L’attore
Gauthier (Lambert Wilson) da Parigi si reca fino all’Ile Du
Rè per tentare di convincere lo scontroso collega Serge
(Fabrice Luchini) – allontanatosi dalle scene e rifugiatosi nel suo
sperduto casolare come un eremita – a partecipare ad una
messinscena teatrale de “Il Misantropo” di Molière.
I
due concorderanno di procedere con una settimana di prove -
durante le quali, facendo testa o croce, si alterneranno
quotidianamente nei ruoli di Alceste e Filinte – e al termine
sarà Serge a decidere se accettare o meno la proposta di Gauthier.
Mentre
le spire del testo li risucchiano e sono immersi nel tentativo di
trovare il giusto sentimento ed un’anima sincera per i loro
personaggi – giammai tralasciando di ricamare discorsi su quale sia
l’opportuna dizione per interpretarli – visitando appartamenti
in vendita, nei momenti di riposo, faranno la conoscenza di Francesca
(Maya Sansa), una donna italiana da poco lasciatasi con il marito ed
impegnata nel suo trasloco.
Dopo
un iniziale primo incontro, piuttosto brusco e scortese, emergeranno
non poche affinità tra i tre ed una particolare intesa sembrerebbe
nascere tra Francesca e Serge.
Philippe
Le Guay imbastisce - poggiandosi sul solido telaio dell’opera di
Moliere - una commedia ricca di preziosi suggerimenti, per mezzo
della quale trova modo di insinuarsi tra i vezzi e le bizze degli
attori e, molto più per esteso, di tutti gli esseri umani,
scandagliando da vicino le contraddittorie singolarità dei
caratteri di ognuno dei suoi protagonisti.
Alceste
sembrerebbe trovare la sua incarnazione perfetta in Serge/Luchini ma
non poco della sua indole iraconda ed indomabile albergano - in
diversa forma - anche negli altri due protagonisti: non è per caso
che in diversi momenti del racconto il vecchio adagio “i
simili si attraggono” sembra trovare una sua evidente conferma.
Risulterà
vero altrettanto però che non basta somigliarsi per vivere assieme
quieti e felici ed anzi, nella fattispecie, “i nostri”
finiranno in un modo o nell’altro inevitabilmente per collidere.
Con
un pochino di presunzione - e non senza punte di risentito sarcasmo
e cinismo - Serge terrà sulla corda Gauthier che, a sua volta,
eviterà di sottolineargli le sue mire non del tutto disinteressate:
poi non mancherà di sferrare un colpo scorretto alla prima
occasione buona.
Seguendo
la via maestra, ovvero lasciandosi condurre dal testo di
Molière, Le Guay divaga anche in altre direzioni, offrendoci
qualche scorcio alternativo tra riflessione e divertimento: così
facciamo la conoscenza di una giovane attrice in erba che diserta le
opere classiche ed i palchi del teatro ed a questi preferisce
singolari set cinematografici in allestimento a Bucarest, dove
conta più il corpo che non la dizione; poi in poltrona, seduti
davanti alla televisione, gusteremo “deliziosi” estratti da
una puntata della fiction “Docteur Morange”, il chirurgo
televisivo che opera i suoi pazienti tra tempeste di neve o di
sabbia, interpretato proprio da Gauthier, che con quel personaggio
ha conquistato la notorietà ed un ragguardevole cachet da 200.000
euro a puntata.
Ma
è soprattutto durante le prove che vediamo montarsi e smontarsi le
armonie e le empatie, che affiorano gli opportunismi e le piccole
codardie o si affacciano i desideri, i rimpianti e le nostalgie, tra
una corsa in bici ed una passeggiata in spiaggia e, mentre i
personaggi maturano e prendon forma dal copione - tra commenti
beffardi ed inappuntabili indicazioni sulla metrica Alessandrina -
all’ombra della finzione prosegue e fiorisce nuova vita vera ed i
rapporti umani fanno il loro corso.
Talvolta
sarà la realtà ad infondere forza ai personaggi che poi dovranno
“staccarsi” ed avventurarsi sul palco, in altri momenti sarà
l’esatto contrario e saranno i versi di Moliere a gettare lo loro
ombra invadente sulle persone in carne ed ossa, assoggettando al
loro verbo un presente in gran parte ancora somigliante a quanto
scritto secoli addietro: da allora il genere umano pare esser
rimasto immutato ed aver mantenuto in bella vista i soliti
deprecabili difetti.
Il
finale non vedrà sorrisi festosi e brindisi con coppe di champagne
ma solo occhi smarriti che poggiano lo sguardo in direzioni diverse:
sull’orizzonte che affoga dentro la lontana linea del mare o da
un palco a curiosare tra gli spettatori mentre una parola,
sinuosa, sale fin sulle labbra (“indicibile”….spaventosa o
spaventevole!).
Così,
in un istante, i giorni più recenti confluiscono in un solo unico
tentennamento, rendendo visibile a tutti noi - con
inequivocabile chiarezza - la germinazione ottenuta dal seme gettato
nella “terra dissodata del vivere assieme”.
Sarà
proprio questo pronunciamento a mezza bocca l’ultimo e
sorprendente piccolo lascito ad affiorare, l’antidoto agli egoismi
ed ai risoluti rifiuti, l’antitesi inaspettata ai rancorosi lamenti
di Alceste e dei suoi proseliti, di tutte queste iperboli -
legittime o ingiustificabili - contraltare fugace e paradossale ma
anche incontestabile testimonianza di un tempo condiviso, di uno
scambio, magari anche minimamente affettivo o soltanto relazionale,
culturale: che nulla marcisce nel nulla e sempre qualcosa rimane
del tempo che scorre, a dispetto persino di noi stessi e delle nostre
più bieche intenzioni.
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