“La
vita di Adèle”, recente trionfatore all’ultimo festival di
Cannes, quasi non pare esser il frutto di una finzione attoriale, a
tal punto quel che questa riproduce spesso pare sgorgare
direttamente dalla fonte complessa, magmatica ed in costante
tensione della vita stessa.
Di
questo magnifico risultato la pellicola è debitrice - in parte
consistente - alla eccellente
interpretazione della giovanissima Adèle (Adèle Exarchopoulos),
colei che sopra tutti è investita del compito di guidarci nel
labirinto umano - sentimentale e non soltanto - che il film vuole
rivelarci.
Preda
di ondate passionali o sperduta tra le mille incertezze, Adèle è
sempre di una impressionante naturalezza ed in virtù di questa in
grado di condurci ben oltre la condizione della sua recitazione; la
Exarchopoulos, con dolcezza ed ingenuità, ci trascina precisamente
al centro della sua tempesta di emozioni: lapilli incandescenti di
vita in eruzione, diluvio di sensazioni incontrollabili e difficili
da razionalizzare.
Kechiche,
da par suo, individua in un generoso uso di primi, primissimi piani e
dettagli il metodo più efficace per creare un vortice che attiri a
se ogni cosa ed annulli ogni distrazione possibile,
totalizzando lo schermo nella sua interezza e non lasciando via di
scampo all'immedesimazione progressiva dello spettatore.
A
questo aggiunge poi la sua particolare predilezione nel mostrarci il
rapporto dei suoi protagonisti con il cibo (ricordate “Cous
Cous”'?), spargendo a piene mani inquadrature ravvicinate di bocche
che tirano su spaghetti e si sporcano di sugo, poi che succhiano
ostriche o addentano kebab.
L'istintiva
e quasi primordiale carnalità cinematografica del suo modo di
raccontare verrà accentuata ben
di più quando - non avendo nessuna accondiscendenza nei confronti
dello spettatore - giungerà il momento di filmare la dimensione dei
corpi in amore: Kechiche valicherà allora senza timori i confini
imposti dal tabù, lasciando il campo ad immagini prive di censura ed
inibizione ed indugiando abbondantemente e senza limiti di tempo nel
mostrarci la passione.
“La
vita di Adèle” (liberamente tratto dal fumetto “Il blu è un
colore caldo” di Julie Maroh) è anche intriso di un sapore
fortemente letterario: citazioni generose giungono da “La vita di
Marianna” di Marivaux e dall’ “Antigone” di Sofocle; poi si
passa a Sartre e successivamente – con una disinvolta capriola -
si farà cenno ai testi delle canzoni del più giovanile Bob Marley.
Quanto
letto nei libri indirizza ed in qualche misura “profetizza” ed
annuncia quel che accadrà in seguito ma, più in generale, sono
ogni parola - urlata o sommessa – e qualsiasi piccolo gesto o
dettaglio che finiscono, quasi sempre, per conquistare particolare
risalto ed importanza nel film di Kechiche. Gli spettatori più
attenti non avranno difficoltà a riscontrare l'inscindibile legame
sotterraneo della vita dei protagonisti con gli impulsi dettati
dall'arte o dalle concettualizzazioni filosofiche; probabilmente
molto più evidenti invece agli occhi di tutti gli sconfinamenti del
sentimento tra sesso e passione e le strade parallele o contrastanti
del piacere e della felicità.
Kechiche
trova il modo di dare corpo e parola - come la poesia - “a mille
ed altre cose che non c'è bisogno di capire”. Riesce a
mostrare come l'arte, che talvolta confluisce con la vita, la lasci
poi rifluire nuovamente fuori, uguale e diversa.
Poi
sa anche guardare con profondità a cose più tangibili e concrete,
come l'inevitabile peso del conflitto tra le diverse classi sociali
ed alla sensazione di disagio che questo farà affiorare nel rapporto
tra Adèle ed Emma (Léa
Seydoux), l'altra bravissima protagonista della pellicola.
In
questo magnifico film ogni cosa
riesce a sembrare per quel che davvero è, ovvero una continua
scoperta, dai libri al sesso,
dall’assaggiare i frutti di mare al cercare il “gusto ed il
sapore” delle relazioni personali: Adèle
bacia le labbra degli altri, uomini o donne, come volesse assaggiar
la vita e cercare risposte; poi
punta i suoi occhi verso di noi e letteralmente ci sequestra con il
suo sguardo e la sua spontaneità espressiva, accrescendo la sua
influenza sullo spettatore ad ogni lacrima che si impasta nei fili
scompigliati dei suoi capelli.
Kechiche
scandisce un ritmo lento alla sua storia , quasi consigliandoci di
“osservare la vita danzare al suo tempo”, l'unico che ce la
possa mostrare davvero: nel suo
territorio cinematografico ogni inezia ha uno spessore enorme,
esattamente come nella realtà.
“La
vita di Adèle” è un continuo baluginare di istinti viscerali e
passionali, un costante affluire di sensazioni che, muovendosi dai
confini esterni della vita (quadri, pensieri, letteratura) spingono
forte verso l'interno; è una esplosione di possenti estasi
inconsapevoli e necessarie - del cibo o dei sensi, dei piaceri
diversi che attingono alle stesse fonti - delle attrazioni reciproche
inesorabili, dell’amore e delle sue tenerezze infinite, talvolta
costretti loro malgrado a percorrere strade che potrebbero finire per
essere ineluttabilmente divergenti.
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