Biancaneve
nasce “anche” a Siviglia, all’inizio del secolo scorso: si
chiama “Carmen” ed è figlia del leggendario torero Antonio
Villalta (Daniel Gimènez), uno che combatte contro sei bestie alla
volta.
Ma
la sua venuta al mondo avviene in un giorno disgraziato: sua madre
(Inma Cuesta) morirà nel darla alla luce mentre il padre perderà
l’uso delle gambe; finirà poi per consegnarsi nelle grinfie della
suadente infermiera Encarna (Maribel Verdù), perfida e scaltra
abbastanza da farsi sposare dallo sventurato che ridurrà, in breve,
ad un fantoccio in suo potere.
Anche
“Carmencita”, dopo la morte della nonna (Angela Molina) sarà
obbligata a trasferirsi dalla matrigna che la costringerà a subire
angherie e soprusi, arrivando poi fino al punto di incaricare il suo
amante/servitore di portarla nel bosco per ucciderla.
Sulle
ali dell’abbuffata in patria di Premi Goya (ben dieci tra i
quali “miglior film”) e forte della sua candidatura all’oscar
2014 in rappresentanza della Spagna, arriva in Italia “Blancanieves”
del regista Pablo Berger, un fiaba surreale dall’anima (bianca
e) nera.
Prendendo
spunto dal racconto dei Fratelli Grimm il regista di Bilbao crea un
film che sembra arrivare direttamente dall’epoca del muto, ricco
di atmosfere gotiche; celebrativo della tauromachia, nelle
intenzioni vorrebbe poi veleggiare dalla favola verso chissà quali
altri lidi, passando attraverso licenze fantasiose e venature
macabre.
Ma
“Blancanieves” si arenerà presto a causa di una alquanto
monotona prevedibilità: nella prima parte difatti vediamo
perfettamente rispettato “il clichè di genere”, con la piccola
bambina (interpretata dalla brava Sofia Oria) vessata dalla matrigna
cattiva, costretta ad umilianti lavori ed impotente nell’aiutare il
padre; poi, una volta che questa sarà cresciuta e sfuggita al
controllo della perfida donna, arriva puntuale il cambio di passo ed
ecco che Carmen incontrerà sul suo cammino sei (e non sette!...)
“nani toreador”, i quali faranno affiorare le sue abilità
nascoste fino a condurla ad esibirsi nella stessa arena dove ebbero
origine le sue disgrazie (una sublime quanto facilmente ipotizzabile
apoteosi della rivincita).
In
opposizione a queste evoluzioni del racconto piuttosto scontate verrà
in soccorso il finale della storia che ha un suo
apprezzabile spunto creativo e si mostrerà capace di offrire un
sussulto di originalità e di struggente sentimentalismo; prima
di questo però, solo qualche piccolo siparietto di Encarna alle
prese con il pavido amante Genaro Bilbao (Pere Ponce) - suo succube
schiavo fino ad esserne letteralmente ridotto al guinzaglio –
aveva stuzzicato la nostra attenzione.
Nella
fiaba moderna la “regina” anziché il trono si vedrà sottrarre
dalla figliastra “Biancaneve” la fama e l’ambita copertina
della rivista “Lecturas” - simpatica intuizione anche questa
- ma niente di più oltre quanto appena accennato troverete di
stimolante e di davvero creativo nella pellicola di Berger,
ricolma di eleganti merletti e velette nere e fin troppo
straboccante di occhi sgranati ed espressioni “esageratamente
piene”, tutte uguali l’una all’altra.
Coraggiosamente
muto ed in bianco e nero, concepito senza parole come un
melodramma dalle tinte funebri che strizza l’occhio – per stessa
ammissione del regista – ai “Freaks” di Tod Browning,
“Blancanieves” patisce soprattutto di una originalità assai
intermittente e, nella seconda parte, della prestazione di una
protagonista spesso non all’altezza: la bella ma non altrettanto
brava Macarena Garcia, alla quale è affidato il ruolo di Carmen
una volta cresciuta.
Berger
però afferma incredibilmente di trovar la Garcia capace di
“trasmetter con gli occhi” come la Renèe Falconetti della
“Passione di Giovanna d’Arco” di Dreyer; questione di gusti
ma anche di sguardi: magnetici e magnifici quelli dell'attrice
degli anni venti, pallidi ed inutilmente lacrimosi quelli della nuova
musa dei giorni nostri!
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