Wladziu
Valentino Liberace, virtuoso pianista del Wisconsin, classe
1919, di origini Italo-Polacche, per gli amici (e per gli
amanti) semplicemente “Lee”.
A
cavallo tra gli anni ’50 e ’70 fu uno degli artisti con il più
alto cachet della sua epoca: il suo nome è iscritto nella “Walk
of fame” di Hollywood, una statua in cera lo ricorda a Las Vegas al
museo di Madame Tussauds e Lady Gaga lo cita ai giorni nostri nella
canzone “Dance in the Dark”.
Intrattenitore
televisivo con un suo programma (“The Liberace Show”), talentuoso
interprete di Liszt e di sfrenati Boogie Woogie, adorava vestirsi
con mantelli di ermellino uniti a fiammeggianti abiti luccicanti e
viveva in una sfarzosa villa simile ad una reggia, arredata secondo i
dettami di un insolito stile “kitsch imperiale”.
Sembrerebbe
innegabile che Steven Soderbergh, ancora intenzionato a prendersi
un “periodo sabbatico” di lontananza dal cinema per dedicarsi ad
altro - tra cui sicuramente teatro e televisione – di carne da
mettere al fuoco, per il suo “ultimo” lavoro, ne avesse in
abbondanza.
Di
questo eccentrico ed interessante protagonista dello spettacolo
Americano (certo assai meno noto in Europa di quanto non lo fosse
invece oltreoceano) il regista di Atlanta racconta l’ultimo
decennio di vita, dal finire degli anni ’70 al 1987. E’ durante
questo periodo che ebbe una relazione con il giovanissimo Scott
Thorson che, quando lo conobbe, era nemmeno ventenne. Ad
interpretarlo è chiamato un Matt Damon già oltre i quaranta anni,
sufficientemente credibile però nel suo ruolo in virtù di una prova
più che ispirata.
Nonostante
diverse indiscutibili evidenze Liberace (Michael Douglas)
finchè ebbe fiato per respirare negò sempre con decisione la sua
omosessualità, arrivando al punto di denunciare il “Daily
Mirror” – ottenendo ragione - quando nel 1957 ventilò dalle
proprie pagine l’ipotesi che fosse gay. Alla sua morte le
dichiarazioni ufficiali parleranno inizialmente di complicazioni
cardio-vascolari per nascondere l’Aids e la sua sieropositività.
Aggiungete
a tutto questo che l’estroso show man si dichiarava anche un
“fervente cattolico”, dal momento che riteneva Dio avesse avuto
per lui un “particolare occhio di riguardo” durante il decorso di
una sua grave malattia e che, nel contempo, non considerava né
peccaminosi, nè in antitesi alla sua “vocazione religiosa”, gli
insaziabili languori carnali dei quali sembra fosse spesso preda ed
avrete un'idea di quanto poco rischierete di annoiarvi durante la
visione di “Dietro i candelabri”.
Il
film di Soderbergh non nasconde affatto la natura “sfacciatamente”
omosessuale dell’artista americano, al punto che proprio per questo
motivo gli studios di Hollywood hanno rifiutato di produrre il
soggetto e si è dovuto attendere l’innesto di capitali della
“televisiva HBO” per poter passare alla fase di lavorazione.
Michael
Douglas incarna con passione il suo personaggio, rendendone al meglio
le contraddizioni e le curiose sfumature, colorando di un simpatico
estro barocco ogni suo gesto, dai suoi smodati appetiti sessuali
alle numerose disarmonie ed interpretando al suo meglio la figura di
un uomo intimamente convinto che un artista non dovesse sovvertire
l’ordine del mondo ma soltanto divertire il suo pubblico e,
“vivaddio”, vendere bibite e qualche souvenir!
La
figura di Liberace emerge come quella di un uomo effervescente,
istrionico ed eccessivo, oppresso da un vago senso di solitudine
per quanta gente potesse avere vicino: come capita spesso quando le
situazioni sono prodighe di denaro e divertimento, molti gli
ronzavano attorno soltanto per ottenerne qualcosa. Ben conscio del
suo ruolo di “potere e di comando” su chi aveva accanto, era
anche capace di slanci generosi ed amorevoli quando pienamente
coinvolto in un rapporto affettivo, al punto da voler sinceramente
essere per il suo uomo padre, fratello, amico e amante.
Difatti
Liberace e Thorson si prenderanno cura l’uno dell’altro per
diversi anni, dividendo il loro tempo tra lavoro, sesso e shopping,
entrambi preda di una focosa passione amorosa ed ovviamente vittime
di qualche inevitabile litigio.
Alla resa dei conti l'amore prevarrà
sulla gelosia ma, improvvisamente, la loro relazione prenderà una
brutta china e, per motivi che non vi raccontiamo ora, non giungeremo
affatto a vedere il classico lieto fine!
Soderbergh
non nega alla sua pellicola la quasi imprescindibile baldoria
dei colori accesi e dei fastosi dettagli e si avventura tra gli
scintillanti lustrini “armato” di una perigliosa ironia,
camminando sicuro entro il perimetro di un campo minato e
continuamente esposto al pericolo del ridicolo eppure - senza
trascurare di certo il pittoresco e debordante contorno estetico -
riesce a puntare dritto alla sostanza, senza troppa enfasi o
superflue romanticherie e nemmeno nascondendo le spigolosità di un
rapporto comunque a suo modo intenso e pieno di sentimento.
Scott
era un “senza famiglia”, senza arte nè parte mentre il suo Lee
era un divo famoso e pieno di denaro, pervaso da singolari manie. Nel
periodo passato assieme le posizioni dei due rimasero tutto
sommato ben definite e le differenti origini determinarono una
diversa suddivisione dei ruoli e l’accettazione o meno di una
condizione parzialmente fatta anche di dominio e subalternità.
Durante
la loro “liaison” Liberace si prese persino la licenza di
“ricreare” il suo amore a propria immagine e somiglianza: sarà
questo il momento in cui la pellicola offrirà alcuni tra gli spunti
più interessanti grazie ad una sanguinolenta rappresentazione della
sala operatoria - che risulterà di certo repellente ed indigesta ai
sostenitori della chirurgia estetica - ed in virtù del divertente
cameo di Rob Lowe nei panni del Dottor Jack Startz, medico in grado
di far restare i suoi pazienti (…clienti!...) letteralmente ad
occhi aperti! Nella parte di Seymour Heller, manager di Liberace,
troviamo invece Dan Aykroyd ed in quelli della madre Debbie Reynolds.
“Behind
the candelabra – My life with Liberace” è la biografia –
scritta da Thorson qualche anno dopo la morte di Liberace - dalla
quale Richard LaGravenese e lo stesso Soderbergh hanno tratto
l’adattamento cinematografico.
Il
titolo prende spunto dal vezzo che aveva il pianista di suonare
sempre con un candelabro poggiato sul pianoforte, sembrerebbe dopo
averlo visto fare nel film “L’eterna armonia” di Charles
Vidor, dedicato alla vita di Fryderyk Chopin. Detto questo il
cerchio sembra davvero chiudersi e l'approdo sul grande schermo di
questa storia come già scritto a chiare lettere nel libro di un
inevitabile destino.
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