Richard Stoker muore carbonizzato nella sua auto il giorno del diciottesimo compleanno della figlia India (Mia Wasikowska).
La giovane ragazza e la madre Evelyn (Nicole Kidman) non hanno ancora terminato di versare lacrime per il dramma occorsogli che dentro casa loro si stabilisce il misterioso fratello del defunto: lo zio Charlie (Matthew Goode).
Da dove viene quest’uomo, come mai prima nessuno ne aveva nemmeno sentito parlare e cosa nascondono le misteriose ombre del suo passato?
Mentre la vedova sperimenta il potere di seduzione del nuovo inquilino e India si dibatte tra il dolore e le respingenti domande che fanno vacillare le sue sicurezze ecco che il rapporto tra i soggetti in campo tende già ad un mutamento repentino: un bicchiere di vino color “rosso sangue” cerca di far breccia con entrambe e di carpirne la benevolenza o, meglio ancora, la loro amicizia. Ma in fondo, non sono già parenti?
Portando con se le tematiche a lui care – violenza e vendetta – ed incastonandole in atmosfere che richiamano il vecchio stile di alcune pellicole di Hollywood tra gli anni ’40 e ‘60, Park Chan Wook da Seul si trasferisce in America: la produzione gli da quaranta giorni di tempo per portare a termine il suo compito e lui la accontenta offrendogli un lavoro raffinato ma decisamente più glamour ed emotivamente inerte rispetto ai precedenti, con i quali ci aveva fin troppo viziato.
La costruzione è ordinata, la compostezza di ogni immagine impeccabile: i candidi fiori bianchi si schizzano di rosso, le matite disposte a misura scompaiono nell’attimo di un click nell’astuccio che le contiene ed ogni stato di agitazione viene ingoiato dagli occhi vitrei dei protagonisti; la partitura di pianoforte a quattro mani è picchiettata da dita che sbattono sui tasti suonando note morbose mentre esalano in superficie sensazioni languide ed affiorano le paure.
Lo zio Charlie viene trasposto da “L’ombra del dubbio” del maestro Hitchcock e la doccia nella quale India lava via le angosce, concedendo refrigerio ai suoi frementi ardori, è una evidente citazione da “Psycho”: nessun plagio o presunzione, semmai devozione ammirata che inchioda però il lavoro di Park Chan Wook ad esser letto alla stregua di un notevole esercizio di stile e ricerca certosina del dettaglio, facendolo inevitabilmente arretrare sul fronte della personalità, accusando anche una certa staticità ed afasia ed una quasi totale assenza di vere tensioni e colpi di scena.
E’ un triangolo freddo - nei colori e nella recitazione - quello tra la madre, la figlia ed il destabilizzante ospite a sorpresa, dove affiorano gli irrisolti rapporti ed i crimini, le follie represse o nascoste ed attorno al quale giungono infine per formularsi gli interrogativi cari al regista Coreano come a molti altri della sua schiera: siamo responsabili di cio’ che siamo diventati? E’ l’ambiente e la vicinanza degli altri a renderci violenti oppure è già tutto scritto, addirittura ereditario ed al di fuori del nostro controllo tanto che ci è concesso solamente di poter al massimo deviare o placare gli istinti?
Molte le visioni d’autore ma non troppo inquiete, sostanzialmente senza la forza necessaria a scuoterci, incapaci di generare troppe domande o soddisfare risposte. Più simile ad un omaggio in guisa da grande appuntamento o ad una citazione possente e prolungata, “Stoker” è materia per cinefili di buon gusto ma rimane ondivaga e fatica a costruirsi una identità propria: si racconterà della sua bellezza innegabile e persino invidiabile – soprattutto rispetto allo scialbo panorama d’attorno – sempre però portando altro a pietra di paragone, come si fa quando tutto è estremamente piacevole ma sa di già visto e di già accaduto.
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