Qualche
centinaio di kilometri sopra il cielo, nell’ “etereo cortile”
antistante la loro navetta spaziale, alcuni astronauti confondono la
loro sagoma in tuta bianca con gli astri luminosi.
Qualcuno
sta apportando riparazioni ad un pannello elettronico: i bulloni non
cadono per terra ma fluttuano nel nero stellato; altri per passare
il tempo si producono in piccole capriole nello spazio, sprecando
propellente prezioso che verrà rimpianto in seguito.
Le
previsioni meteo non sono il
massimo: “cielo (...) limpido”
con possibile arrivo di detriti.
Difatti, di li a poco, migliaia di schegge impazzite investiranno la
zona alla velocità di oltre 80.000 kilometri l’ora, spazzando via
tutto e risparmiando - dopo un impatto fragoroso - solo un uomo ed
una donna, che verranno risucchiati nella solitudine di un buio
infinito e profondo.
Comincerà
una angosciosa deriva, fatta di
momenti di forte scoramento ma non priva di speranza:
raggiungibili, nelle vicinanze, vi sono una stazione orbitante russa,
poi più in la una cinese.
Dopo
una virtuosistica partenza di regia con un
piano sequenza della durata di oltre dieci minuti
- girato grazie ad artifici tecnologici e digitali che hanno permesso
di simulare l’assenza di gravità di oggetti ed attori - Alfonso
Cuarón
dirige spedito il suo film verso lidi meno fantascientifici di quelli
che potremmo immaginare, premurandosi con la sua camera di
immortalare soprattutto primi piani di umanissima disperazione.
L'ingegnere
medico (ed inesperta astronauta) Ryan Stone
- una Sandra Bullock
davvero brava a donare identità al suo personaggio e capace di
farsi praticamente carico di tutto il peso della storia - dovrà
imparare molto e piuttosto in
fretta.
Leggendo
i manuali scoprirà come si guidano i moduli spaziali (più o meno
come faremmo noi volendo usare un nuovo gingillo tecnologico, appena
dopo averlo comprato), dovrà apprendere cosa vuol dire “distaccarsi
e lasciar andare” e
non potrà più rimandare l'elaborazione di un luttuoso dolore che
da anni la accompagna: da adesso l’energia vitale ed il coraggio
per tentare di trarsi fuori dai guai saranno proporzionali a quanto
saprà esser presente a se stessa ed ancora desiderosa di vivere.
Mentre
la morte alita addosso a chi è perduto in uno sterminato e profondo
silenzio – al cui fascino soggiogante si potrebbe finire presto per
fare l’abitudine - la vista unica dell’aurora, bellissima,
illumina la madre terra: visto da
lassù e separato dal suo caos il nostro mondo è senza dubbio
l'immagine splendida di un “paradiso”/(terrestre),
così come ognuno di noi potrebbe sognarlo.
Nel
deserto stellato ogni uomo torna davvero solo con se stesso, a tu per
tu con il buio siderale del cosmo ma anche della sua coscienza,
temporaneamente separato persino dalla sua stessa vita, lasciata ad
attendere su un pianeta ora incredibilmente lontano. Nello
spazio tutto assume
differente luce e gradazione e anche l’anima si rifrange in modo
inconsueto attraverso il prisma della vita;
all’improvviso appare chiaro che auto infliggersi ripetitive
giornate che dalla sveglia portano al lavoro in ospedale, poi a
dormire e all’indomani di nuovo ad uno stanco ed abitudinario
ripetersi, non puo’ considerarsi un'esistenza degna di esser
vissuta.
All'interno
di una stazione orbitante, con attorno cordoni penzolanti, Cuarón
ritaglia per la sua protagonista una immagine dove questa occupa il
centro della composizione in posizione fetale: forse un indizio
cinematografico che vuole simboleggiarne “una”
rinascita.
L'immedesimazione
con quanto accade sullo schermo è forte e costante: dallo sconforto
irrimediabile muoviamo verso una ritrovata speranza passando per un
assurdo mayday con le terre artiche: al riguardo, qualcuno all'ultimo
Festival del Cinema di Venezia
potrebbe aver avuto occasione di vedere il
corto/controcampo “Aningaaq” di Jonas Cuaron,
figlio del regista e sceneggiatore della pellicola. Ora a quel
frammento – che già viveva di luce propria - si potrà restituire
“un”
suo senso
più esteso e completo.
Quella
proposta dal regista Messicano e dai suoi protagonisti (bravo anche
George Clooney/Matt Kowalsky,
astronauta veterano e protagonista a tempo determinato)
forse non è né la cronaca di un
grande viaggio, né una storia davvero pazzesca, piuttosto un
singolare racconto umano scaturito da una situazione eccezionale,
narrato con encomiabile lucidità ed un taglio cinematografico molto
realistico, davvero raro per
storie di questa ambientazione. “Gravity” non cede mai, nemmeno
per un attimo, ad una deriva noiosa o alla tentazione di fare mero
spettacolo.
Le
lacrime fluttuano nell’aria e si allontanano: facendo fare
altrettanto alle angosce si potrebbe forse sperare di “riemergere”
alla vita. Comunque andrà a
finire, mamma ora parla con ritrovata grazia interiore al suo angelo
perduto e gli manda a dire che ha finalmente ritrovato la sua
scarpetta rossa.
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