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domenica 20 gennaio 2008

COUS COUS di Abdellatif Kechiche


Una volta entrati in sala bastano pochi minuti per comprendere il motivo dei tanti “peana Veneziani” rivolti all’indirizzo di “Cous Cous”, l’ultimo eccellente lavoro di Abdellatif Kechiche, regista Francese di origine araba.

Forse è la prima inquadratura del protagonista, Sliman, a rapirci dentro le pieghe di questa pellicola, o forse per meglio dire sarà la stessa tecnica di camera a mano, che, prodiga di inquadrature strette e primissimi piani che spesso estromettono i corpi in luogo di volti ed occhi, ci porta direttamente a contatto con l’anima ed i pensieri dei personaggi di questa storia (magnifiche le lacrime di Rym vicino alla finestra…); oppure saranno le riprese che non indugiano mai sui dettagli ma che ce li regalano tutti senza esclusione, in una sequenza che rassomiglia piu’ alla vita vista dalla nostra soggettiva piuttosto che da quella di una poltrona del cinema, a renderci un “unico elemento”  con questo film che tra dialoghi e sguardi sembra non voler prender mai un respiro.

Semplice e scarna l’intuizione narrativa: Sliman, immigrato di “vecchia generazione”, perde il lavoro, oramai avanti con gli anni, e preso il coraggio con entrambe le mani decide di tentare la carta di un progetto ambizioso, intelligente e rischioso, quello di aprire un ristorante ristrutturando un vecchio barcone arrugginito dove il piatto forte sarà l’eccezionale “Couscous” della sua ex-moglie. Verrà aiutato nella realizzazione di questa “avventura” dai suoi figli e da quella della sua nuova compagna, Rym, andando incontro a contrasti e difficoltà che ovviamente non è il caso di spiegare qui ma semmai di vedere direttamente in sala.
Kechiche ha voglia di raccontare la “sua gente”, quei “francesi diversi” di origine extra-europea che pure sono  tessuto vivo della Francia odierna, e lo fa usando proprio “quegli stessi protagonisti”, ovvero attori “beur” non professionisti o di limitatissima esperienza, ottenendo un risultato straordinario e toccante oltre che di un livello “estetico” molto alto e pregevole.

La rappresentazione di “cultura contaminata” che ne esce fuori è affascinantissima: sullo schermo si succedono, in immagini o parole,  birra e couscous, “mani e posate” a tavola (“strabocca” dallo schermo la bella e  lunga scena conviviale del pranzo di famiglia), lingua araba, russa e francese, seni naturali o rifatti, battesimi e circoncisioni assieme a intolleranze ataviche e piccoli e grandi pregiudizi, precarietà del lavoro ed odi e vicissitudini familiari.

Questo film lungo ma “da bere in un sorso” parte come il precedente di Kechiche, “La Schivata”, da un microcosmo (in precedenza erano gli adolescenti delle “banlieu” Parigine) ma stavolta arriva a rappresentare culture, aspetti sociali e familiari di una intera nazione se non di un largo pezzo di mondo.

Tensioni e sorprese vengono create quasi dal nulla e “con il nulla” (una pentola che rischia di cadere, una pietanza scomparsa, una telefonata, il furto di un motorino) e dopo una prima parte apparentemente “lenta e senza trama” ma “propedeutica” alla seconda, il film ogni minuto che passa sembra poter svoltare in una direzione diversa ed inaspettata, repentinamente, laddove per mezzo del “caso” la vita muta di continuo da bene a male, da gioia a dramma e viceversa, e quando poi cala il buio tra i tavoli del ristorante e la prorompente potenza femminile sotto forma di danza “cambia il corso delle cose” e  si erge a “geniale” colpo di teatro vero e proprio, a “sfida” e passione, a vittima sacrificale come a gesto d’amore generoso in una scena bellissima, “ritmica” quanto memorabile, è quasi impossibile trattenere il brivido in sala.

“Couscous” è un affresco apparentemente ridotto ma che è invece in grande stile, amplissimo, fatto con piccolissimi pennelli e colori basilari, che parte da personaggi e stili di vita comuni, elementari per arrivare a descrivere nel profondo e con chiarezza e stile elegante realtà complesse e diverse di oggi come di ieri.
Abdellatif Kechiche “sublima”,non solo spiritualmente ma anche nella “veste”, la lezione italo-francese dei vari Rossellini, De Sica, Sautet e Truffaut (ma dietro le quinte c’è pure tanto lavoro, professionalità severa, poca improvvisazione ed anche stavolta Marivaux, come ci spiega la “protagonista rivelazione” premiata a Venezia Hafsia Herzy) e regala nuovamente lo scettro del cinema all’Europa, scalzando  Coreani, Iraniani e magnifici “orientali vari”, passando però paradossalmente per “la via dell’Arabia”.

…..Poi di colpo arriva in tavola il Couscous (ma anche tra le mani di un povero barbone di strada), si “schianta” in terra Sliman, applaudono le mani sullo schermo ed in sala e cala il sipario su di un film “silenziosamente sontuoso” che potreste non pentirvi mai abbastanza di aver perduto.

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