghi sono un punto di forza irrinunciabile del
regista di Brooklyn, ma è la fitta ragnatela dei reciproci scambi
e delle interazioni di ogni sorta tra i protagonisti il vero sale di
“Blue Jasmine”.
La
colonna portante della pellicola è questo confronto continuo tra il
vivere, il sentire e l’agire dei vari personaggi, che provengono
da fronti diversi ma giocano la partita della vita incontrandosi sul
medesimo terreno.
Ad
esempio c’è chi è abituato da sempre a poter contare solo su se
stesso ed a vivere una situazione economicamente poco agiata e chi
invece, in “uscita” da una condizione dove il denaro era l’ultimo
dei problemi, ha trattenuto dal suo passato recente la convinzione
che per essere felici sia indispensabile disporre di beni materiali
in abbondanza, accompagnati da molto altro ancora di superfluo.
Due
sorelle (adottive e diversamente fragili) e due mondi distanti: una
sosta in Bmw davanti al Golden Gate, protesa con la mente in un
Pindarico volo verso un radioso futuro e l’altra si incontra
furtivamente con l’amante in uno squallido motel, non riuscendo a
sfuggire alle sue sublimazioni affettive, alle sue insicurezze ed ai
consigli sbagliati.
Piccole
e grandi bugie, ruoli obbligati e finzioni, fallimenti più o meno
devastanti e repentini cambi di comportamento: tutto questo assieme
ai rimandi intellettuali continui - per mezzo di frasi stimolanti
a decine - sono il “formicolio” continuo ed incessante, l’anima
che mai riposa in “Blue Jasmine”, pellicola tra le più
interessanti e riuscite di Woody Allen, probabilmente anche una di
quelle dove si ride meno e con il finale più amaro.
Cast
spumeggiante: Ginger, la sorella con il complesso del “gene
inferiore”, il suo fidanzato pacchiano e “perdente” Chili
(Bobby Cannavale) o il suo ex marito Augie (Andrew Dice Clay), con la
vita piegata suo malgrado da un fardello di imbrogli ed illusioni e
che, casualmente, si farà portatore dei conti del passato,
presentandone il saldo – nel momento meno opportuno - a chi stava
appena sognando di ricominciare a volare.
Su
tutti svetta la Blanchett: monumentale quando inquadrata in
primo piano che parla ai suoi nipoti della “medicina di Edison” e
del Prozac e nondimeno nel suo ventaglio di espressioni sofferte,
da donna continuamente esposta alle intemperie provocate dalle sue
istintive leggerezze, destinata a subire inevitabilmente il
crollo dell’edificio delle menzogne e degli sbagli da lei stessa
costruito in modo quasi inconsapevole, a volte per reazione istintiva
quanto isterica alle avversità delle vita; meravigliosamente
patetica nel rifiutare di sapere tutto quello che conosce
benissimo e comunque davvero memorabile, fino all’ultima
inquadratura, quando il suo sguardo resterà sospeso nel vuoto, forse
proprio mentre sta sfuggendogli l’ultimo appiglio buono per
rientrare nella sua vita.
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