Quando un film “compie” quarant’anni e “riappare” sul grande schermo, riuscendo già con la sua sola presenza a dimostrare una durevolezza delle sue qualità “artistiche e di sostanza” e, d’insieme, con il suo ritorno confermando di poter reggere ancora il confronto tanto con il tempo che con i suoi piu’ giovani “avversari” (….), c’è quantomeno da rimanerne (nuovamente) ammirati e nel contempo inevitabilmente domandarsene le ragioni…
“Il conformista” era, anzi “è”, l’ opera (tale è il sostantivo che riteniamo vada adoperato nel caso di specie) di un allora trentenne Bernardo Bertolucci, una pellicola di quelle che non lascio’ indifferente (...e neanche oggi dovrebbe…) nessuno della schiera degli appassionati della “settima arte”, e non per una questione di mero gusto ma perché le vennero riconosciute anzitutto alcune valenze opinabili non oltre una certa soglia, ed intendo riferirmi in primo luogo a dati oggettivi quali, ad esempio e giusto per incominciare, il superbo lavoro di fotografia svolto da Vittorio Storaro; immediatamente proseguendo e distanti da ogni giudizio critico e personale, vi fu l’innegabile coraggio del regista nell’affrontare tematiche scomode ed il suo scegliere strade impervie e poco consuete per sviscerarne i significati, il tutto unito ad una notevolissima padronanza dei mezzi che si tradusse in una libertà di interpretazione visiva di largo respiro, capace di alternare un raffinatissimo rigore formale affiancato da lampi si surrealtà, intuizioni “bislacche” (…noci…mele…), ricostruzioni della realtà destrutturanti quanto impudenti nonché uno slancio compositivo che si fece forte (ed anche oggi ben si avverte questa “solidità”…) di inquadrature sghimbescie ed atmosfere ora asfissianti, ora torbide ed enigmatiche, “incrociando usi ed abusi” metaforici o semplicemente “giocando” con le foglie autunnali….
Detto questo e volendosi invece inoltrare in una personale analisi della costruzione narrativa de “Il conformista” si può apprezzarne ancora oggi il suo ardimento nell’usare la tematica dell’omosessualità (…repressa...), sfruttata “a contrasto” (...oppure a supporto….) con il desiderio di approvazione da parte dei suoi consimili dell’essere umano e, di quest’ultimo, il suo talvolta insopprimibile bisogno di omologarsi per assolvere ad una urgenza psicologica non di rado pressante, riuscendo a cogliere il particolare dell’estremizzazione di tale comportamento e le sue derive piu’ pericolose, proprio utilizzando il tema/ soggetto de “Il Conformista” e la sua messa in opera, andando precisamente a rappresentare un certo risultato persino aberrante di questo agire e che senza dubbio potrebbe aver avuto comoda proliferazione durante un periodo come il Fascimo in Italia così come in qualsiasi altro tipo di Stato alle prese con una “rivoluzione anti-parlamentare ed anti-democratica”.
Senza dubbio Bertolucci “cedette” (ed anche con un certo compiacimento soddisfatto) ad una sua ossessione di stampo chiaramente avverso all’imposizione gerarchica, schematica e, non ultima, dittatoriale, e, restando nell’ambito del quale stiamo discorrendo, al periodo Mussoliniano della nostra storia, così non è di certo difficile notare quanto “Il conformista” sia intriso di stilettate al curaro contro i fedeli del Duce quanto contro i benpensanti pronti a sacrificare ogni dignità ed ideale personale per confluire nell’atono mare della “massa omologata” (primario scopo della pellicola, tra gli altri, quello di porre tale risultato in evidenza).
Con l’ausilio di figure retoriche ed analogie, “rimestando” tra il “mito della caverna di Platone” ed allegorici balli di ciechi (con bandiera tricolore alle spalle), il romanzo di Moravia dal quale è tratto il film prende una sua forma cinematografica compiuta e definita, sbeffeggia gli agenti della polizia fascista dell’ O.V.R.A. e mette alla berlina la chiesa ancorata al bigottismo ed al servilismo e che pare preoccuparsi piu’ dei sodomiti che non degli assassini, unicamente protesa a risolvere il dilemma unico (ed irrilevante?...) della concessione o meno dell’assoluzione..... permea tutta la linea del racconto di atmosfere affilate, ambigue e dalle sfaccettate rilevanze.
Bertolucci lascia campo al suo sguardo di cineasta sempre peculiare nel far emergere edonismo e trasgressione (…senza pause aleggia il fantasma del sesso sullo sfondo…), ed il suo “occhio”, come in quasi ogni suo lavoro, se non proprio “superiore” finisce per esser quantomeno “marcatamente diverso”.
Alle calcagna del “gelido” Marcello Clerici (Jean Louis Trintignant) il regista accosta l’occhio della sua cinepresa ad un esteso universo di figure di varia natura ed estrazione: dagli scodinzolanti servitori del regime agli uomini per i quali la normalità è tanto lavorare quanto guardare il sedere di una bella donna “così come fan tutti” e, quasi conseguentemente, per una “assurda relazione di affinità”, esser un vero camerata diviene un logico approdo nel preciso momento storico/culturale preso in esame.
Assecondando il suo sentimento anti-fascista, durante questa lavorazione sfociato chissà in catarsi, Bertolucci volteggia in mezzo a balli, inchini e sguardi taglienti, filma le capriole dell’animo umano, le finte e le vere inibizioni, per arrivare ad affermare i mali del pensiero unico e della repressione che vorrebbe creare “l’uomo nuovo” ed invece finisce per forgiare, senza il necessario etico esempio ma solamente usando l’imposizione, il nulla che si fa schiavo di se stesso.
Sottolinea la facilità dell’uniformarsi borghese che fugge dalle difficoltà di una approvazione attraverso l’affermazione di se del singolo uomo, che va invece guadagnata con fatica ,ed una volta di piu’ indica con nettezza come nella massa, confusi tra gli altri (…senza rischi…), si possa tutti esser “normali” ed addirittura affermare di aver compiuto il proprio dovere verso se stessi e la società, senza nemmeno doversi negare poi, quando verrà il momento, il diritto di voltare gabbana e godere alla finestra dello spettacolo di una dittatura che cade.
Eccola quindi la modernità per nulla scalfita de “Il conformista”, che emerge separando la trama dal suo argomentare riflessioni e concetti circa l’ esser “normali” solo quando si somiglia a tutti….
Bertolucci con una eleganza ammaliante ed uno stile “senza tempo” (ma per gli anni ’70 sicuramente “nuovo” ed in grado di lasciare il segno….), in un montaggio di flashback alternati al presente del suo protagonista, non fa sconti e non si impone alcuna censura, ad angolo giro punta il suo obiettivo da ogni fronte ed addita spietatamente il male dell’uomo e della società senza alcuna remora…
…nonostante l’eterna attualità del suo pericolo però il conformismo, immarcescibile e longevo come non mai, “scarta” ed evita il colpo……. pronto si riallinea già sulla sponda opposta, canta i nuovi inni, agita questo E quell’altro vessillo, che sia per Badoglio o per Mussolini........bianco o nero, non conta…..
Niente in fondo importa quando la mente subisce l’assuefazione del comportamento imposto, meno che mai la ragione….
FRANCO - 01 SETTEMBRE 2011
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