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martedì 22 gennaio 2013

DJANGO UNCHAINED di Quentin Tarantino


Dopo aver disseminato la sua filmografia con  tante piccole citazioni stavolta Tarantino attinge al suo immaginario di riferimento a piene mani; prende in prestito – revisionandolo -  un  titolo di Sergio Corbucci del 1966 (“Django” oggi “Unchained”), con la stessa musica di quel film (di Luis Bacalov) ci apre il suo nuovo lavoro e  con  quella di “Continuavano a chiamarlo Trinità” di Franco Micalizzi ci accompagna i titoli di coda; per ultima cosa  riserva persino un piccolo e ironico cameo al nostro Franco Nero, protagonista della pellicola italiana di cui dicevamo all’inizio. Quindi  parte per un sostanzioso – e stratosferico! - omaggio a tutto campo all’amato “spaghetti-western”
E’ noto quanto l’ex “enfant prodige” del Tenessee ami scorrazzare in libertà quando pensa e costruisce i suoi film e non c’è da stupirsi se stavolta ha considerato buona l’occasione per metter sullo sfondo nientedimeno che lo spinoso argomento della schiavitù; in precedenza aveva osato prender di petto l’olocausto, ridicolizzando tra l’altro senza remore la figura di Hitler che, nel finale del film “Bastardi senza Gloria”,  periva addirittura  in un teatro in fiamme.
Stavolta, per ricamare sulla trama, sceglie il personaggio di  un singolare dentista, verboso e colto, che in realtà  lavora procacciandosi “carne per contanti” – sarebbe da intendersi un  cacciatore di taglie – ed a fianco gli mette uno schiavo “liberto” desideroso di apprendere un mestiere da sogno: quello di uccidere i bianchi ed esser pure pagato.
Nel ruolo del primo, il Dottor King Schulz, si cimenta l'ineccepibile Cristoph Waltz mentre per dare spessore e gloria al protagonista della pellicola Django “FreeMan” - occhio a non farlo arrabbiare, la “D” è muta e non si pronuncia - ecco l'attore Jamie Foxx.
Dopo aver raggranellato denaro durante l'inverno, accumulando cadaveri per i quali riscuotere compensi dallo stato, i due strani compari allo sciogliersi della neve tireranno dritto dal Tenessee fino al Mississipi, precisamente a Greenland, perchè nella tenuta del navigato negriero Calvin Candie (un Leonardo Di Caprio convincentemente cattivo) si trova Broomhilda (Kerry Washington), la moglie di Django.
All’arrivo ci sarà ad accoglierli un altro gustoso personaggio come quelli che solo Tarantino sa immaginare e poi modellare sul corpo ed il viso dei suoi attori: un negro impertinente e “stronzetto” che di nome fa Steven (il vecchio sodale di sempre, Samuel L.Jackson), che si rivolge al suo padrone Candie dandogli del tu in tono confidenziale: ma nonostante le apparenze solo uno comanda anche se quello che tiene il coltello dalla parte del manico non è scaltro abbastanza da capire velocemente l’aria che tira d’intorno.  
A Tarantino non interessa ricostruire la storia con la “S” maiuscola, nè quella che vedeva coinvolti Nazisti ed Ebrei,  tantomeno quella degli schiavi d’America: molto probabilmente nemmeno ambisce a reinventarla per davvero in una sua nuova dimensione verosimile, semmai potrebbe aspirare al massimo ad omaggiare coloro che hanno subito torti imperdonabili; di sicuro però brucia impaziente dal desiderio di soddisfare il suo ed il nostro palato, vuole saziare gli appetiti vellicando la pancia senza tralasciare di lusingare l’intelletto,  cercando di divertire e sorprendere confezionando cinema elegante  che non procuri accidiosi sbadigli, cosa che a dire il vero gli riesce davvero egregiamente.
“Django Unchained” è un fuoco di fila di due ore e quaranta che non conosce un attimo di noia, dove possiamo  divagarci ad esempio, con momenti di humor demenziale e denigratorio prima che un nutrito branco di beceri razzisti con dei “sacchetti bianchi” in testa parta per una missione punitiva al ritmo della “Carmina Burana” di Carl Orff e l’attimo dopo, in soli due minuti d’orologio, sentire riassumere la storia di “Sigfrido e il Drago”, parole epiche che, per lo spazio di un attimo,  spolverano di un’aura mitologica la  missione “estrema e romantica” che vedrà  Django partire per salvare la sua Broomhilda.
Nota a margine: l’eroe è un ex-schiavo negro che monta un cavallo e questo già è di per se stupefacente per il Sud America del 1858; figuriamoci poi le risate se questi come primo vestito da “uomo libero” va a scegliersi un completo da damerino blu fluorescente con fiocchetti bianchi penzolanti e lo ostenta tra la gente che lo osserva stupefatta e divertita.
Ride poco invece Shelton Jackson Lee - al secolo “Spike” – che  in Patria si è parecchio lagnato che la storia dei suoi avi sia stata così maltrattata ma,  per quanto risulti comprensibile che la sua sensibilità sia stata urtata dalla troppa libertà con cui il tema è stato trattato, forse il vero problema risiede nel fatto che il celebre ed ottimo regista afroamericano non disponga anzitutto di uno spiccato “sense of humour” e che poi non abbia  nemmeno lontanamente idea di cosa sia  uno “spaghetti western”.
Perché “Django Unchained” è principalmente una scorreria cinematografica di gran classe, un’avventura a più dimensioni che galoppa in grande libertà, un “divertissement” impetuoso che strizza l’occhio all’eccellenza e vorrebbe farsi capolavoro, una maniera strafottente e virtuosissima di fare cinema d’autore ed i piu’ curiosi potranno, qualora volessero, dare un’occhiata anche ad oriente al grande Takashi Miike ed al suo “Sukiyaki Western Django” del 2007, altro omaggio di simile fatta ma in salsa giapponese, tra l’altro con Tarantino nelle vesti di narratore.
L’ultima mezz’ora sono schizzi di sangue sulle pareti, canne di fucile e pistole fumanti e ad un certo punto, tra tante pallottole e teste bucate, si affaccia per una comparsata anche  “il Regista”; ma a quel punto il film ha già dato tutto  e non rimane altro che ammirare un finale ricco ed effervescente quanto per altri versi docile e scontato.
Questo è, ancora una volta – ed assai meglio di altre – Quentin Tarantino, un grandissimo, generoso e spericolato professionista, dal quale non si puo’ pretender nulla ed è lecito aspettarsi di tutto; già me lo immagino tra qualche anno o tra pochi mesi nell’atto di regalarci “Il capolavoro della sua vita” mentre lascia  basiti i giornalisti in  conferenza stampa: “Ve l’avevo detto ragazzi che da uno che GIOCA al grande cinema come me dovevate aspettarvelo, prima o poi!”

1 commento:

Unknown ha detto...

A parte le immagini veramente belle (protagonisti immersi nella neve, carrozza nella prateria, piantagioni incantevoli) mi hanno colpito moltissimo i costumi, molto curati ed eleganti