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mercoledì 10 luglio 2013

LA QUINTA STAGIONE di Peter Brosens e Jessica Woodworth


In uno sperduto paesino delle Ardenne si saluta l’inverno con una sorta di festosa cerimonia, incendiando una catasta di legna; ma stavolta le fiamme non vogliono saperne di accendere il buio della notte e nei giorni seguenti neve e freddo non cederanno il passo  alla primavera.

Così, come per effetto di un sortilegio, il ciclo della natura viene sconvolto: le api non producono più miele e fuggono via, le mucche non danno il loro latte, semi e terra si incontrano sterilmente e nulla germoglia a nuova vita.

Brosens e Woodworth non intendono affatto spiegarci il perché di questo misterioso accadimento – e difatti non lo faranno – ma si concentrano sulle reazioni e le conseguenze che ne patisce la piccola comunità di uomini, che certamente vuole esser anche  rappresentativa di tutto il genere umano qualora fosse messo alla prova da una calamità di questo tipo.

Il “tempo nuovo” è inarrivabile e sospeso: tutt'intorno si sparge un senso di perdizione e disgrazia, mosche ed altri insetti divengono un cibo prezioso e ci si prostituisce per non più di una busta di zucchero o di sale.

Mentre neve e pioggia disegnano di grigio il panorama il caos è alle porte. Crescono l’egoismo ed il pregiudizio, la superstizione presto sfocerà in prevaricazione: occorre un capro espiatorio, come in un antico rito propiziatorio che possa liberare dalla malevolenza degli dei.

I due registi indicano chiaramente nella loro pellicola  come il crescere dell’incertezza della moltitudine che smarrisce le sue coordinate di civiltà e del vivere comune si produca in una reazione quasi univoca, individuando come bersaglio  “lo straniero  ed  il diverso”.

Si riducono a brandelli i sentimenti ed il rispetto dell’altro, l’anima nascosta e luciferina dell’essere umano in un attimo rinviene in superficie così come tutta la sua avidità e cattiveria, persino il suo istinto assassino.

“La quinta stagione” inscena tutto questo attraverso atmosfere che ondeggiano tra una realtà che scivola verso il surreale ed i richiami ad alcuni quadri fiamminghi (specie nelle inquadrature larghe),  osserva lo stravolgimento di alcune consolidate dinamiche sociali ed il riemergere repentino di tutti gli istinti primordiali (i peggiori!), ipotizzando con il suo stile tenue ed elegante, distante dalle pellicole catastrofiste di genere già viste a decine, cosa potrebbe accadere percorrendo questa orribile china di declino.

Austere e gradevoli composizioni dal sapore pittorico ma nessuna vera novità: semmai conferme di chi sarebbe il primo  a divenire vittima e chi si proporrebbe al ruolo di carnefice, come però già molte altre storie (pellicole) o romanzi  hanno profetizzato o confermato.

Nel panorama di desolazione ed aridità qualcuno dei protagonisti riesce ad evitare di oltrepassare i confini dell’inumano e dell’odio,  disperatamente attaccato alla residua forza della compassione mentre vaga attraverso terre di disperazione.

Brosens e Woodworth invece si fermano poco prima di riuscire a dare vero (nuovo) risalto e spessore cinematografico alle ambizioni della loro pellicola.

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