VISITATORI

venerdì 11 ottobre 2013

GRAVITY di Alfonso Cuarón


Qualche centinaio di kilometri sopra il cielo, nell’ “etereo cortile” antistante la loro navetta spaziale, alcuni astronauti confondono la loro sagoma in tuta bianca con gli astri luminosi.

Qualcuno sta apportando riparazioni ad un pannello elettronico: i bulloni non cadono per terra ma fluttuano nel nero stellato; altri per passare il tempo si producono in piccole capriole nello spazio, sprecando propellente prezioso che verrà rimpianto in seguito.

Le previsioni meteo non sono il massimo: “cielo (...) limpido” con possibile arrivo di detriti. Difatti, di li a poco, migliaia di schegge impazzite investiranno la zona alla velocità di oltre 80.000 kilometri l’ora, spazzando via tutto e risparmiando - dopo un impatto fragoroso - solo un uomo ed una donna, che verranno risucchiati nella solitudine di un buio infinito e profondo.

Comincerà una angosciosa deriva, fatta di momenti di forte scoramento ma non priva di speranza: raggiungibili, nelle vicinanze, vi sono una stazione orbitante russa, poi più in la una cinese.

Dopo una virtuosistica partenza di regia con un piano sequenza della durata di oltre dieci minuti - girato grazie ad artifici tecnologici e digitali che hanno permesso di simulare l’assenza di gravità di oggetti ed attori - Alfonso Cuarón dirige spedito il suo film verso lidi meno fantascientifici di quelli che potremmo immaginare, premurandosi con la sua camera di immortalare soprattutto primi piani di umanissima disperazione.

L'ingegnere medico (ed inesperta astronauta) Ryan Stone - una Sandra Bullock davvero brava a donare identità al suo personaggio e capace di farsi praticamente carico di tutto il peso della storia - dovrà imparare molto e piuttosto in fretta.

Leggendo i manuali scoprirà come si guidano i moduli spaziali (più o meno come faremmo noi volendo usare un nuovo gingillo tecnologico, appena dopo averlo comprato), dovrà apprendere cosa vuol dire “distaccarsi e lasciar andare” e non potrà più rimandare l'elaborazione di un luttuoso dolore che da anni la accompagna: da adesso l’energia vitale ed il coraggio per tentare di trarsi fuori dai guai saranno proporzionali a quanto saprà esser presente a se stessa ed ancora desiderosa di vivere.

Mentre la morte alita addosso a chi è perduto in uno sterminato e profondo silenzio – al cui fascino soggiogante si potrebbe finire presto per fare l’abitudine - la vista unica dell’aurora, bellissima, illumina la madre terra: visto da lassù e separato dal suo caos il nostro mondo è senza dubbio l'immagine splendida di un “paradiso”/(terrestre), così come ognuno di noi potrebbe sognarlo.

Nel deserto stellato ogni uomo torna davvero solo con se stesso, a tu per tu con il buio siderale del cosmo ma anche della sua coscienza, temporaneamente separato persino dalla sua stessa vita, lasciata ad attendere su un pianeta ora incredibilmente lontano. Nello spazio tutto assume differente luce e gradazione e anche l’anima si rifrange in modo inconsueto attraverso il prisma della vita; all’improvviso appare chiaro che auto infliggersi ripetitive giornate che dalla sveglia portano al lavoro in ospedale, poi a dormire e all’indomani di nuovo ad uno stanco ed abitudinario ripetersi, non puo’ considerarsi un'esistenza degna di esser vissuta.

All'interno di una stazione orbitante, con attorno cordoni penzolanti, Cuarón ritaglia per la sua protagonista una immagine dove questa occupa il centro della composizione in posizione fetale: forse un indizio cinematografico che vuole simboleggiarne “una” rinascita.

L'immedesimazione con quanto accade sullo schermo è forte e costante: dallo sconforto irrimediabile muoviamo verso una ritrovata speranza passando per un assurdo mayday con le terre artiche: al riguardo, qualcuno all'ultimo Festival del Cinema di Venezia potrebbe aver avuto occasione di vedere il corto/controcampo “Aningaaq” di Jonas Cuaron, figlio del regista e sceneggiatore della pellicola. Ora a quel frammento – che già viveva di luce propria - si potrà restituire “un” suo senso più esteso e completo.

Quella proposta dal regista Messicano e dai suoi protagonisti (bravo anche George Clooney/Matt Kowalsky, astronauta veterano e protagonista a tempo determinato) forse non è né la cronaca di un grande viaggio, né una storia davvero pazzesca, piuttosto un singolare racconto umano scaturito da una situazione eccezionale, narrato con encomiabile lucidità ed un taglio cinematografico molto realistico, davvero raro per storie di questa ambientazione. “Gravity” non cede mai, nemmeno per un attimo, ad una deriva noiosa o alla tentazione di fare mero spettacolo.


Le lacrime fluttuano nell’aria e si allontanano: facendo fare altrettanto alle angosce si potrebbe forse sperare di “riemergere” alla vita. Comunque andrà a finire, mamma ora parla con ritrovata grazia interiore al suo angelo perduto e gli manda a dire che ha finalmente ritrovato la sua scarpetta rossa.

Nessun commento: